Dicevano gli antichi che il grado di civiltà di un popolo si poteva valutare dall’esiguo numero di leggi che avevano prodotto: meno disposizioni del diritto equivaleva ad una maggiore consapevolezza civile dei tanti problemi che sorgono nel vivere comune quotidiano. Una tendenza anarchica dell’antichità o, forse, più probabilmente un principio fondato sulla mera osservazione dei tanti cavilli che si creano nel sommarsi delle norme e nella particolarità che esse assumono quando devono entrare nello specifico di un singolo caso e fare, come si sul dire, “giurisprudenza“.

Del resto la giustizia e la legge sono fattori distinti, visto che la prima può essere fatta anche in assenza delle seconde mentre se queste esistono e non fanno giustizia, più che norme di uno “Stato di diritto“, sono legacci di qualche regime oligarchico o dittatoriale oppure, molto banalmente, il frutto della burocratizzazione dell’apparato amministrativo.

Ma il punto non è tanto tecnico, quanto morale, civile, culturale. Un trittico che deve poter stare a fondamento di una società rinnovata e che si evolve senza il bisogno di dover per forza ricorrere allo strumento del controllo legislativo.

Sovente si ritiene che la conservazione dell’esistente sia il cosiddetto “ordine naturale” delle cose, della nostra vita. Invece, come sosteneva l’attore e scrittore statunitense Julian Beck, “Nulla è più naturale del cambiamento“. Del resto noi stessi siamo sempre immersi in una dialettica degli opposti, in un confronto continuo con una realtà che muta nel limitrofo in cui viviamo e che viviamo in prima persona. Il cambiamento fa parte della nostra esistenza, dello scorrere della dimensione temporale, del mutare dei rapporti sociali sulla base di quelli economici che, a loro volta, influenzano quelli ideologici, culturali e morali.

Quando si discusse della necessità di legiferare anche in Italia, al pari della Germania, sul divieto di negazionismo dell’Olocausto e, più in generale, su tante e troppe forme di revisionismo storico che sono divenute patrimonio di un analfabetismo di massa usato per degradare la verità oggettiva dei fatti, il dubbio e la critica che si potevano avanzare stavano proprio nella straordinarietà del contesto incivile, immorale, anticulturale ma profondamente ideologico di una diffusione dell’anti-storia soprattutto nei ceti meno protetti da una conoscenza dettagliata del Novecento.

Non si trattava soltanto di vecchie generazioni rinvigorite dal culto del fascismo o del duce in contrapposizione ad una sorta di “decadenza della democrazia” oggettivamente riscontrabile nell’instabilità dei governi, nelle crisi economiche, nell’avanzata di un pauperismo nel mondo del lavoro senza precedenti, se non guardando all’inizio del “secolo breve“. La preoccupazione più grande era la contiguità con i più giovani e la consegna a questi di un messaggio deformante i passaggi storici del nostro Paese: il tutto per riabilitare valori incostituzionali e rendere sempre meno sicura la stabilità delle istituzioni repubblicane e democratiche.

Da un secolo a questa parte, grazie ai progressi tecnologici e scientifici, abbiamo la “copia” esatta dei fatti che si sono svolti e possiamo osservare tramite documenti sonori, filmati quanto avvenne, sommando tutto ciò alle testimonianze di coloro che sono tutt’oggi ancora in vita e di quanti lo sono stati fino a poco tempo fa e hanno lasciato fiumi di interviste che divengono un vero e proprio patrimonio civile per l’intero popolo italiano.

Restano tante zone d’ombra: quelle di cui non si hanno prove documentali cinematografiche o audio; quelle di cui le interpretazioni sono d’obbligo perché esistono testimonianze contraddittorie e lì interviene il lavoro dello storico che, con il paziente lavoro di studio delle fonti, tratte dagli anfratti più reconditi degli archivi di Stato e magari pure da un lavoro in stile giornalistico, di inchiesta a tutto tondo, ricostruisce ciò che non ci è dato conoscere tramite l’oggettività del visivo e del sonoro.

La necessità, dunque, della legiferazione su materie tanto storiche quanto attuali che concernono problemi culturali, civili o morali si rende necessaria nel momento in cui convivono due fattori: 1) il persistere delle contraddizioni in seno alla società su una determinata questione; 2) l’estrema incidenza della questione stessa nella vita di tutti i giorni, quindi la natura, per così dire, “contingente” che tocca a ciascuno di noi, per dirla con Boccaccio, sia direttamente sia indirettamente.

