1) Lo stato dell’arte della questione comunista in Italia

La formazione di un partito comunista, nel quale far confluire l’avanguardia della classe lavoratrice, che riesca a esercitare sulle classi subalterne e sulla società nel suo complesso un’influenza reale si può considerare, oggi, come il compito fondamentale dei comunisti italiani. A diversi livelli, è una necessità sentita da tutte le organizzazioni, gruppi e partiti che si richiamano all’esperienza storica comunista.

Un compito certamente da porre in relazione con lo sviluppo storico del movimento internazionale dei lavoratori, in profondo riflusso dal 1989 e in generale alla ristrutturazione capitalistica degli anni 70. Questo riflusso si tradusse nella progressiva sottomissione del proletariato al capitalismo – palese oggi, nel momento in cui ampie fasce di lavoratori sembrano aver introiettato quasi completamente i valori del nemico di classe – facilitato dalla linea riformista promossa dai più importanti partiti comunisti occidentali sin dalla fine della Seconda Guerra mondiale, fino all’approdo ai lidi della socialdemocrazia prima, e del “social-liberalismo” o terza via poi (nel corso degli anni 90).

In Italia in particolare, il compito di creare un partito comunista al passo coi tempi assume gran rilievo se si tengono presenti le vicende del movimento operaio, in special modo dalla svolta della Bolognina e dal dissolvimento dell’esperienza comunista organizzata nei governi di centrosinistra sino alla marginalizzazione e polverizzazione successive.

La sconfitta del marxismo rivoluzionario e con esso dei lavoratori fu certo un processo sovranazionale, favorito dallo sviluppo della fase imperialistica del capitalismo post anni 70, innescato dalla ristrutturazione capitalistica e dall’emergenza dei nuovi gruppi monopolistici “mondializzati, generalizzati e finanziarizzati” (Amin[1]) del Capitale finanziario che detta legge attraverso gli onnipresenti “mercati finanziari”. Questo processo ha lasciato sbandamento e ininfluenza nelle nostre fila, difficoltà di ogni sorta a chi oggi cerca di ricostruire i fili con una storia fatta sì di sconfitte, ma anche di grandi vittorie, e che comunque continua fuori dall’Occidente, in maniera vitale e creativa in paesi che guidano le lotte antimperialiste e cercano di svilupparsi nonostante l’unilateralismo e l’egemonismo USA.

Questa situazione da adito a innumerevoli dibattiti e polemiche, sia sul posizionamento internazionale rispetto ai socialismi contemporanei, in particolare quello cinese da un lato; sia sulla strategia interna, dove una delle questioni più sentite riguarda a chi dovrebbe parlare in questa fase il partito, e quali sono i suoi interlocutori, dall’altro. Il tutto in una congiuntura dove la rivolta piccolo borghese sembra protagonista del malcontento e i lavoratori d’Italia sensibili alle sirene conservatrici della fronda sovranista o immersi nell’apatia generalizzata.

Si discute se si debba incentrare tutto su una linea di classe pura, o aprire alla piccola borghesia (l’artigiano, il commerciante, la partita Iva) oggettivamente oppressa dal dominio del capitale monopolistico.

Cercheremo con questo breve articolo di fare chiarezza sulla questione e apportare il nostro contributo al dibattito.

2) Struttura di classe della società italiana

L’imperialismo, cioè il capitalismo monopolistico industriale e bancario legato alle dinamiche del capitale finanziario globalizzato (il cui motore di accumulazione e centro operativo è Wall Street, e che si appoggia alle istituzioni sovranazionali quali FMI, Banca Mondiale, OMC, UE-BCE, NATO) è l’elemento predominante nella società italiana, come di ogni società occidentale, e la forza che maggiormente determina lo sviluppo di essa. In questo contesto, lo scopo che le classi dominanti si proposero di raggiungere, dagli anni 90 in poi, fu il conformarsi degli Stati e delle società capitalistiche alle rinnovate esigenze del capitale monopolistico finanziarizzato. Si trattava di una nuova modernizzazione, che fu in sostanza una restaurazione liberale praticabile senza resistenze dopo la caduta dell’Urss. In concreto: strada spianata alle grandi società e ai loro interessi, legislazione preferenziale, tagli alle tasse, riforme del lavoro e delle pensioni, tagli allo spesa sociale, apertura di ogni settore alla penetrazione privata.

