di Cosimo Pica e Francesco Brusa

La Turchia vive da quattro anni in uno stato d’emergenza permanente: dopo tentativi di golpe, repressione e operazioni militari, con l’attuale crisi sanitaria Erdogan cerca di aumentare ulteriormente il proprio potere

Se la protesta non può scendere nelle piazze e nelle strade, ecco che entra direttamente nei corpi. Come fosse, al di là delle metafore, un virus, una malattia che consuma. Oltre che dall’emergenza sanitaria che si è estesa in tutto il mondo, i primi mesi del 2020 in Turchia sono stati segnati dalla morte di tre persone legate a Grup Yorum: i musicisti della band Helin Bölek e Ibrahim Gökçek e il militante Mustafa Kocak erano vicini all’area del marxismo-leninismo rivoluzionario e sono tutti deceduti in seguito a lunghi scioperi della fame. Protestavano contro le detenzioni per accuse di terrorismo che hanno investito alcuni di loro, ritenute ingiuste, e contro la legge del 2016 che impediva al gruppo di esibirsi in giro per il paese. Protestavano contro il fatto che, come ha scritto poco prima di morire il bassista Ibrahim Gökçek in una lettera, «l’Akp al governo (il partito del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, ndr) a ogni crisi, intensifica le sue aggressioni e reprime fasce sempre più numerose della popolazione». Sarebbe deceduto di lì a poco, il 7 maggio, mentre quattro giorni più tardi la Turchia entrava ufficialmente nella cosiddetta “fase 2” dell’emergenza Covid-19. Riapertura di parrucchieri, barbieri e centri commerciali, con parte della popolazione rimasta in casa che si riversava nuovamente nelle strade. La salma di Ibrahim Gökçek, invece, è stata sequestrata dalla polizia in seguito a scontri e disordini verificatisi durante il suo funerale.

EMERGENZE SENZA FINE

Si può discutere su quanto l’emergenza sanitaria dovuta alla Covid-19 abbia rappresentato una discontinuità nel contesto turco.

Se guardiamo agli ultimi quattro anni, vale a dire dal tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016, ci sono stati più periodi di “eccezione” politica e legislativa rispetto ai momenti di normalità: l’ohal, cioè lo “stato di emergenza” proclamato in seguito alle sventate manovre di natura eversiva, è stato di volta in volta prorogato fino ad arrivare all’estate del 2018.

Da lì dunque, solo poco più di un anno di stabilità ufficiale, in cui però la società turca è passata da un ulteriore inasprimento della repressione nella parte est del paese, con numerosi commissariamenti di città curde e arresti dei sindaci del Partito democratico dei Popoli Hdp, e da un rinnovato impegno bellico nel nord della Siria dato dall’operazione “Fonte di pace”, con cui Ankara si è creata una zona di ingerenza in Rojava. Non stupisce allora che la parola con cui si è venuta a caratterizzare l’azione dello stato per combattere la Covid-19 sia un termine dallo smaccato retrogusto militare: “coprifuoco”, ovvero un generico divieto di uscire per strada, che – come racconta Fabio Salomoni in un reportage per “Gli Asini” – «[ha] fatto scattare nella popolazione l’associazione di un periodo di confinamento dalla durata indefinita».

«Nei fatti, il coprifuoco ha solo messo maggiormente in luce le divisioni di classe presenti nel paese», afferma però Özgür Karaduman, rappresentante dell’associazione di tutela dei diritti sociali Sosyal Haklar Derneği di Istanbul, che ha tra l’altro recentemente curato un rapporto sulla gestione dell’emergenza Covid-19 nella città sul Bosforo. «Le persone che sono rimaste a casa sono quelle che hanno potuto permetterselo. Gli altri hanno dovuto invece assumersi il rischio di continuare a lavorare. Non è un caso, infatti, che la parte di popolazione maggiormente colpita dal virus sia costituita dai lavoratori e in particolare dalla classe medica». A oggi, la Turchia ha 162.000 casi totali di Covid-19 con 4489 decessi confermati, dati tutto sommato bassi ma che la rendono comunque il paese mediorientale più colpito. Si tratta a ogni modo di cifre fortemente contestate, anche dall’Associazione dei Medici Turchi, e che potrebbero essere dunque fortemente sottostimate. «La gestione della pandemia non è stata in alcun modo trasparente», racconta ancora Özgür Karaduman. «Le informazioni relative ai numeri e alla situazione sanitaria è totalmente nelle mani del governo, che non fa che ripetere di avere tutto sotto controllo. Ma la realtà è che c’è un’assoluta mancanza di pianificazione e democrazia: la violenza poliziesca è cresciuta, le manifestazioni di solidarietà e mutualismo dal basso sono state represse a condannate, le manovre economiche sono state calibrate solo sul breve periodo e i sussidi si sono rivelati insufficienti per far fronte alla crisi che investe tante famiglie. Difficile dire se questo abbia fatto crescere la rabbia sociale, certo è che agli occhi dell’opinione pubblica alcuni problemi sono diventati più evidenti di prima».

