di Annalisa Bosco

Depoliticizzazione della paura e selettività epidemiologica: ogni società produce per sé le proprie vulnerabilità, e le epidemie ce lo ricordano. Un approfondimento sui popoli dell’Amazzonia

La peste è il peggiore dei nemici perché è un enigma. L’immaginario che il COVID-19 sta producendo è lo stesso. Di fronte alla peste si impazzisce, le città si chiudono, il senso di alienazione è grande. Ognuno è potenziale nemico reciproco del prossimo ma in modo indefinito, non come in guerra in cui il nemico è l’ “altro” ed è riconoscibile. Nel suo presentarsi, nel corso della storia, la peste ha portato con sé una serie di allegorie della fine, intese come fine della vita, come morte, mettendo in mostra il venir meno della sicurezza. L’attuale virus, come la peste, mette a nudo le nostre città e le nostre case, i luoghi della paura, che sono dentro di noi.

Eppure questa paura divampante sembrerebbe oggi essere stata spoliticizzata, come se si trattasse di un sentimento di cui vergognarsi. Non sorprende, allora, se il presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, guardando il Paese piegato di fronte all’emergenza sanitaria- primo in classifica per numero di vittime e contagi nel continente latinoamericano- abbia affermato che il COVID è solo una gripezinha (leggera influenza).

Sull’altro versante, la Rete Ecclesiastica Panamazzonica (REPAM), l’8 Aprile scorso, riporta dei dati sconcertanti: la crescita esponenziale dei contagi e dei decessi nel territorio amazzonico è rispettivamente del +344% e +521% a distanza di una sola settimana. Questa numerologia della paura fa crescere l’allarme per le popolazioni indigene, le più vulnerabili di fronte all’emergenza sanitaria poiché svantaggiate dal punto di vista dell’accesso all’informazione, alle risorse e ai servizi base. Inoltre, i dati noti oggi, escludono quasi sempre le zone rurali e più isolate dai conteggi statistici.

Le “epidemie in suolo vergine” hanno da sempre rappresentato una minaccia per gli indigeni, un fenomeno avviato in America Latina con l’espansione europea e con il colonialismo, portatori di agenti patogeni contro i quali la popolazione autoctona non presentava immunità.

Alla base della scomparsa delle civilizzazioni esiste infatti una percentuale di causalità di tipo epidemiologico che con il tempo si è fatta strada tramite diversi canali fino a giungere a quelli relativamente più recenti come l’estrattivismo o la monocoltivazione. Con la spagnola (1918-19) si rilevò che la mortalità nelle comunità del Nord America e in quelle amazzoniche era dell’80%. In altre parole molte di queste persero la quasi totalità dei propri abitanti.

Esistono diversi parallelismi tra le prime epidemie e l’attuale pandemia. Per cominciare, il COVID è un virus estraneo alla scienza per il quale non esiste ancora una cura specifica. I popoli indigeni, in generale, tendono a vivere in aree geografiche remote che, se da un lato sembrerebbe essere un vantaggio, dall’altro rappresenta una criticità. La distanza dai centri urbani, innanzitutto rende spesso difficili gli spostamenti e, poi, consolida la dimenticanza.

Infatti è più probabile che ci si dimentichi di una fascia di popolazione quando non è del tutto visibile o accessibile- in termini di viabilità. Un discorso a parte va fatto per i popoli non contattati. Sarebbe inpensabile intervenire ora in un’area del globo che non ha mai avuto contatti con l’esterno. Eppure non sono mancati episodi simili. Il gruppo di evangelizzazione brasiliano, Ethos 360, ha, infatti, tentato- invano- di avviare una missione in piena pandemia verso una comunità in isolamento volontario al grido della salvezza dalla morte incombente sul mondo.

In un contesto come quello odierno, in paesi in cui il sistema sanitario è al collasso e la disponibilità di beni di prima necessità è limitato, occorre considerare che esistono una serie di problemi strutturali che rendono i confini comunitari più permeabili di fronte al COVID-19.

Il livello socio-economico indigeno generalmente basso implica, di fatto, disturbi cronici di salute della popolazione dovuti anche alla malnutrizione e ai cambiamenti che la loro dieta tradizionale ha subito nel tempo. Tale situazione trova fondamento nel sempre più difficile approvvigionamento di risorse nelle comunità amazzoniche per via della contaminazione di aria, acqua e suolo causata dalle imprese estrattive, dalle monocoltivazioni e dall’incursione straniera più in generale.

