Tutta l’evidenza della lotta di classe, tutte le contraddizioni del capitalismo moderno in salsa liberista vengono fuori proprio in queste settimane, mentre la pandemia accelera in alcune zone ad alta densità (e produttività conseguente) del Pianeta e mentre inizia a deflettere le sue mortifere curve in altri continenti precedentemente colpiti dal Covid-19.

Nei paesi come il nostro, come gli Stati Uniti d’America, la Francia, la Spagna, la Germania, quindi nell’asse che congiunge gli interessi finanziari al di qua e al di là dell’oceano, gli effetti del Coronavirus hanno fatto emergere in assoluta nettezza tutte le discrepanze che esistono in una società apparentemente lanciata verso il migliore dei mondi possibili e, in realtà, costruita sui piedi di argilla di uno sfruttamento della forza-lavoro che coinvolge quasi tre miliardi di salariati dai quali, per ottenere il massimo in termini di produttività, si separano garanzie e tutele sociali essenziali per la riproduzione della stessa mano d’opera operaia.

La brutalità del capitalismo si esprime invece in altri poli di sviluppo economico nello sfruttamento becero del lavoro minorile: in questo frangente, Asia e Africa mostrano da decenni un impiego di bambini e bambine nelle industrie manifatturiere che riportano alla mente la lotta sindacale di Iqbal Masih, emblema di una ribellione ad un sistemico utilizzo dell’infanzia nell’ingranaggio del profitto, sottraendo centinaia di migliaia di ragazzi alla loro giusta e naturale vita.

L’Unicef stima in quasi 200 milioni il numero di minori impiegati in fabbriche che potrebbero essere chiaramente etichettate come “opifici della morte“, ammesso che esistano davvero industrie dove tutto fili liscio nonostante le mancate precauzioni, gli standard di sicurezza inevasi per evitare burocrazia, lacci e lacciuoli di Stato, e trarre nel frattempo da tutto ciò – oltre che da una poderosa evasione fiscale mediante il lavoro pagato in nero – il massimo degli introiti non tassabili.

Dalle fabbriche che producono palloni da calcio, tappeti e tessuti rivenduti sui nostri mercati a bassissimo prezzo, tinteggiati da altrettanti lavoratori intossicati dalle sostante chimiche impiegate a basso costo, per trarre sempre maggiore profitto dallo sfruttamento di persone e cose, si arriva all’impiego dei minori nelle guerre imperialiste sparse per l’Africa e per il Medio Oriente. I “bambini soldato” sono una piaga di una umanità che non vede, che volta lo sguardo, così anche per i campi di concentramento libici dove le torture più violente, gli stupri e le vessazioni sono all’ordine del giorno nei confronti dei migranti che hanno attraversato il deserto per approdare sulle sponde del Mediterraneo.

Giusto ieri pomeriggio, alla radio della Confindustria, si discuteva delle implicazioni che il Covid-19 ha posto alla sfuggevole attenzione dei padroni. La teoria era questa: va bene, bisogna sanificare le aziende, i reparti, i singoli posti di lavoro e dare ai lavoratori tutte le garanzie possibili per lavorare in sicurezza. E questo lo si affermava con quel sospiro poco consolatorio di chi non può che arrendersi all’evidenza rivoluzionaria non comunista ma, molto semplicemente, di un virus che, al momento, spaventa molto di più delle proteste operaie e sindacali.

Poi si continuava così: ma se, nonostante tutte le precauzioni che un imprenditore può e deve prendere, un lavoratore si ammala di Covid-19… ecco… come si dimostra che ciò è avvenuto in fabbrica e che quindi il fatto è attribuibile a mancanze di garanzie e sicurezze sul posto di lavoro, comunque sia è addebitabile in forma di cassa integrazione e di nuova chiusura dell’azienda per emergenza sanitaria al padrone stesso?

Insomma, argomentazioni e speculazioni (nel vero senso della parola) se ne trovano sempre per evitare di limitare i danni del Coronavirus dal punto di vista del bene comune, provando a garantirsi quel profitto mancato in questi mesi e che fa urlare Confindustria al dramma epocale se persino il quotidiano dei vescovi (non “il manifesto” o la non più in edicola “Liberazione“) osa evocare la redistribuzione dell’orario di lavoro, quindi la sua diminuzione mediante la formula “Lavorare meno, lavorare tutti” (aggiungiamo noi, naturalmente a parità di salario) per fronteggiare tanto la crisi sanitaria, quanto quella economica e pure quella egoistica del padronato.

Secondo la categoria antisociale guidata da Bonomi, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario altro non sarebbe se non un modo per litigare, quasi per provocare una furibonda reazione padronale che, a dire il vero, va data per scontata.

Ma non va dato per scontato invece il fronte che reclama riforme di questa natura; storiche battaglie del movimento comunista e operaio oggi vengono condivise anche da ambiti così difformi dalla critica sociale di classe come la Chiesa cattolica: naturalmente non tutta, ma se i vescovi, in questo, sposano la visione solidaristica di Francesco, significa che hanno percepito l’umore della popolazione, il crescente impoverimento che si aggiunge a quello già endemicamente presente in una società ipersfruttata, ai limiti di nuovi schiavismi soprattutto tra le giovani generazioni.