Nel contesto turco si assommano e si accavallano crisi, più o meno sotterranee, di varia natura: politiche, sociali, economiche, militari.

Le misure adottate per la Covid-19 hanno dovuto così sottostare a ragioni non solo sanitarie e si sono rilevate in fin dei conti abbastanza limitate: il divieto di uscire di casa generalizzato è stato applicato solo durante alcuni fine settimana di aprile, l’isolamento sociale ha riguardato più che altro gli under 20 e gli over 65 mentre il resto della popolazione ha potuto di fatto continuare a spostarsi e lavorare. Più che di mettere in sicurezza i cittadini, il governo a guida Akp pare essersi preoccupato di ottenere il “monopolio” assoluto della gestione dell’emergenza: all’inizio dell’epidemia, infatti le amministrazioni comunali della maggiori città (quasi tutte in mano al partito di opposizione Chp) si sono adoperate per affrontare la Covid-19, vedendosi però riprendere e multare dal potere centrale; allo stesso modo gli ennesimi commissariamenti, con il conseguente arresto, di altri quattro sindaci dell’Hdp continuano il processo di destituzione di praticamente tutti gli amministratori locali eletti tra le fila del partito di sinistra filo-curdo, che oggi amministra solo un quinto delle municipalità in cui aveva vinto le elezioni. «Non bisogna dimenticare che l’Akp ha basato la propria ascesa politica anche sul consenso delle masse urbane povere», racconta ancora Özgür Karaduman, «che si sono ciclicamente formate in Turchia con le migrazioni dalla campagna alle città. Per loro, il partito di Erdoğan ha messo in campo nel corso del tempo numerosi aiuti economici e sussidi. Il governo non può quindi tollerare che altre forze politiche operino nell’ambito della solidarietà sociale e della ridistribuzione delle ricchezze: ha paura di perdere il “controllo” dei ceti popolari, che comunque rappresentano una buona fetta del suo elettorato».

Nessuno metta dunque in discussione la versione ufficiale dei fatti, né per quanto riguarda le linee d’azione né dal punto di vista di dati e cifre: se amministrazioni comunali e sindaci d’opposizione vengono multati, il 18 marzo due giornalisti sono stati arrestati dopo aver dato la notizia di un medico malato di Covid-19, con l’accusa di “seminare panico e terrore”.

PRIGIONI E CONFINI: APERTURE STRUMENTALI

Eppure, durante la pandemia c’è stato almeno un elemento di forte discontinuità, perlomeno simbolica, col recente passato. A volte citata nel gergo giornalistico come una «grande prigione a cielo aperto», la Turchia è stata infatti costretta dall’emergenza Covid-19 ad affrontare la questione dell’altissimo numero di persone incarcerate presenti sul territorio: il 7 aprile il parlamento ha discusso e approvato un provvedimento che consentisse di scarcerare circa 90.000 detenuti. Tra di essi, però, non sono stati inclusi coloro che scontano una pena per reati di opinione o legati alla propria attività politica, tra cui attivisti, ex deputati e dirigenti di partiti, giornalisti e avvocati. Circostanza inquietante se si pensa che invece, nel frattempo, sono stati liberati importanti personaggi mafiosi legati in alcuni casi agli ambienti ultranazionalisti. «È evidente come questo provvedimento sia contrario al principio di uguaglianza sancito dall’articolo 10 della Costituzione», afferma l’avvocato Didem Baydar Ünsal dell’associazione degli avvocati progressisti Çhd (tr. Çağdaş Hukukçular Derneği), moglie di Aytaç Ünsal, anch’egli membro del Çhd e attualmente in sciopero della fame in carcere da più di 120 giorni (così come il collega Ebru Timtik da più di 150 giorni). «È inaccettabile che vengano arbitrariamente escluse alcune tipologie di reato, in particolar modo i “reati di natura politica”, lasciando così in carcere gli oppositori. Inoltre, nonostante si tratti tecnicamente di una legge sul rilascio condizionato, le pene per alcune tipologie di reato sono state addirittura aumentate e, come prevedibile, si tratta di quei reati che maggiormente coinvolgono gli oppositori politici. Il provvedimento in realtà intende ridurre ulteriormente la loro voce e la loro richiesta di giustizia».