L’adesione all’UE è un tassello di questa inevitabile modernizzazione, come grande centro di accumulazione dipendente, ma con ambizioni autonome e concorrenziali (nei limiti del possibile), da Washington, e quale area estesa di implementazione delle nuove politiche liberali, non più confinabili al livello dei singoli stati europei. I massimi livelli di concentrazione economica e centralizzazione capitalistica si hanno in questo periodo e, grazie a queste dinamiche, l’internazionalizzazione dei gruppi di punta italiani si completa con successo (FCA, Ferrero, Unicredit, Intesa etc). La borghesia italiana stabilizza, dunque, i suoi monopoli e prende il suo posto al tavolo dei grandi nello scacchiere dell’Occidente capitalistico.

Essa trova di fronte a sé come forze gregarie ma spesso recalcitranti le grandi imprese nazionali non monopoliste, le medie imprese e la piccola produzione diffusa, tipica del tessuto manifatturiero italiano dal boom economico. Affianca quindi la classe capitalistica matura e internazionalizzata, una classe di capitalisti locali e una piccola borghesia estesa di commercianti, di artigiani, professionisti, e un ceto impiegatizio e funzionariato urbano salariato di fascia alta (ceto medio). Alta borghesia che, invece, può contare sull’appoggio quasi incondizionato di un ceto “intellettuale” metropolitano il quale usufruisce della rendita imperialista – pur conservando convinzioni “progressiste” – ed è spesso legato alle correnti liberaldemocratiche della “sinistra” borghese.

L’estensione di questa classe proprietaria, piccola e media, e la minore compattezza della classe borghese monopolistica[2], fa allora delle loro rivendicazioni un elemento da sempre estremamente importante nella vita politica del paese (e quasi sempre in senso reazionario, a partire dal fascismo). La debolezza relativa della borghesia di fronte ai compiti della modernizzazione imperialista richiede compromessi e attenzioni continue nei confronti della piccola borghesia che si pauperizza. Quest’ultima ha la sensazione di perdere lo status sociale di cui godeva quando l’economia “andava bene”, e sconta il confronto con le sofferenze di oggi dovute alla propria incapacità di approfittare dell’estrema internazionalizzazione e finanziarizzazione del sistema.

La dinamica usuale di questi scontri in seno alle classi proprietarie italiane si risolve di norma nella sostanziale solidarietà di interessi tra gruppi privilegiati. Una solidarietà al ribasso, dove la classe dirigente, espressione della borghesia matura e imperialista, concede: evasione, sussidi e bassi salari – di cui per altro anch’essa approfitta – per tenere a galla le attività della media produzione e del piccolo commercio. Questa dinamica segna l’arretratezza relativa del sistema italiano rispetto agli altri paesi capitalistici occidentali.

Da qui infatti una cronica depressione permanente delle forze produttive, il tutto a spese della maggioranza dei lavoratori, con poche speranze e nessuna prospettiva se non l’emigrazione, l’impoverimento graduale, la precarietà, la miseria e la disoccupazione. La classe lavoratrice è annientata. Oggettivamente frammentata come dappertutto in Occidente, a seguito delle innovazioni e ristrutturazioni degli anni 70 (quando la rivoluzione tecnologica incipiente è stata usata dalle classi dominanti per permettere esternalizzazioni, subappalti, delocalizzazioni; processo inverso alla centralizzazione di fabbrica fin qui caratteristico del capitalismo storico), e soggettivamente non più cosciente del proprio ruolo.

2.1 Chi sono i nostri?

Quali sono stati gli effetti di questi processi sulla struttura sociale italiana, sulle classi dalle quali e per le quali dovrebbe sorgere un soggetto in grado di rappresentarle nella lotta per la loro emancipazione? Senza entrare in una dettagliata analisi sociologica, ma coscienti della necessità di tracciare un quadro fedele della situazione, possiamo cercare, usando gli ultimi dati Istat e alcune analisi già prodotte sulla questione, di delineare i contorni di un blocco preciso di riferimento.