Sottomettere alla legge la libera espressione civile dell’acquisizione della lezione storica dei fatti è, come se ne può chiaramente evincere, non un torto che il diritto fa alla Storia, ma un rimedio estremo che si impone quando prova a prevalere sull’oggettività la soggettività deleteria di un capovolgimento degli eventi utile ad una certa parte politica da sempre, mutatis mutandis, avversa al complessivo impianto costituzionale antifascista, antirazzista e tendenzialmente egualitario che esce dalle parole della nostra Carta fondamentale.

Il gran numero di leggi di cui abbisogna una società era, del resto, stigmatizzato anche da profondi conoscitori del diritto come il liberale Alexis de Tocqueville o da antichi commediografi ellenici al pari di Aristofane. Il primo si lagnava negli anni a cavallo tra il 1835 e il 1840 di una nazione che si cullava in un mediocre conformismo, in una banalizzazione della cultura proprio esprimendo un voglia di giustizia sociale e civile che si fermava sempre sulla soglia dei processi e che nelle corti di giustizia veniva meno ad ogni parola pronunciata dalle parti opposte.

Procuratori e avvocati combattevano per lo più sfide personali, ma a volte da questi acerrimi scontri ne venivano fuori anche sentenze che decretavano nuovi princìpi per il costituzionalismo americano. Eterne contraddizioni tanto umane quanto degli Stati che gli uomini costruiscono pensando di poter dare una regola al vivere “civile”.

Aristofane invece ne “Le vespe” si burla del ricorso ai processi che gli ateniesi adottano quasi ossessivamente per far valere i loro diritti: cause intentate per banali liti che oggi definiremmo “condominiali“. Nulla che possa “fare giurisprudenza” ed essere ricordato nella Storia, ma – nota il commediografo – la rappresentazione comunque di quella democrazia propria della capitale greca e, successivamente, dell’intera cultura ellenistica.

Tornando ai giorni nostri, in queste settimane si sta discutendo di una legge estremamente importante che dovrebbe intervenire in un vulnus che da troppo tempo non ottiene soddisfazione e che rimane una ferita aperta sul fronte della sanzionabilità di una serie di comportamenti discriminatori, verbalmente o materialmente violenti, di abusi tanto psicologici quanto fisici, di vessazioni tanto moraleggianti quanto di veri e propri fenomeni di persecuzione ed esasperazione di innocenti la cui unica colpa è il desiderare di poter amare chi si vuole, la persona per cui si prova attrazione, senza per questo dover essere insultato, picchiato ed anche ucciso.

Sostengono dalle parti della Lega che la legge contro l’omofobia, che è oggetto di un iter parlamentare finalmente avviato, sarebbe inutile, visto che esistono già tutte le norme del caso: se qualcuno viene picchiato, esiste il reato di aggressione, di danni fisici, di molestie e così via. Non esiste però l’aggravante: ossia da dove prendono origine questi comportamenti violenti che uccidono psicologicamente, segnano per tutta una vita o ti mandano all’ospedale con un naso rotto, gli occhi pesti e tante vertebre spaccate dal branco che si fa forte della molteplicità per infierire sul singolo.

Secondo la Lega, secondo i grandi intellettuali del “Family day” e di tutto il circo del tradizionalismo cattolico in termini di famiglia, c’è il “rischio di ideologizzazione“, di fare una legge che punisca le opinioni nel sanzionare i comportamenti. Ma è proprio questo il punto di non ritorno tra una “opinione” e un “comportamento“: fino a quando le opinioni rimangono opinioni, per quanto sbagliate e dettate da pregiudizi possano essere, possono fare male fino ad un certo punto.

Se scadono nell’insulto e nello stigma, se ledono il diritto di un’altra persona nel definirsi e nell’esprimersi in società con le proprie qualità e specificità, in una diversità del tutto naturale (poiché – ripetiamolo ancora una volta… – tutto ciò che è presente in natura è – se non altro per definizione – “naturale“), allora non sono soltanto più delle “opinioni” ma veri e propri “comportamenti” che invadono la libertà altrui.

E’ qui che l’intervento della legge può essere l’unica modalità risolutiva per tutelare, proteggere e garantire l’equilibrio della libertà civile e morale della persona nell’ambito del contesto in cui vive.