Richiesta di giustizia e di libertà di movimento che, in Turchia, coinvolge un’altra grande comunità cui quasi raramente viene accordato il diritto di esprimersi sul proprio destino: sabato 29 febbraio Erdoğan dichiarava di «aver aperto le frontiere» del paese con la Grecia, spingendo così migliaia di migranti e richiedenti asilo a tentare di recarsi in territorio europeo. Si era creata una situazione esplosiva dal punto di vista umanitario: la conseguente chiusura da parte greca e lo schieramento di truppe al confine hanno contribuito a un’escalation di tensione con scontri e scene drammatiche di sopravvivenza nei campi informali sorti presso la frontiera.

Il successivo scoppio della pandemia di Covid-19 ha contribuito a complicare ancor di più il destino delle persone bloccate le quali, dopo aver abbandonato tutto con la speranza di raggiungere l’Europa, si sono trovate invece prive di tutto e abbandonate a se stesse in territorio turco.

«Le migliaia di persone ammassate al confine (tra 12.000 e 25.000 secondo l’Unhcr) stavano diventando fonte di imbarazzo per il governo di Ankara», racconta Üstun Reinart, presidente dell’associazione Halkların Köprüsü Derneği, attiva nella solidarietà alla popolazione migrante nella zona di Smirne. «All’inizio di marzo, le autorità hanno dunque demolito i campi e rimosso migliaia di persone dal confine. Per due settimane sono state poste in quarantena in strutture chiuse, in condizioni igienico sanitarie sono risultate particolarmente critiche e con un’assistenza sanitaria particolarmente carente. Dopodiché, la maggior parte delle persone sono state trasferite a Çanakkale e Izmir e abbandonate per strada, mentre solo per i richiedenti asilo già registrati le autorità turche hanno predisposto il trasferimento nelle province in cui erano registrati».

Dopo una grande attenzione ricevuta dai media con lo scoppio della pandemia, dunque, i migranti in Turchia sono tornati a essere “invisibili”, sperimentando peraltro un generico peggioramento delle proprie condizioni di vita. «La maggior parte dei lavori che compivano abitualmente i migranti è scomparsa, e molti di loro non riescono dunque a pagare l’affitto o le bollette», aggiunge Üstun Reinart. «I richiedenti a cui è stata riconosciuta una protezione temporanea (principalmente siriani) hanno un’assicurazione sanitaria di base, ma coloro che non sono registrati non hanno nessun diritto, tranne la possibilità di accedere ai servizi di emergenza in ospedale. Tuttavia, in generale, i migranti sono riluttanti a recarsi presso le strutture sanitarie con i sintomi di Covid-19 perché hanno molta paura di essere sfrattati dai loro appartamenti o di essere deportati». Il governo turco non ha predisposto nessun programma di aiuti specifici per i migranti più vulnerabili, se non aver annunciato ad aprile la propria volontà di garantire le cure mediche a chiunque, anche a chi è sprovvisto di documenti. Alle mancanze dello stato ha provato allora a far fronte la solidarietà di associazioni come Halkların Köprüsü Derneği o Tarlabaşı Dayanışması (che opera a Tarlabaşı, uno dei quartieri popolari di Istanbul) che, nei mesi della pandemia, sono state le uniche ancore di salvezza per la sopravvivenza dei migranti posti ai margini della società. Anche di fronte alle difficoltà legate al lockdown e al forte clima repressivo, sono dunque aumentate le iniziative di solidarietà popolare che hanno provato ad aiutare chi fosse in difficoltà indipendentemente dallo status giuridico e dalla nazionalità: è l’immagine di un’altra Turchia, aperta e solidale, che continua a resistere nonostante tutto.

LA DIPLOMAZIA DELLE MASCHERINE, MENTRE CONTINUA LA GUERRA

Se le misure di welfare e di assistenza sanitaria per fronteggiare l’emergenza Covid-19 intraprese entro i propri confini sembrano essersi rivelate insufficienti o comunque limitate, all’estero la Turchia si è invece fortemente impegnata per portare aiuto ad altre nazioni.

Il governo di Erdoğan ha visto nella pandemia un’opportunità per rinsaldare vecchi legami, costruirne di nuovi e riconciliarsi con soggetti, come Stati Uniti o Unione Europea, con cui si erano verificate “frizioni”.