Su 60 milioni di abitanti nel nostro paese la struttura demografica si articola all’incirca come segue:

 0-14 anni: 13,5%, 8 milioni

15-64 anni: 64%, 38,5 milioni

65 anni e oltre: 22.5%, 13,5 milioni[3]

Sempre l’Istat fa notare che la tendenza prevalente nella popolazione è l’invecchiamento. La prima indicazione che viene dai dati è che sui 38,5 milioni in età lavorativa vi sono 25 milioni di occupati, di cui più di 19 milioni sono lavoratori dipendenti mentre quelli indipendenti sono circa 6 milioni[4]

All’interno della popolazione lavoratrice dipendente, a reddito fisso, e in gran parte a bassi salari (più bassi che nel resto d’Europa, tanto nel privato quanto nella pubblica amministrazione) possiamo identificare, seguendo i raggruppamenti della tabella Istat, delle macro-branche che riuniscono ciascuna all’incirca il 25% – più di quattro milioni di addetti ciascuna – del totale del lavoro dipendente:

1) L’industria estrattiva e manifatturiera, luogo della “classe operaia” in senso classico, e potremmo dire fordista; le costruzioni e i salariati e braccianti agricoli

2) Il salariato dei servizi privati: commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazioni di autoveicoli e motocicli, trasporto e magazzinaggio, servizi di alloggio e di ristorazione.

3) Il salariato dei servizi pubblici: in particolare previdenza sociale, istruzione, sanità e assistenza

4) Il restante 25%, nella nostra scomposizione, risulta da un aggregato di attività dei servizi, che vanno da quelle artistiche e di intrattenimento, alla riparazione di beni per la casa, alle attività scientifiche e tecniche, i servizi di informazione e comunicazione, le attività finanziarie, assicurative, immobiliari.

Accanto a questa massa di lavoratori subordinati abbiamo, poi, una platea di 6 milioni di indipendenti in cui rientrano i differenti strati delle classi proprietarie, dalla grande e media imprenditoria, al piccolo padronato, ai commercianti, professionisti, autonomi reali. Una realtà disparata sociologicamente, ma molto importante e influente politicamente, numerosa e che tendenzialmente agisce come un blocco.

Nel panorama europeo, l’Italia si colloca al terzo posto per incidenza del lavoro indipendente sul totale dell’occupazione (22,9 per cento nel 2018), dopo la Grecia e la Romania, e ben al di sopra alla media europea (15,3 per cento).[5]

I numeri nel dettaglio di questi 6 milioni di indipendenti sono questi:

Fonte : https://infogram.com/autonomi-1hdw2j7nm7gj2l0

Come si può vedere, fra di essi i professionisti e i lavoratori in proprio (commercianti in primo luogo) assomano insieme, al 2019, circa 3,3 milioni di persone, mentre invece i capitalisti veri e propri, insieme a professionisti e commercianti che sfruttano manodopera salariata, sono 1,4 milioni.[6]

Nei restanti, infine, viste le trasformazioni recenti del mondo del lavoro, ricadono invece i subalterni e sfruttati, falsi autonomi para subordinati, partite Iva:

figure che presentano vincoli di subordinazione più tipici del lavoro dipendente. […] “parzialmente autonomi”, che ammonta[no] a 338 mila occupati. La distribuzione degli occupati per settore di attività economica chiarisce ancora meglio la specificità dei parzialmente autonomi, che presentano incidenze maggiori nei comparti dei servizi alle famiglie e alle persone, della sanità e assistenza sociale, dell’istruzione e pubblica amministrazione e dei trasporti e magazzinaggio.. […] Nel Mezzogiorno si stimano quote più elevate di parzialmente autonomi (rispetto agli autonomi puri) tra venditori a domicilio o a distanza e operatori di call center. Nel Nord si riscontra una maggiore presenza di muratori, conduttori di mezzi pesanti e camion, facchini e addetti allo spostamento merci.[…] La tripartizione del lavoro autonomo mostra dunque la coesistenza, accanto alle figure tradizionali, di un gruppo di indipendenti più vulnerabile e dall’identità professionale incerta, che si colloca per molti aspetti più vicino al lavoro subordinato che a quello indipendente. Tra gli aspetti più rilevanti va sottolineato il peso, tra i parzialmente autonomi, della componente femminile e dei lavoratori più giovani, ovvero di due categorie tradizionalmente fragili nel mercato del lavoro.