La battaglia contro il COVID ha avviato anche un fenomeno di banalizzazione delle conseguenze per le categorie più vulnerabili della società. I governi latinoamericani, depoliticizzando la paura, escludono la possibilità di un reale intervento nelle comunità indigene in termini di informazione, prevenzione e risposta al virus. Il vero problema, in questo caso, è che alcuni indigeni potrebbero morire senza che nessuno associ l’episodio alla sintomatologia del COVID, facilitando, così, una propagazione nei territori ancestrali e esponendo al rischio di sterminio interi popoli.

Di fronte all’inerzia dei governi le popolazioni amazzoniche dell’America Latina hanno, pertanto, avviato forme di auto-governo per fronteggiare l’emergenza in atto.

In rete circola molto materiale tradotto in lingua indigena sui metodi preventivi, su tutte quelle attività quotidiane che devono essere necessariamente riadattate a un contesto pandemico. Pertanto si vieta l’entrata agli stranieri nei territori ancestrali e, allo stesso modo, se ne proibisce l’uscita agli abitanti; le malocas – strutture in legno usate, per esempio, durante i rituali sciamanici- vengono ora convertite in spazi per la quarantena obbligatoria di chi rientra dalla città o da altre comunità; si evita che la condivisione del cibo avvenga mediante uno stesso recipiente; le mani vanno lavate spesso evitando la vicinanza con gli altri, per quanto possibile; eccetera.

In alcuni paesi, come in Ecuador, gli anziani- categoria maggiormente a rischio la cui sparizione comporterebbe enormi perdite culturali- si sono rifugiati nella selva più inoltrata. I Taitas Siekopai hanno così raggiunto le proprie comunità più remote, al confine con il Perù. La decisione è stata presa anche per fronteggiare la carenza di cibo, come mi riferisce telefonicamente il leader, Justino Piaguage, sottolineando che nelle ultime settimane il fiume Aguarico pullulava di pesci morti, probabilmente per via delle sostanze tossiche presenti nelle acque dello stesso.

Justino prosegue, poi, dicendo che gli effetti delle limitazioni provocate dal virus iniziano a farsi sentire: le famiglie senza alcun appoggio da parte del governo; i bambini costretti a casa e impossibilitati nella continuità delle lezioni on-line perché non dispongono di connessione internet; i pesci che vengono dal Río Shushufindi sembrerebbero essere stati avvelenati. Su questo ultimo punto e sulle possibili cause resta il dubbio. Il leader sostiene che potrebbe essere per via delle sostanze chimiche scaricate in acqua dalle imprese palmicultrici o dai prodotti utilizzati dai coloni per le proprie attività ittiche.

Tuttavia, occorre far luce su una questione ben più allarmante. Nonostante un mondo quasi del tutto in stand-by, le operazioni estrattive (legali e illegali) di petrolio e minerali non si sono mai fermate.

Il caso ecuadoriano è emblematico. A seguito di una erosione che ha provocato la rottura di uno degli oleodotti più importanti del paese, lo scorso 7 aprile, il petrolio ha iniziato a riversarsi nelle acque del Coca, raggiungendo poi anche il Napo. Dato l’intervento tardivo e nullo da parte dei ministeri, ora l’allerta riguarda anche il vicino Perù. Questo episodio ha reso ancor più difficile il confinamento nelle comunità per ovvie ragioni.

Le confederazioni indigene dell’Ecuador hanno denunciato l’assenza statale in generale tramite appello a una azione urgente affinché venga garantito il diritto alla salute e la tutela della vita. Pertanto viene chiesto di includere gli indigeni nei piani assistenziali così come in quelli decisionali circa la gestione dell’emergenza e la sicurezza alimentare.

“Oggi temiamo l’invisibile, che ci angoscia. Il più sfibrante e sterile fra i sentimenti”. Forse proprio questa intangibilità ha decostruito il significato stesso del termine pandemia: pan demos, dal greco, significa “tutto il popolo”, ma è davvero così? È davvero una “guerra” civile planetaria?

Il virus ha moltiplicato le barriere fisiche e mentali seguendo delle dinamiche quasi mai omogenee e secondo intensità diverse, in modo selettivo: colpisce duramente alcune aree del globo e ne risparmia altre. Immancabile il grido al complottismo che vede nella recente cartografia (del male divampante) i centri nevralgici del globo piegarsi prima in Cina, poi in Europa, infine negli USA, cuore pulsante del pianeta, economicamente e geopoliticamente.

Tuttavia, ogni società produce per sé le proprie vulnerabilità, e le epidemie ce lo ricordano.

Il dilemma della sicurezza che, oggi, molte comunità indigene stanno affrontando, questa possibilità- o certezza- di esser lasciate in balia del nemico, col tempo si è soltanto consolidata, rendendola una costante nella lotta per la salvaguardia delle culture ancestrali.

Pubblicato su  lamericalatina.net

Foto di copertina: Annalisa Bosco “Siekopai nel loro territorio, comunità di San Pablo (Shushufindi)” 

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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