Grazie a un’elevata capacità di produzione di dispositivi di protezione individuale e apparecchiature mediche, la repubblica anatolica ha distribuito e inviato aiuti a oltre 50 nazioni in tutto il mondo (le fonti governative parlano di quasi 100 paesi) e, in particolare, in quelle aree in cui coltiva interessi strategici. Il soft power degli aiuti ha tentato cioè di riabilitare l’immagine della Turchia in Occidente e ha permesso di rafforzare la sua influenza negli scenari in cui storicamente è più attiva come i Balcani, l’Asia centrale turcofona, l’area Mena (dal Marocco all’Iraq), ma anche alcuni paesi dell’Africa sub-sahariana dove la presenza turca è diventata ultimamente sempre più rilevante.

Al di là della cooperazione internazionale la politica estera di Ankara, però, in questi mesi si è mossa anche sul terreno drammaticamente concreto degli interventi militari, sia in Siria dove è impegnata da anni, e soprattutto in Libia, divenuto il nuovo fronte caldo per le mire espansionistiche di Erdoğan. L’intervento militare turco ha cambiato i rapporti di forza sul terreno, dando insperata linfa vitale al Gna di Al-Sarraj che stava lentamente soccombendo sotto i colpi del Lma del generale Haftar e che ora, invece, sta riconquistando diverse aree strategiche e sembra aver ribaltato l’inerzia dello scontro. Lo scenario libico si intreccia con gli interessi della Turchia nell’estrazione di ingenti risorse energetiche nel Mediterraneo orientale (il supporto militare turco è legato all’accordo sui confini marittimi con la Libia strategicamente cruciale in tal senso per la Turchia) che comprende interessi geopolitici e storici particolarmente sensibili, come la questione di Cipro, nonché lo scontro continuo con alcuni rivali regionali quali l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti. Inoltre la guerra in Libia è servita alla Turchia anche per spostare un ingente numero di miliziani siriani in territorio libico, alleggerendo il pesante fardello presente sul campo in Siria dove ultimamente non sono mancati momenti di tensione con alcune frange ribelli soprattutto nel contesto di Idlib. Hayat Tahrir al-Sham, organizzazione ribelle di stampo islamista formalmente alleata della Turchia che ha un ruolo egemone a Idlib, non ha infatti preso di buon grado l’accordo tra Turchia e Russia, soprattutto per quanto riguarda il pattugliamento congiunto dell’autostrada M4, asse viario strategico fondamentale, che ha significato la perdita di introiti per Hts provenienti dalle tasse doganali riscosse ai check point che controllava nella zona. Motivo per cui sono nate alcune frizioni che sottolineano la non facile posizione della Turchia che deve tenere conto dell’animosità della galassia di gruppi e milizie che ha sostenuto e in molti casi anche formato militarmente e che oggi sono presenti nel feudo turco in Siria che va dalle aree occupate nel Rojava fino a Idlib.

SUCCESSI ESTERNI, CRISI INTERNE

La propensione della Turchia a influenzare culturalmente e politicamente le aree una volta sotto il controllo dell’Impero Ottomano e la ricerca di un ruolo di primo piano in Medio Oriente, anche attraverso l’impegno militare, non sembrano dunque essere state scalfiti dall’emergenza Covid-19, bensì rinvigoriti. Anzi, parrebbe quasi che la crescita dell’attivismo di Erdoğan verso i Balcani o verso la Libia rappresenti il contraltare delle crisi e dei conflitti che invece stanno avendo luogo entro i confini. Nel frattempo, infatti, i “tradizionali” problemi interni della Turchia non sono certo scomparsi per via della pandemia ma, al contrario e come sta succedendo in vari contesti, si stanno acutizzando.

Innanzitutto, il governo di Ankara si trova ad affrontare una crisi economica iniziata già prima dell’emergenza sanitaria e che vede alcuni settori strategici pesantemente colpiti come il tessile, che rappresenta il 15 % dell’export e impiega circa 1,3 milioni di persone nelle industrie e una cifra simile anche nella distribuzione e nel commercio al dettaglio, e il turismo, che offriva lavoro a circa 2 milioni di persone e che solo nel 2019 ha registrato un numero di ingressi di visitatori stranieri pari a 45 milioni, mentre la lira si sta continuamente svalutando. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale (Fmi), sulla scia di una recessione dell’economia globale pari al 3%, nel 2020 anche il Pil turco potrebbe avere una contrazione del 5%, con un aumento della disoccupazione fino al 17,2%.