A crescere invece è il numero dei professionisti, in particolare senza dipendenti. Sono 1 milione e 233 mila, circa 300 mila in più rispetto a 15 anni fa. Sono tutti quei lavoratori nell’ambito della consulenza, della ricerca, dell’informazione, che svolgono sovente attività ad alto contenuto intellettuale, spesso giovani, che negli ultimi anni si sono messi sul mercato e, per scelta o necessità, non sono occupati alle dipendenze di nessuno, ma lavorano con un rapporto di fornitura con i vari clienti. Analoghi a questi vi sono i collaboratori, coordinati e continuativi, che però sono in diminuzione.[6]

Come tra gli indipendenti o autonomi si nasconde questa sacca di subordinazione che è analoga al lavoro dipendente, similmente tra i dipendenti si nasconde uno strato di salariati di alto livello che sono assimilabili ai capitalisti in quanto ne rappresentano il funzionariato e ne condividono gli interessi: le “moderne aristocrazie operaie, pubbliche o private, manuali o intellettuali che siano”[8]. Direttori, amministratori e managers, quadri superiori, nelle statistiche rilevati come salariati, ma in realtà uno strato particolare di beneficiari privilegiati del sistema, con una situazione materiale e ideologica che li porta a pensare e agire come capitalisti. Quelli dalle remunerazioni più elevate e dalle posizioni più apicali in seno alle società fanno parte essi stessi dell’alta borghesia degli affari in qualità di azionisti e investitori.

Questo spaccato sarebbe tuttavia incompleto se non considerassimo che abbiamo parlato sinora della cosiddetta popolazione attiva. Quel che è notevole del dato italiano è però la massa degli inattivi che giunge a una popolazione di 13 milioni di persone, come da grafico sottostante:

Fonte: https://infogram.com/quanti-inattivi-in-italia-1h8n6mv95mvz6xo

Senza dubbio, oltre agli studenti, all’interno di questa categoria contiamo gli innumerevoli sfruttati del lavoro nero e altri invisibili. In questo grafico ulteriore possiamo averne contezza più precisa, facendo emergere un dato molto interessante:

Fonte: https://infogram.com/inattivi-per-motivi-1hxr4zyewmoq2yo

Se si scorporano dai 13 milioni di inattivi gli studenti e i pensionati, che insieme ammontano a circa 6 milioni e mezzo, ne restano altrettanti che di fatto costituiscono il dato, questo sì reale, della disoccupazione in Italia – a dispetto delle capriole contabili e della scarsa trasparenza tipiche dei rilevamenti borghesi – fornendone un quadro completo. Ai 2,4 milioni di disoccupati reali (cioè solamente coloro che si registrano negli elenchi ufficiali del collocamento) si aggiungono altri 6,5 milioni di disoccupati che vengono sapientemente espunti dalle statistiche e che di fatto portano la disoccupazione reale in Italia vicina ai 9 milioni.

2.2 Rapporti di lavoro

Ma qual è la situazione all’interno dei rapporti lavoro stessi di questa massa di lavoratori?

La prima indicazione che abbiamo da questa visione d’insieme molto larga è che il proletariato industriale è tendenzialmente minoritario, ciò è dovuto alla terziarizzazione che caratterizza le economie capitaliste avanzate. Tuttavia esso è ancora un nucleo sempre ben presente e centrale: occorre considerare che l’Italia è tuttora un paese manifatturiero e che buona parte di questa terziarizzazione consiste “nell’esternalizzazione di molti servizi: quelli che si prestavano all’interno delle imprese industriali, oggi vengono prevalentemente prodotti da aziende specializzate classificate come ‘terziario’”[9].