Andrea Orlando, riprendendo qualche rimasuglio di reminiscenza di sinistra rimasta per caso nel PD, evoca addirittura la presenza dello Stato nei consigli di amministrazione delle aziende che vengono sostenute con l’intervento pubblico.

Nulla di rivoluzionario, si intende, ma è pur sempre un ritorno a quel passato in cui l’idea del pubblico tendeva a prevalere su quella del privato, almeno nelle forme, e riusciva a conquistare qualche spazio in più per allargare la maglia dei diritti sociali così compressi dai tempi della fine della “scala mobile“. Tutto ciò riemerge dopo molti decenni, dai tempi dell’impeto craxiano, dello slancio berlusconiano, della trasformazione dell’Italia da luogo di contrattazione a luogo di concertazione e di privatizzazioni sempre più prepotentemente avanzanti nel panorama di una ideologia politica servilistica, soprattutto a sinistra (PDS, DS e poi PD), nei confronti del nascente liberismo di allora.

Ma non c’è da temere, la reazione del governo sarà comunque improntata non al ritorno della prevalenza egemonica cultura-sociale del pubblico sul privato, nemmeno sulla spinta della paura pandemica, dello strame generato dalla caduta del PIL e quindi di una ricchezza nazionale sempre e soltanto letta in chiave imprenditoriale (deve per forza reggerlo qualcuno il peso dell’assioma secondo cui a produrre il benessere dell’Italia sono coloro che “fanno impresa“…).

La reazione del governo, la sua politica nei prossimi mesi verterà sul compromesso tra un mondo del lavoro che patisce la crisi attuale in modo esponenziale rispetto al mondo imprenditoriale, non avendo nessun accumulo di risorse per poter sostenere i costi che la pandemia impone (o che gli speculatori che approfittano della diffusione del Covid-19 impongono… salvo essere scoperti dalla Magistratura…) ed un mondo padronale che piagnucola per una recessione che significa indubbiamente perdita di peso sulla bilancia mondiale della ferrea legge della concorrenza, ma che non sarà mai paragonabile alla schifosa, grama vita di un migrante che invia ogni mese 250 miserabili euro alla famiglia in Nigeria mentre ne guadagna appena 3 o 5 all’ora nei campi a raccogliere pomodori in Puglia.

La tanto sbandierata “regolarizzazione” dei migranti da parte di Bellanova e Italia Viva, osteggiata da Crimi e dal Movimento 5 Stelle come una “sanatoria” non tollerabile prima di tutto politicamente, è una proposta di mercato e non certo una riforma sociale e umanitaria al tempo stesso. Rischia di essere pure un regalo a Salvini che potrebbe nuovamente fare la voce grossa tanto contro l’esecutivo (al pari di quotidiani che ieri parlavano, senza un briciolo di vergogna, di “sostituzione etnica” tra morti per Covid-19 e regolarizzazione di 600.000 migranti…) quanto contro i Cinquestelle mettendo ancora una volta a confronto il loro passato nel Conte I e poi nel Conte II.

I migranti verrebbero regolarizzati – nemmeno poi definitivamente – per esigenze meramente economiche e non certo per un cambio di rotta del governo sul tema dell’immigrazione, del lavoro sommerso, dello sfruttamento schiavistico nei campi del nostro Bel Paese.

Vengono dunque a galla tutte le contraddizioni antisociali di un sistema produttivo omicida e si rigenera la funzione “rivoluzionaria” di una classe borghese e padronale che da un lato scalpita per riprendere il processo di generazione del profitto mediante un più intensivo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici senza cambiare nulla nel loro potere di acquisto; dall’altro lato, allo stesso tempo, frena come opposizione di classe nei confronti di un adeguamento delle condizioni di lavoro, di vita e di riproduzione del lavoro stesso all’emergenza sanitaria, sociale ed economica che ne è effetto.

Non ci si può attendere nulla dall’istinto di sopravvivenza degli imprenditori in termini di recupero o avanzamento dei diritti sociali del moderno proletariato diviso tra occupati, inoccupati, disoccupati e precari di ogni tipo. Non ci si può attendere se non veramente poco da un governo la cui unica funzione sociale risiede nel compromesso continuo, nella impossibilità strutturale a divenire un avamposto di ristrutturazione dell’equilibrio di diritti e dei doveri, facendo parti diverse tra classi differenti.

Defiscalizzazione dei profitti, aumento degli aiuti di Stato agli imprenditori e un po’ di soldi a pioggia sono tutto quanto si può vedere nella scenografia del moderno teatro dell’assurdo politico che va in scena. Si salva solo qualche voce dal sen fuggita che riesce persino a contraddire il vecchio detto di Ovidio ripreso da Metastasio, perché questa o quella rivendicazione troppo sociale viene definita, nel migliore dei casi, “statalista“, bollata così con infamia. E messa a tacere, riportata nel “sen“.

Non ci si può attendere nulla dal campo governativo: ma da quello delle opposizioni sociali, sindacali e politiche, neocomuniste, anticapitaliste e varie che siano… cosa possiamo, cosa dobbiamo, cosa vogliamo e pretendiamo di attenderci?

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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