Si discute di una legge che normi nuovi reati, quindi che agisca non sulla base delle opinioni di ciascuno, ma che colpisca il comportamento discriminatorio, aggressivo. Una legge che ha bisogno di essere integrata con tutta una serie di precisi riferimenti che rischiano di rimanere fuori dal contesto dei buoni propositi che esprime.

Ad esempio le cosiddette “teorie riparative“: il minore va protetto dal ricorso genitoriale alla psicoanalisi per “correggere” quello che viene considerato un “errore” evolutivo nella vita del figlio o della figlia, ossia qualunque orientamento sessuale che non sia quello eterosessuale. Forme di sciamanesimo moderno vestito da psicoanalisi che ne è l’esatto contrario.

Così pure è necessario normare la tutela di tutti i giovani (e anche meno giovani) non eterosessuali che vengono cacciati da casa, estromessi dal contesto familiare e discriminati. Se esistono comportamenti – e ne esistono moltissimi – che provocano questi ostracismi moderni nei confronti della propria figlia o del proprio figlio, tutti coloro che li subiscono devono poter trovare da parte della Repubblica una tutela adeguata. Non fosse altro a parziale risarcimento della stupidità dei genitori che, purtroppo, restano cittadini italiani nonostante tutto.

Dalle parti sovraniste e clericali si temono “derive liberticide“: “Allora introduciamo anche il reato di ‘eterofobia‘”, tuonano i leghisti. Straordinaria novità! Mai sentito dire a qualcuno “Etero di merda“. Sempre sentito dire ad un gay: “Frocio di merda“, “Culo“, “Checca“, “Finocchio“, “Rotto in culo“, “Sfondato“, “Succhiacazzi” eccetera, eccetera…

E poi, parlare di “eterofobia” è pure improprio riferendosi ad una esclusiva contrapposizione rispetto all’”omofobia“: l’”eterofobo” teme l’”alterità” in ogni singolo campo della vita umana. E’ la “paura dell’altro“: quindi contiene anche la “xenofobia“, l’avversione per la differente religiosità… Mentre l’”omofobo” teme espressamente solo la sessualità differente dalla propria, quella considerata “maggioritaria” e ad essa associa sillogisticamente il concetto di “normalità” e quello più ancora qualificante (nel suo errato modo di vedere) di “naturalità“.

Salvini avrebbe fatto meglio a parlare di “eteronegativismo“, qualcosa che gli omosessuali provano e conoscono di rimando, dopo che hanno subito tutte le angherie omofobe fin da ragazzi, fin da giovanissimi. Un sentimento di biasimo, anche di disprezzo e di odio ma mai declinabile in atteggiamenti violenti.

Ma quando si vuole trovare un pretesto per frenare l’avanzata dei diritti civili e tentare la conservazione dei cosiddetti “valori tradizionali”, si prova qualunque improvvisazione e si finisce col cadere poi negli strafalcioni simili ai “pannelli a metano” del nuovo ponte di Genova.

Insomma, c’è il bisogno di una legge contro l’omo-transfobia visto che soltanto il 43% dei cittadini approva il riconoscimento legale per le identità di genere per le persone trans; percentuale che scende al 37% se si tratta di indicare sulla carta di identità un “terzo genere“.

C’è tanta strada da fare. Tantissima. Ma se si guarda avanti, qualche passo in quella direzione lo si fa certamente: anche per superare, un giorno, le norme che oggi sono necessarie e che ci parlano dello stato civile e morale di un Paese che ha bisogno di generazioni che, attraverso lo studio e la socialità, intuiscano la grandezza delle differenze, la ricchezza delle diversità e releghino il pregiudizio negli archetipi della preistoria dei diritti di tutti e di ciascuno. Per diventare una umanità sempre più umana e sempre meno discriminatoria, medievale e moralistica.

L’amore per la conoscenza è il primo grande nemico della stupidità gratuita, della violenza e della sopraffazione. Si conosce per capire e si capisce per conoscersi continuamente meglio. Ma mai fino in fondo. La ricerca è continua e costante e non finisce mai: l’incompiutezza della conoscenza è un dato di fatto. Ma possiamo almeno lottare per diminuire l’ignoranza congenita di ognuno per creare una società più eguale, più libera, a misura di diversità e non di omologazione.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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