La seconda è che il salariato dei servizi (alle imprese e alle persone, pubblico e privato, il “terziario”) è un bacino crescente di sviluppo della classe lavoratrice contemporanea: autisti, ferrotranvieri, infermieri, magazzinieri, insegnanti, educatori, impiegati della grande distribuzione, del commercio e della ristorazione, impiegati pubblici etc). Tutte queste categorie concorrono a riempire le fila e definire il proletariato odierno, il quale è già a prima vista più composito del “vecchio”.

Insomma, siamo di fronte a una classe operaia diversificata al suo interno, dove i salariati dei servizi vengono ad affiancarsi al proletariato principalmente industriale di fabbrica e numericamente in declino, quantomeno in Occidente. Si affiancano oggettivamente poiché queste figure professionali si apparentano sempre più all’operaio classico, nei metodi di gestione e organizzazione del lavoro che subiscono, in processi di lavoro gestiti secondo modalità manageriali improntate dal privato in condizioni sempre più dure. Inoltre, nei servizi pubblici si ricorre a contratti flessibili e precari non meno che nel privato: la proliferazione dei contratti a termine e di altre tipologie contrattuali è la tendenza generale della nostra epoca, soprattutto in Italia. Il capitalismo contemporaneo tende a produrre insomma un precariato diffuso.

In termini numerici, se tra i lavoratori dipendenti sono quasi 14,9 milioni quelli permanenti, i restanti 3 milioni sono lavoratori a termine”[10] e precari, questa ultima componente con una tendenza generale alla crescita. Un ottimo spaccato della situazione possiamo trarlo da una pertinente inchiesta fatta a suo tempo dal collettivo Clash city worker [11]. Un’inchiesta che ci offre una fotografia reale di un proletariato contemporaneo frammentato e sparpagliato, dove grandi aziende con decine di migliaia di lavoratori hanno lasciato il posto a grandi complessi produttivi, legati da sistemi di subappalto ed esternalizzazione. Intorno alle grandi aziende si sono sviluppate innumerevoli società di fornitura, subappaltatori, agenzie di lavoro temporaneo e piccole società pseudo-indipendenti.

Fotografia di una classe lavoratrice alle prese con l’internazionalizzazione integrale delle società, in cui essa stessa diventa più internazionale poiché entra sempre più in contatto con multinazionali che si installano sui territori, oltre che alle classiche aziende nazionali le quali lottano esclusivamente nel e per il mercato interno.

Fotografia, infine, di una classe lavoratrice investita da una integrazione crescente tra lavoro manuale e intellettuale, grazie alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che si sviluppano a velocità inaudita, nel contesto di un processo di produzione che esige sempre crescenti conoscenze tecnologiche nei più svariati settori; questa tendenza si generalizza e la distinzione tra lavoratori e dipendenti diventa labile e spesso arbitraria, nella misura in cui tutti i lavoratori sono incorporati nella produzione:

grazie alle modificazioni intervenute nel processo lavorativo e nell’organizzazione aziendale, perde sempre più senso la distinzione tra operai e impiegati in quanto il lavoro operaio diventa sempre più un lavoro intellettuale e quello degli impiegati sempre più meccanico e alienante. La cosa si traduce anche in una minore differenziazione delle rispettive retribuzioni[12].

Per completare questo rapido excursus, occorre considerare i circa due milioni di disoccupati “cronici” recensiti dalle statistiche ufficiali, che quando sommato ai dieci milioni di “inattivi” indicati poco sopra, ci dà la misura del vero esercito di riserva di cui dispongono i capitalisti nel sistema-paese Italia. Questi, assieme alla stragrande maggioranza dei 19 milioni di lavoratori salariati, come visto, e ai nuovi sfruttati pseudo indipendenti, formano un bacino di  più 30 milioni di persone che sono, in condizioni disparate e di crisi sistemica, soggette a rapporti di lavoro subordinati, parasubordinati, di vero e proprio schiavismo (caporalato bracciantile e della gig economy) e di sfruttamento ultraprecario. A questo dobbiamo affiancare i pensionati, vittime a loro volta di violente controriforme antisociali, in corso in Italia e Europa[13].

Una massa completamente senza voce, e spesso massa di manovra per le avventure reazionarie o liberali dei partiti della borghesia, la quale, senza andare a investigare in dettaglio i numeri, abbiamo visto conti un’esigua minoranza numerica e che tuttavia occupa, anzi monopolizza, l’intero lo spettro della rappresentanza politica, del potere economico, mediatico e egemonico.

3) Strategia: i nostri compiti

Visti dunque gli esiti della lotta di classe, la struttura sociale data e lo stato del movimento dei lavoratori e dei partiti comunisti, pare evidente che il compito dei comunisti sia tornare a conoscere e avere un legame col lavoro dipendente, cercare in esso la sua ragione di essere e il blocco sociale di (ri) partenza. Con una visione globale che unifichi: si tratti delle lotte degli operai dell’Ilva, delle proteste nei settori della sanità o della scuola, delle lotte dei braccianti, dei dipendenti della GDO e dei commerci, della logistica, della rabbia dei precari e degli sfruttati dalle piattaforme online (pensiamo in particolare ai rider), delle preoccupazioni degli impiegati di multinazionali che comprimono i costi e ristrutturano licenziando, e dei professionisti delle attività intellettuali e artistiche, spesso precari e malpagati; di tutti quelli cioè che lavorano per un salario, e che riguarda come abbiamo visto qualcosa come 19 milioni di persone, inquadrate nelle branche principali indicate sopra: industria, servizi privati e servizi pubblici.

Si tratta di una sola e unica classe lavoratrice. Il nostro compito principale è quello di unire e far emergere una nuova coscienza di classe tra questi lavoratori. Da questo punto di vista una delle questioni essenziali è: “smuovere dall’apatia il grosso dei lavoratori”, ossia la questione sindacale; fare in modo cioè che prenda vigore un movimento di lavoratori (simile a quello francese, per dire[14]). Solo in un mare ampio e variegato di protagonismo operaio è infatti possibile sviluppare una politica di unità dei settori del lavoro che si incontrino e si riconoscano nei loro interessi comuni e come subalterni in lotta contro un nemico comune per scopi emancipativi. E, a proposito di protagonismo, segnali positivi giungono proprio da quella parte di lavoratori stranieri spesso, e superficialmente, indicata come passivo strumento – attraverso un uso spregiudicato del concetto di esercito industriale di riserva – per indebolire le capacità rivendicative dei salariati: si pensi al recente sciopero dei braccianti, evento per altro non certo privo di precedenti, per quanto trascurato dai media. [15]

Secondariamente, e solo secondariamente, c’è il discorso di saper parlare “alle altri classi” per esempio la piccola borghesia che si proletarizza, ossia i piccoli commercianti e artigiani, piccoli imprenditori etc. Il discorso con questi soggetti deve essere però in un’ottica di provare ad imporre l’egemonia del proletariato su di essi, e non il contrario. Insomma il nostro compito non è rappresentare le loro istanze di classe. Casomai – forti di un’analisi approfondita, dell’inchiesta, di una piattaforma di rappresentanza dei lavoratori, e capaci di parlare in loro nome e con una certa influenza su di essi – si dovrà andargli incontro per far capire che le loro sorti dipendono dalla lotta al sistema capitalistico. Cercare di far comprendere loro che la liberazione dei lavoratori è liberazione anche per loro, che il loro interesse stesso non è quello di stare con la grande e media borghesia alla quale aspirano ma con la maggioranza dei lavoratori, se questi lavoratori saranno coscienti e organizzati.

In quest’ottica, la direzione del processo, della propaganda non può essere demandata agli interessi piccoloborghesi, che in prospettiva certo non si possono consegnare alla reazione, ma per fare egemonia dobbiamo prima ricreare le condizioni della nostra legittimità, il legame perso col mondo del lavoro. In questo nesso si muove la nostra proposta. Solo poi potremo pensare ad alleanze sociali. La classe operaia può farle solo quando “esiste”, cioè è alla testa del movimento con uno scopo e una volontà unificata e può esercitare un’egemonia ideologica e pratica sulle classi contigue.

Insomma, l’obiettivo primario dei comunisti dovrebbe essere perciò l’ampliamento del proprio consenso e della propria capacità di direzione tra le fila della classe lavoratrice e la questione dell’alleanza sociale con la piccola borghesia è secondaria in questa fase. Detto altrimenti, se unificare, rappresentare e radicarsi è un compito politico pratico immediato; prendere in considerazione il mondo della piccola borghesia è compito per ora teorico di medio-lungo termine. I comunisti non devono precludersi nulla, devono riuscire ad agire dialetticamente fra le masse. Ricreare il legame con i lavoratori (cioè elevare il grado di coscienza di classe) è il fronte principale. Come in guerra, c’è sempre un fronte principale ed uno, o più secondari. Il rapporto con la piccolo borghesia è uno di questi, che dialetticamente si deve legare anche con tutti gli altri fronti secondari, anche se il fronte dei lavoratori è sempre quello che deve avere la preminenza.

C’è una “gerarchia” degli interessi che entrano per forza in conflitto in determinate contesti di lotta. Per non perderci noi dobbiamo sempre guardare al fronte principale. Questa configurazione di lotta può e deve cambiare quando e se si sarà sviluppata la lotta di classe dei subalterni e la loro soggettività politica, e si identificherà correttamente il nemico principale: il capitale finanziario dei monopoli e si arriverà a costruire una alleanza sociale in grado di isolare la classe dominante dei capitalisti e dei loro funzionari lacchè. Solo in tal senso si potrà dire che si saranno aperte prospettive autentiche per una rivoluzione in Occidente.


[1] S.Amin, La loi de la valeur mondialisée : Valeur et prix dans le capitalisme, 2013; S.Amin, L’implosion du capitalisme contemporain, 2012; https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/14068-samir-amin-il-capitalismo-entra-nella-sua-fase-senile-2.html

[2] Cf. la nostra serie storica sul capitalismo italiano disponibile qui https://ottobre.info/2020/06/15/la-ricostruzione-capitalistica-e-il-miracolo-economico-al-principio-del-secondo-dopoguerra/

[3] Tabella Istat, Popolazione residente al 1° gennaio: http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_POPRES1# ;

[4]Tabella Istat, occupazione per branche di attività http://dati.istat.it/Index.aspx?QueryId=12581 ;

[5] Istat, RAPPORTO ANNUALE 2019, La situazione del Paese: https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2019/Rapportoannuale2019.pdf

[6] Crf https://www.truenumbers.it/lavoratori-autonomi/

 [7]Istat, RAPPORTO ANNUALE 2019, La situazione del Paese: https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2019/Rapportoannuale2019.pdf

[8] https://www.emilianobrancaccio.it/2020/06/16/stralci-da-una-catastrofe-totalitaria/?fbclid=IwAR3LfNKKZqHvi3J-saUsDdHEJKdoTFw92ui4k3UE1s4mBuOksQMsyyz1A_8

[9]https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/chi-sono-i-nostri

[10] https://www.documentazione.info/occupazione-in-italia-ecco-i-numeri

[11]https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/chi-sono-i-nostri

[12]https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/chi-sono-i-nostri

[13]https://pcifermano.wordpress.com/2019/12/25/pensioni-e-lotte-di-classe-in-francia/

[14] Podcast, “Il risveglio della lotta di classe in Francia”: https://guerrigliaradio.simplecast.com/episodes/il-risveglio-della-lotta-di-classe-in-francia

[15] https://www.usb.it/leggi-notizia/pienamente-riuscito-lo-sciopero-dei-braccianti-usb-al-governo-rivedere-le-norme-sulla-regolarizzazione-o-seguiranno-altre-mobilitazioni-degli-invisibili-1628.html ; https://sbilanciamoci.info/migranti-e-lavoro-bracciantile-il-caso-di-nardo/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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