Inoltre, l’egemonia politica del “sultano” Recep Tayyip Erdoğan sembra scricchiolare, sia fra la popolazione che all’interno della sua stessa area politica. L’ex-Primo Ministro ed ex-segretario dell’Akp Ahmet Davutoğlu, per esempio, nonostante la sua passata influenza in tante delle decisioni del partito di governo, ha da poco deciso di fondare la propria forza politica (Gelecek Partisi, “Partito del futuro”) in aperta opposizione col presidente della Turchia. Similmente, l’ex-Ministro dell’Economia Ali Babacan ha fondato proprio all’inizio dell’emergenza sanitaria il Demokrasi ve Atılım Partisi (“Partito della democrazia e del progresso”), dopo aver lasciato l’Akp a giugno dell’anno scorso. D’altronde, la tendenza inaugurata dalle ultime elezioni locali, nelle quali Erdoğan ha perso la maggior parte delle città principali come la capitale Ankara e Istanbul a favore del Chp, non pare essersi esaurita: un recente sondaggio dell’agenzia Area indica infatti come il consenso per il partito di governo sia ai minimi storici (30-39%) e come il 57% della popolazione vorrebbe tornare a un sistema di democrazia parlamentare.

La risposta alle difficoltà politiche da parte del leader dell’Akp pare essere sempre la stessa, emergenza sanitaria o meno: repressione, silenziamento, forzature istituzionali.

Se il primo cittadino di Ankara Mansur Yavaş e il primo cittadino di Istanbul Ekrem Imamoğlu sono ora sotto inchiesta per aver previsto iniziative municipali a sostegno dei soggetti più vulnerabili (l’accusa è quella di non aver seguito le linee guida del governo nella gestione della pandemia), nell’area orientale del paese a maggioranza curda continuano arresti e commissariamenti ai danni dei politici locali dell’Hdp: il 15 maggio sono stati deposti con l’accusa di terrorismo quattro sindaci regolarmente eletti, mentre il 22 maggio un’operazione di polizia nella città curda di Diyarbakir ha portato all’arresto di numerosi attivisti. Nella giornata di giovedì 4 giugno sono stati sospesi e arrestati i tre parlamentari dell’opposizione Enis Berberoğlu (Chp), Musa Farisoğulları e Leyla Güven (Hdp, quest’ultima già detenuta nel 2018 e protagonista di una lunga protesta per la fine dell’isolamento di Abdullah Öcalan), mentre i rappresentanti dell’Hdp Figen Yüksekdağ e Selahattin Demirtaş ancora si trovano in prigione senza possibilità di appello.

PROTESTE ESTREME

Il tutto mentre un numero sempre maggiore di oppositori sceglie lo sciopero della fame come gesto estremo di contestazione e protesta. Gli attivisti Didem Akman e Özgür Karakaya e, come si ricordava in apertura, non solo i tre membri di Grup Yorum, deceduti a distanza di poche settimane l’uno dall’altro, ma anche i due avvocati Ebru Timtik e Aytaç Ünsal, che hanno cessato di nutrirsi da ormai più di cento giorni. «Lo sciopero della fame a oltranza rappresenta l’ultima possibilità per mostrare il peso dell’ingiustizia», dice la moglie di quest’ultimo Didem Baydar. «Nel caso di Aytaç è come se ci fossimo trovati di fronte a un bivio: rinunciare alla nostra lotta e accettare tale ingiustizia, oppure aumentare il nostro livello di resistenza, prendendo in considerazione anche forme estreme». Si tratta in effetti di una modalità di protesta che in Turchia si è sviluppata e si è estesa nei periodi più bui della storia repubblicana, come durante la dittatura militare degli anni ‘80, o nelle situazioni di repressione maggiormente brutale e pervasiva, come per i prigionieri curdi torturati in carcere. Il fatto che musicisti, parlamentari, avvocati e oppositori di vario tipo la stiano utilizzando ancora oggi suggerisce forse che anche la Turchia di Erdoğan si trovi di fronte a un bivio, oltre il quale l’oppressione sistematica del dissenso politico e delle minoranze potrebbe rivelarsi insostenibile. «I can’t breathe», non riesco a respirare, sono state le ultime parole pronunciate da George Floyd, l’afroamericano ucciso dalla polizia di Minneapolis e per cui si sta manifestando in varie città del mondo, tra cui pure Istanbul. Proprio nella città sul Bosforo, il 4 giugno, un piccolo gruppo di manifestanti si è recato nei pressi dell’ambasciata statunitense per protestare contro la violenza poliziesca: sono stati dispersi con la forza, 29 di loro arrestati.

Foto di copertina di Francesco Brusa

Foto interne Tarlabaşı Dayanışma 

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy