articoli su Rami Essam, Sanaa Seif, Sarah Hijazi, Shadi Habash, Mohamed Mounir

di Benedetta Pisani, Chiara Cruciati, Enrico Campofreda, Mairead Corrigan Maguire, Marco Magnano

vignette di Mauro Biani

Torturata in cella, si toglie la vita l’attivista Lgbtqi  Sarah Hijazi

Era il settembre 2017 quando Sarah Hijazi, all’epoca 27enne, salì sulle spalle di un amico e sventolò la bandiera arcobaleno. Era al Cairo, al concerto dei Mashrou’ Leila, band libanese conosciuta in tutto il mondo, ma vittima di censure in Medio Oriente (a partire dal Libano stesso) perché accusata di difendere i diritti Lgbqti+.

Sarah era un’attivista Lgbtqi+. Si è uccisa domenica in Canada, dove aveva trovato asilo dopo mesi di prigione in Egitto, torturata e violentata. Ha lasciato un biglietto dove chiede perdono, la depressione che viveva dopo l’esperienza del carcere l’ha sopraffatta: «Ho cercato di trovare redenzione e ho fallito. Quell’esperienza è stata troppo dura, e io sono troppo debole per resistere».

In prigione era finita per quel concerto e quella bandiera, una delle almeno 57 persone arrestate per aver partecipato all’evento dei Mashrou’ Leila, da allora banditi dall’Egitto. Unica donna a essere detenuta in una campagna di arresti durata tre settimane con raid nelle case, arresti e uso di app di incontri per individuare i sospetti.

All’epoca fu lo stesso procuratore generale Nabil Sadek (colui che, tra l’altro, si occupa della morte di Giulio Regeni, per cui l’Egitto parlò di incidente d’auto, droga e – appunto – relazione gay) a ordinare di investigare il caso della bandiera come minaccia alla sicurezza nazionale. Sarah era stata condannata, insieme ad altri, per «promozione della devianza sessuale e dissolutezza».

Era stata rilasciata su cauzione tre mesi dopo. Aveva già tentato il suicidio dopo quanto subito dalle guardie e da altri prigionieri: stupri, torture, umiliazioni. All’epoca la sua legale, Hoda Nasrallah, aveva raccontato: «È il solito gioco politico, soprattutto perché è una ragazza. Incitano altri detenuti, dicono “questa qui vuole che uomini e donne siano gay”, e loro la vessano. Ho visto graffi sulle sue spalle, mi è apparsa esausta. È stata picchiata».

Se l’omosessualità in Egitto non è reato, abusi e discriminazioni sono diffusi sul piano istituzionale e sociale. In carcere si va con altre accuse, immoralità, blasfemia e violazione delle leggi che vietano «pensieri e atti devianti contrari alla pubblica morale». Quando Patrick Zaki fu arrestato, una campagna mediatica apposita lo accusò di omosessualità come fosse un crimine, con commentatori tv e politici che infiammarono l’opinione pubblica accusando la comunità Lgbqti+ di ricevere fondi da non meglio precisati paesi esteri.

I numeri della repressione sono cresciuti sotto al-Sisi: dall’ottobre 2013 al marzo 2017, secondo l’ong egiziana Eipr, sono state detenute almeno 323 persone, 90 nel 2019.

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le ultime parole

«Ai miei fratelli, ho provato a sopravvivere ma ho fallito. Ai miei amici, l’esperienza è stata dura e io ero troppo debole per lottare. Al mondo, sei stato davvero crudele, ma io ti perdono».

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Mairead Corrigan Maguire: “In nome di Sarah Hijazi, diciamo basta agli affari con i suoi carnefici”

“Una notizia terribile, sconvolgente. Una giovane donna che per ritrovare pace sceglie di togliersi la vita. Non riesco neanche a immaginare quale peso insopportabile Sarah Hijazi portasse dentro di sé, i ricordi atroci degli abusi subiti in carcere. Piango per lei, ma il dolore e la preghiera non bastano. Perché questa terribile storia deve ricordare a tutti noi che nel mondo vi sono migliaia di attivisti per i diritti umani che rischiano ogni giorno di essere incarcerati, torturati, fatti sparire per aver difeso quelle libertà, individuali e collettive, che regimi dittatoriali considerano una minaccia da estirpare con ogni mezzo. E con molti di questi regimi, l’Occidente, la civile Europa continua a fare affari e a vendere armi. Porre fine a questi affari è il modo migliore per onorare la memoria di Sarah Hijazi. A sostenerlo, in questa intervista esclusiva concessa a Globalist è Mairead Corrigan Maguire, Premio Nobel per la Pace 1976. Nata a Belfast da famiglia cattolica, Maguire, decise di dedicarsi alla pace nel suo paese dopo che i tre figli della sorella furono investiti e uccisi da un’auto di cui aveva perso il controllo un membro dell’esercito repubblicano irlandese, colpito poco prima a morte da un soldato inglese. A seguito di quella tragedia la sorella si tolse la vita e Mairead fondò con Betty William, con cui ha condiviso il Nobel, il movimento “Donne per la pace”. Maguire è stata anche presidente della Nobel Women’s Initiative, la fondazione che unisce le donne insignite di questo prestigioso riconoscimento.

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Il testamento spirituale di Sarah Hegazi: “Così il regime ha scavato un buco nero nella mia anima”

Pubblichiamo un articolo scritto nel 2018 dall’attivista per i diritti Lgbt egiziana suicida alcuni giorni fa per il giornale egiziano indipendente Mada Masr: “Ecco perchè non riesco a riprendermi”

di SARAH HEGAZI

Gli islamisti e lo Stato si fanno concorrenza in materia di estremismo, ignoranza e odio, proprio come lo fanno in violenza e brutalità. Gli islamisti puniscono chi dissente da loro con la morte, e il regime al potere punisce chi la pensa in modo diverso con il carcere. La si potrebbe descrivere come una battaglia di religione, intesa non come un insieme di usanze religiose, bensì come il senso di orgoglio e di superiorità che deriva dalla sola appartenenza ad una pratica di rituali precisi.  Il regime ricorre ai suoi sistemi – i mezzi di comunicazione e le moschee – per far sapere alla società egiziana, che si sottintende essere ‘religiosa per sua stessa natura’, che anch’esso “tutela la religione e la morale collettiva, quindi non c’è bisogno che gli islamisti si mettano in concorrenza con lui!”

Lo Stato, e in particolare il regime al potere, è puritano. Mentre mi arrestavano, in casa mia, davanti alla mia famiglia, un agente mi ha chiesto cosa pensavo della religione, perché non indossassi il velo e se fossi vergine o no. L’agente mi ha bendato nell’auto che mi ha portato in un posto che non dovevo riconoscere. Sono stata portata giù da una scala, senza sapere dove sarei arrivata. Ho sentito soltanto una voce di uomo dire: “Portala da al-basha”, poi ho avvertito un odore nauseabondo, e ho sentito gemiti di dolore. Mi hanno fatto sedere su una sedia, con le mani legate e un pezzo di stoffa in bocca per motivi che non riuscivo a capire. Non vedevo nessuno, nessuno mi rivolgeva la parola. Un attimo dopo, il mio corpo si è contorto dalle convulsioni e ho perso conoscenza. Non so per quanto tempo sono rimasta esanime.  

Era una scossa elettrica. Sono stata torturata con l’elettricità. Hanno minacciato di fare del male a mia madre, se ne avessi parlato a qualcuno. Mia madre che poi è morta poco dopo la mia partenza per il Canada. Torturarmi con le scariche elettriche non era abbastanza. Gli uomini della stazione di polizia di Sayeda Zeinab hanno anche aizzato le donne rinchiuse in cella con me perchè si accanissero su di me sessualmente, aggredendomi fisicamente e a parole. La tortura non è finita lì. È continuata nel carcere femminile di Qanater, dove sono stata tenuta in isolamento molti giorni prima di essere trasferita in una cella con altre due donne, alle quali mi è stato proibito di rivolgere la parola. Per tutto il tempo della prigionia mi è stato proibito di uscire alla luce del sole. Ho perso la capacità di guardare la gente dritto negli occhi.

L’interrogatorio che si è svolto presso la Procura generale dello Stato è stata una dimostrazione di ignoranza. Il mio aguzzino mi ha chiesto di fornire le prove secondo le quali l’Organizzazione mondiale della sanità non considera l’omosessualità una malattia. Il mio avvocato Mohamed Fouad ha contattato l’Oms e ha presentato un memorandum nel quale si attesta che l’omosessualità non è una malattia. La mia avvocatessa Hoda Nasrallah ha contattato le Nazioni Unite, e anche questa istituzione ha rilasciato una dichiarazione secondo cui il rispetto per l’orientamento sessuale dell’individuo rientra tra i diritti umani. Ahmed Alaa e io abbiamo dovuto rispondere di tutto questo davanti ai Procuratori di Stato. Le domande di chi mi sottoponeva a interrogatorio erano ingenue: mi è stato chiesto se il comunismo equivale all’omosessualità. Con sarcasmo mi è stato domandato che cosa impedisca agli omosessuali di praticare sesso con i bambini e gli animali. Chi me lo ha chiesto non sa che fare sesso con i bambini è un reato, come è reato fare sesso con gli animali. Non sorprende che avesse una mentalità così limitata. Probabilmente considera Mohamed Shaarawy un grande sceicco e Mustafa Mahmoud un illustre studioso di legge. Probabilmente pensa che il mondo stia cospirando contro l’Egitto e che l’omosessualità sia una religione alla quale vogliamo attrarre nuovi adepti.  Non ha modo di formarsi un’opinione al di fuori di quello che sente nella sua famiglia, dagli esponenti religiosi, a scuola e dai media.

DOPO
Ho iniziato a temere tutti. Anche dopo essere stata liberata, avevo ancora terrore di tutti, della mia famiglia, dei miei amici, della gente per strada. La paura ha preso il sopravvento. Sono stata colpita da una grave depressione e da disturbi post-traumatici da stress, ho sofferto di ansia profonda e di attacchi di panico. Per questo sono stata sottoposta a terapia elettroconvulsivante, che mi ha provocato problemi di memoria. A quel punto, ho dovuto lasciare il Paese per paura di essere arrestata di nuovo. In esilio, ho perso mia madre. In seguito, ho dovuto sottopormi a un’altra serie di cure terapeutiche anticonvulsivanti, questa volta a Toronto, e ho tentato il suicidio due volte. Quando aprivo bocca balbettavo, in preda al terrore. Non riuscivo a uscire dalla mia camera. La memoria mi si è venuta meno assai rapidamente. Ho evitato di parlare della mia prigionia, mi sono tenuta alla larga da ogni tipo di assembramento, ho cercato di non comparire nei media, perché temevo di perdere facilmente la concentrazione e di sentirmi perduta, sopraffatta dal desiderio di silenzio. Tutto ciò è accaduto mentre perdevo speranza nelle cure. Perdevo la speranza di poter essere guarita. Questa è la violenza che mi è stata fatta dallo Stato, con la benedizione di una società “religiosa per sua stessa natura”.

Tra un estremista religioso barbuto – che vuole ucciderti perché crede di essere più in alto agli occhi del suo Dio e, di conseguenza, incaricato di uccidere chiunque sia diverso da lui –  e un uomo vestito bene, sbarbato, con un telefono nuovo e un’auto costosa, che crede di essere più in alto agli occhi del suo Dio e, di conseguenza, incaricato di torturare e imprigionare chiunque sia diverso da lui istigando altri a esercitare violenza, non c’è differenza. Chiunque sia diverso, chiunque non sia un musulmano sunnita eterosessuale maschio che sostiene il regime al potere è considerato perseguibile, impuro o morto. La società ha applaudito il regime quando sono stata arrestata con Ahmed Alla, un amico che come me ha perso tutto per aver sventolato la bandiera arcobaleno. I Fratelli Musulmani, i salafiti e gli estremisti alla fine si sono detti d’accordo con il potere dominante: hanno assunto una medesima posizione nei nostri riguardi. Hanno convenuto sulla violenza, sull’odio, sul pregiudizio e sulla persecuzione. Forse, sono le due facce di una stessa medaglia.

Non abbiamo trovato una mano tesa ad aiutarci tranne che nella società civile, che ha svolto il suo lavoro malgrado le restrizioni opprimenti. Non dimenticherò mai il gruppo dei miei difensori: Mostafa Fouad, Hoda Nasrallah, Amro Mohamed, Ahmed Othman, Doaa Mostafa, Ramadan Mohamed, Hazem Salah Eldin, Mostafa Mahmoud, Hanafiy Mohamed e altri. Non riesco a ricostruire e ringraziare a parole per iscritto l’impegno della società civile, anche dopo la mia liberazione, ma le parole sono tutto ciò che ho. Quindi, chiedo scusa agli avvocati e al resto della società civile per la mia incapacità a esprimere tutta la mia gratitudine se non con semplici parole di ringraziamento. A un anno di distanza dal concerto di Mashrou’Leila, dopo che è stato vietato ai musicisti del gruppo di rimettere piede in Egitto, dopo una campagna contro gli omosessuali durata un anno, dopo un anno da quando ho annunciato di essere diversa – “Sì, sono lesbica” – non ho dimenticato i miei nemici. Non ho dimenticato l’ingiustizia che mi ha scavato un buco nero nell’anima, lasciandola sanguinante – un buco che i medici non sono stati ancora in grado di rimarginare.

A cura di Francesca Caferri. Traduzione di Anna Bissanti
Questo articolo di Sarah Hegazy, chiusa in carcere e poi esiliata per aver sventolato la bandiera arcobaleno durante un concerto nel 2017, in origine è stato pubblicato in arabo sul giornale indipendente egiziano “Mada Masr” nel settembre 2018. Dopo questi anni di tormento in esilio, pochi giorni fa Sarah si è suicidata.

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Il sorriso dell’arcobaleno. In memoria di Sarah Hegazi – Benedetta Pisani

Nel mondo in cui viviamo, non essere eterosessuali e cisgender è pericoloso.

Un mondo duramente improntato su un concetto di “selezione darwiniana”, patriarcale e suprematista, in cui il più forte è l’uomo, bianco e eterosessuale.

Un mondo che strabuzza gli occhi per un bacio rainbow e li chiude di fronte al buio dell’odio e della violenza.

Sarah Hegazi, una delle più note attiviste per i diritti LGBT+ in Egitto, ci ha provato a sopravvivere, in questo mondo. Ma il dolore era diventato insopportabilmente logorante, portandola a scegliere la forma più estrema e straziante di libertà.

Era il 22 settembre del 2017, quando Sarah è stata fotografata da un amico, al Cairo, mentre sventolava fiera e sorridente una bandiera arcobaleno durante un concerto dei Mashrou’ Leila, un gruppo di cinque ragazzi di Beirut che, a suon di pop, sta cambiando la cultura musicale nel mondo arabo, facendo da colonna sonora alle battaglie sociali e civili che vedono in prima fila le giovani generazioni.

I testi rivoluzionari, avvolti nel ritmo moderno di melodie tradizionali, toccano con delicatezza e decisione tutti i tabù sessuali, socio-economici ed etnico-religiosi di una società fortemente repressiva, soprattutto nei confronti della comunità LGBT+.

L’Egitto – e non solo, purtroppo – sembra essere immobile. Fermo ai tempi dei moti di Stonewall.
Gli investigatori della polizia, sotto copertura, preparano agguati nei bar o per le strade, dove aggrediscono e arrestano persone omosessuali. Viene da chiedersi come facciano a riconoscerle… Hanno, per caso, qualche caratteristica fisica singolare? Della serie, naso aquilino alla giudea?
L’idea è, più o meno, quella. E questa feroce stigmatizzazione costringe spesso all’invisibilità.

Sarah non voleva essere invisibile. Ma per il Paese in cui è nata, la sua anima, forte e combattiva, era troppo. Troppo ingombrante. Troppo colorata.

Sarah è stata incastrata. Arrestata e torturata. Umiliata e stuprata dalle altre detenute su incitamento degli agenti penitenziari. Trattenuta per mesi nelle carceri del Cairo, dove è stata sottoposta a elettrocuzione. Vittima di un sistema corrotto, crudele e depravato, dal quale aveva deciso di allontanarsi, trasferendosi in Canada. Ma né la lontananza dall’Egitto né il tempo hanno potuto lenire l’atroce sofferenza di un animo traumatizzato dalle brutture del mondo.

E la responsabilità è nostra. Di una società che disprezza e zittisce chi non è conforme alle regole eteronormate che essa stessa impone.

Il sorriso di Sarah, incorniciato dai sei brillanti colori della rainbow flag, pieno di fierezza e speranza, si è spento. È stato oscurato dall’ombra dell’ignoranza e dalla torpidezza di un razzismo sistemico, occultato in nome della cultura tradizionale.

E la responsabilità è nostra, perché non siamo stati in grado di difendere lei e tanti altri giovani attivisti/e, come Giulio Regeni e Patrick Zaky, desiderosi di far emergere la crudele verità e debellare l’orrore che si cela dietro le sbarre di un regime che non ci azzardiamo nemmeno immaginare.

Il cambiamento può avvenire solo nel momento in cui lo si rivendica.
Quando a essere divulgata sarà la vera informazione, non quella manipolata per compiacere lo spettatore sordo.
Quando chi è soggetto a un controllo sociale, cieco e spietato, sarà ascoltato. E chi vi assiste muto, responsabile e vittima di quella stessa oppressione, sarà educato ad agire per salvare se stesso e chi viene costantemente privato della forza per salvarsi da solo.

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Shadi Habash, un nuovo caso oscuro dall’Egitto – Marco Magnano

Il regista e videomaker è morto nel carcere di Tora, vicino al Cairo, dopo due anni di detenzione senza processo. La sua colpa? Un videoclip

Ancora una volta, l’Egitto è protagonista di un caso di giustizia negata che si somma alle numerose storie di cui il Paese, negli ultimi anni, si è reso protagonista.

A rompere il generale silenzio sul sistema di incarcerazioni e sparizioni forzate che gli organi di sicurezza egiziani hanno allestito sin dal colpo di Stato che nel 2013 portò al potere Abdel Fattah Al-Sisi, è questa volta la morte di un fotografo e regista egiziano, Shadi Habash, morto a soli 24 anni venerdì 1 maggio nel carcere di Tora, alla periferia del Cairo, lo stesso in cui è rinchiuso Patrick George Zaki.

Habash era stato arrestato nel marzo 2018 e da allora era detenuto in attesa di processo. «La sua salute è andata peggiorando per diversi giorni», racconta all’agenzia stampa France Presse il suo avvocato, Ahmed el-Khwaga, «era stato portato in ospedale, poi è stato rimandato in carcere, dov’è morto». Le autorità egiziane non hanno commentato quanto accaduto, ma la ragione dell’arresto è chiara a tutti. «Come videomaker – spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia – ha diretto una serie di video, compreso quello incriminato di questo cantante esule in Svezia che aveva scritto un brano satirico, Balaha, che in italiano si traduce con “dattero”, rivolto al presidente al-Sisi». “Balaha” non è soltanto il frutto, ma è un personaggio comico del cinema popolare egiziano degli anni Settanta, noto per mentire in modo patologico. Un messaggio forte ed evidentemente vietato in un Paese in cui, come ricorda ancora Noury, «c’è una linea rossa che supera inavvertitamente, perché è mobile, separa quello che è lecito per quello che è illecito e uno non si rende conto di averla oltrepassata fino a quando viene portato in carcere».

La canzone, tuttavia, non era nemmeno stata scritta da Habash, che aveva soltanto diretto il video, ma dal poeta Galal el Beheiry, anche lui in carcere, insieme al cantante Rami Essam, una delle voci più note della Rivoluzione del 2011, quando due suoi brani (Pane, libertà, giustizia sociale e Irhal, ”vattene”, indirizzato a Hosni Mubarak) furono cantati insieme a lui da milioni di manifestanti a piazza Tahrir.

A pochi giorni dalle elezioni del marzo del 2018, che videro la riconferma di al-Sisi, il video della canzone di Essam, che ora è in esilio in Svezia, aveva superato i tre milioni di visualizzazioni su Youtube. Troppo per un potere politico che non accetta di essere messo in discussione.

Proprio allora Habash venne portato in carcere, nella prigione di Tora, e tenuto in detenzione preventiva per indagini che non sono mai andate avanti. «È la prassi in Egitto. Quel carcere – continua Noury – o ti uccide di botte o ti uccide di mancate cure mediche o ti uccide di isolamento. Il 2 maggio è accaduto anche lui, così com’era accaduto ai suoi compagni di prigionia, come stanno raccontando le cronache degli esuli egiziani di questi ultimi giorni».

La condizione di sistematica incertezza a cui si è sottoposti nelle carceri egiziane porta ancora una votla all’attenzione mondiale le condizioni in cui i detenuti vivono all’interno delle prigioni del Paese, già normalmente pericolose e sovraffolate e in queste settimane rese ancora più pericolose dalla pandemia di coronavirus. In questa incertezza vive anche Patric George Zaki, il cui arresto preventivo è stato prorogato di 45 giorni in 45 giorni senza nemmeno una formalizzazione delle accuse.

Martedì 5 maggio i giudici egiziani hanno deciso che lo studente dell’Università di Bologna, rimarrà in carcere nonostante le sue preoccupanti condizioni di salute. Zaki, infatti, soffre d’asma e ha problemi respiratori seri, che nel contesto dell’emergenza sanitaria globale rappresentano un ulteriore elemento di allarme. «Sappiamo che è vivo – chiarisce il portavoce di Amnesty – per il semplice fatto che nessuno ci ha detto che è morto. L’ultima visita i suoi familiari l’hanno potuta effettuare il 9 di marzo, quindi siamo quasi a due mesi di distanza. Quello che sappiamo è che dovrebbe essere scarcerato, prima di tutto perché è innocente, e poi perché è un soggetto a rischio. E allora quello che Amnesty International ha deciso di fare in queste ultime settimane insieme all’Università di Bologna e al Comune di Bologna è di sollecitare un provvedimento umanitario di rilascio per motivi di salute. Lo abbiamo fatto coinvolgendo l’ambasciatore italiano in Egitto, Giampaolo Cantini, che ha risposto garantendo interessamento in una prima occasione e gli abbiamo riscritto proprio in questi giorni per chiedere che dia seguito alle sue buone intenzioni». Buone intenzioni che purtroppo, finora, non hanno portato a risultati concreti.

Il fatto è che queste violazioni, così evidenti, così documentate e dal rilievo internazionale, non sembrano avere alcuna conseguenza. «Politicamente – riflette Riccardo Noury – l’Egitto non rende conto a nessuno, perché i rapporti sono così forti sul piano bilaterale con tanti Paesi e sono rapporti di convenienza, di armonia, di scambi di varia natura. Dovrebbe rendere conto agli organi internazionali sui diritti umani, ai meccanismi sui diritti umani delle Nazioni Unite che però hanno un potere persuasivo pari a zero, possono fare dei report delle denunce e approvare delle risoluzioni, condannare, però tutto questo non incide. Inciderebbe una presa di posizione politica nei rapporti di alcuni paesi chiave con l’Egitto ma questa presa di posizione manca».

È legittimo chiedersi se la crisi del mercato degli idrocarburi, il crollo del prezzo del petrolio e in generale la flessione economica globale, possano ridurre la posizione di forza dell’Egitto, costringendolo a rendere conto delle proprie azioni di fronte alla comunità internazionale. Tuttavia, il Paese non è così dipendente dalle esportazioni di petrolio come lo sono altri nella regione, soprattutto nella Penisola arabica o nel Golfo persico, quindi anche questa ipotesi sembra da scartare. «L’Egitto – conclude infatti Noury – ha altre risorse che non sono semplicemente legate a fattori economici. La sua posizione lo rende un Paese chiave nella zona dell’Africa del Nord, in particolare rispetto alla Libia, ma anche rispetto a fenomeni come l’immigrazione. È stato il primo Paese a raggiungere la pace con Israele, quindi in qualche modo è considerato un esempio di moderazione e di progresso. Queste sono carte che l’Egitto gioca con intelligenza, minacciando che se venisse a mancare questo ruolo equilibratore e di pace nell’area il terrorismo esploderebbe, l’immigrazione ripartirebbe e la Libia si spezzerebbe ancora di più».

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Egitto: il laboratorio repressivo del Medio Oriente – Enrico Campofreda

La guerra a bassa intensità, imposta dalla lobby militare del presidente Al Sisi non tanto ai jihadisti dell’area del Sinai ma a qualsiasi oppositore, è uno degli elementi più inquietanti della multiforme reazione ai moti delle Primavere 2011. Se nell’ampia regione fra Mashreq e Maghreb sono tuttora in corso guerre e stragi di civili, come in Siria, o azzeramenti della forma Stato, in Libia, è nella più grande nazione araba che la reazione sperimenta una repressione al tempo stesso spietata e sofisticata. La guida un uomo che sembra un buon padre di famiglia, un volto talmente bonario che avrebbe potuto sorridere dell’ironia con cui un noto rapper lo rappresenta, definendolo balaha nel suo omonimo video musicale.

Balaha significa “dattero”, un po’ come la faccia pasciuta e il corpo basso e tozzo dell’ex generale. In realtà a chiamarlo così è la stessa gente d’Egitto, lo fa chi lo disprezza e chi lo teme. Ovviamente quest’ultimo lo dichiara a mezza bocca, fra conoscenti fidati, perché le orecchie dei mukhabarat [i servizi segreti] o dei loro spioni prezzolati sono sempre in agguato. Quel che è accaduto di recente, non al rapper Rami Essam che con l’aria che tira nel Paese da tempo ha preso un volo per la Svezia, ma a un incauto fotografo e regista, Shadi Habash, con- ferma i timori personali e la crudele realtà quotidiana.

L’ESCALATION DELLA REPRESSIONE
Per il video Balaha, che ovviamente spopola sui social, il ventenne Habash – ahilui – rimasto in Egitto è finito in galera. Non in un carcere qualsiasi, ma nella sezione Scorpion di Tora dove polizia e Intelligence locali trascinano i cittadini infedeli al culto del presidente. Shadi c’è rimasto due anni, per uscirne stecchito a inizio maggio. Non è dato sapere la causa della morte.
Quando i militari iniziarono il repulisti, nell’autunno 2013, era da poco avvenuto il golpe bianco che depose il presidente eletto Morsi, Fratello musulmano e unico Capo di Stato non militare dell’Egitto post monarchico. E c’era stata la mat- tanza della moschea Rabaa al-Adawiyya, una ventiquattr’ore di sangue con cui fra i mille e i duemila attivisti della Confraternita islamista (il numero dei morti è rimasto sempre segreto) vennero passati per le armi da esercito e polizia.
Quella gente era accampata all’aperto, davanti alla moschea, protestava con un gigantesco sit-in per l’incostituzionale rovesciamento di Morsi del mese precedente. Furono uccisi singolarmente con armi leggere, presi a fucilate, uno per uno. Non solo la strage passò quasi inosservata agli occhi della po- litica internazionale, ma tante anime belle della democrazia interna e mediorientale appoggiavano “l’esercito del popolo” che ristabiliva l’ordine contro l’islamismo dilagante.
«Prima vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubavano…» il famoso sermone del pastore Niemöller s’adatta perfettamente alla scalata repressiva messa a punto, mese dopo mese, dal nuovo dominus della “cricca delle stellette”.

LA “CRICCA DELLE STELLETTE”

Essa – neppure uno Stato nello Stato, ma semplicemente lo Stato – trovava nell’ambizioso Sisi un uomo d’immagine e di elaborazione per riprendere in mano il controllo d’ogni organismo nazionale che aveva subìto l’euforia dell’idea di cambiamento di piazza Tahrir. Dal Parlamento alla magistratura, fino all’informazione e ai sindacati. Forse solo l’Intelligence serbava quel rapporto diretto con la vecchia guardia dei feloul [letteralmente “gli avanzi” termine con il quale si indicano i fedelissimi di Mubarak]. Ma anch’essa andava rivisitata, per evitare gli affarismi personali di soggetti come Shafiq, il politico su cui puntavano i “mubarakiani” dopo la caduta del raìs, e che invece fu sconfitto nel confronto alle urne con Morsi. Dopo aver assassinato e arrestato migliaia di militanti del- la Brotherhood l’autoritarismo militare puntò altrove. L’opposizione liberale e socialista d’Egitto, i signori El Baradei, Moussa, Sabahi e soci capirono chi fosse Sisi e come volesse agire, quando dopo l’investitura presidenziale del 2014, si trovarono nuovamente i carri armati in piazza. Puntati stavolta non contro la Fratellanza Musulmana, da essi stessi odiata, ma contro ogni protesta, ogni gesto, ogni parola. Anche riunioni private ricevevano le visite poliziesche; militanti e sindacalisti venivano colpiti dal piombo com’era accaduto alla gioventù ribelle del sogno di primavera. La stretta sull’opposizione, che aveva rinchiuso gli attivisti del “6 Aprile”, continuava sui giornalisti.

GUERRA ALLE ONG: “MINACCE” ALLA SICUREZZA

Con l’accusa di “attentato alla sicurezza nazionale, complotto e terrorismo” venivano incarcerate migliaia di persone, gente che s’esprimeva per via, sui blog, sui social media. Accanto a galere riempite sino all’inverosimile, a ripetute torture, a sevizie sessuali – peraltro già praticate durante l’interregno sempre militare del Consiglio supremo delle Forze armate che agì dal marzo 2011 al giugno 2012 – le sparizioni di persone, giovani uomini e motivate ragazze, sono diventate sempre più frequenti. Fra quest’ultime operatrici di Ong e avvocati dei diritti, poste a difesa di accusati e accusate esse stesse di collusione con un fantomatico terrorismo.

Verso il vero terrorismo, autore inizialmente di attentati anche nella capitale e di agguati contro l’esercito, la lobby militare pratica operazioni di fac- ciata che non sradicano i gruppi jihadisti. La loro sopravvivenza giustifica lo stato d’assedio perenne, allargato all’intera popolazione metropolitana e rurale. Il gruppo di potere Al Quwwāt Al Musal- lahat Al Misriyya – le moderne Forze Armate che col motto “vittoria o martirio” hanno tracciato la via dell’Egitto contemporaneo – conta 480mila soldati effettivi (30mila gli avieri e altrettanti i marinai) e mezzo milione di riservisti immediatamente disponibili.

Ma l’età di abilità alle armi, compresa fra i 18 e i 49 anni, può portare più d’un terzo degli egiziani (35 milioni d’individui) a rivestire quell’uniforme. Del resto le Forze armate della vittoria e del martirio, occupano pur sempre la dodicesima posizione fra gli eserciti del mondo. Al cordone ombelicale della divisa indossata e vissuta come un’appartenenza, s’aggiunge l’interesse economico per chi lavora nell’esercito e per l’esercito.

LA LUNGA MANO DEI MILITARI

Le mani dei militari sono ovunque: dall’edilizia alla logistica, dall’agricoltura alla manifattura, dal commercio al turismo, chi vuol lavorare deve rapportarsi a loro. Le aziende controllate da generali e ufficiali e dai propri compari non solo rappresentano una po- tenza con cui imprenditori e tycoon locali – laici e d’ogni fede come Sawiris o Al-Shater – hanno dovuto fare i conti, ma condizionano il salario e la coscienza di milioni di egiziani. Questo spiega l’acquiescenza d’una grossa fetta della popolazione, i silenzi davanti ai soprusi, lo sguardo rivolto altrove, il mesto tirare a campare. Magari vagheggiando la grandezza patria rilanciata da quegli specchi dell’illusione che, come ogni megalomane del potere, Sisi prospetta coi progetti della nuova capitale e del raddoppio del canale di Suez.

IL “CASO REGENI”

Nel 2016 come una bomba scoppiò il “caso Regeni” con tanto di pedinamenti, sequestro, sevizie, uccisione del ricercatore friulano trapiantato a Cambridge e attivo al Cairo per ricerche sui sindacati indipendenti.
Differentemente da altri omicidi politici il ca- davere venne ritrovato, sebbene poi vari organi della sicurezza hanno operato depistaggi, occultamenti di prove, ostacoli alle indagini anche quella della Procura di Roma.

L’omicidio Regeni e la sua gestione possono essere considerate una linea di confine nel grande disegno repressivo del ceto militare egiziano. Poiché se da una parte la società civile internazionale dormiente ha avuto la prova inconfutabile d’un disegno criminoso mascherato da gestione democratica della vita nazionale, l’impossibilità di scardinare il muro di gomma creato dal regime ha sdoganato quell’il- legalità che toglie il respiro alla nazione e la vita a chi la vorrebbe diversa. La prassi del tempo sospeso e della “libertà” vigilata è l’infame passo con cui una magistratura complice aiuta i militari a soffocare la vita quotidiana e l’esistenza di tanti egiziani.

IL “CASO ZAKI”

Funziona come per Shadi. Hai compiuto un gesto di protesta o una beffa verso gli uomini di potere? Peggio per te. Sei considerato una mina vagante per la sicurezza dello Stato. Perciò vieni fermato, interrogato, magari malmenato, se reagisci torturato e accusato di resistenza e violenza. È un comporta- mento registrato anche altrove, lì dove il potere fa abuso del suo potere.

Ma questo regime fa di più: ti piega mentre simula una carezza. Pur considerato un pericolo, finanche un potenziale terrorista, ti libera. Applica lo stop and go: la detenzione, la scarcerazione e una nuova detenzione che illude chi le riceve creando frustrazione, depressione, paura dell’oggi senza domani. Crea il tempo in bilico, una vita incatenata al prossimo arresto. Ad libitum.
Sta accadendo allo studente universitario Patrick Zaki, in perpetua “custodia cautelare” ogni quindici giorni, seppure fra poco i giorni diventeranno quarantacinque. Un’esistenza dilatata per seppelliti vivi, in attesa della dipartita. La storia di Zaki è finita sui media perché il giova- ne studiava a Bologna, ed è stato arrestato solo per un pensiero incollato su un noto social media. Ma in Egitto esistono migliaia di Zaki di cui nessuno parla, lo fanno solo amici e sodali attraverso una flebile rete di sostegno.
Il regime di Sisi è colpevole di repressioni stragiste e assassini mirati, tiene in galera oltre sessantamila oppositori, giornalisti, avvocati e semplici cittadini, attua la descritta sospensione della vita. Alla quale ultimamente s’aggiunge un’altra bestiale “raffinatezza”: la repressione trasversale. Per punire qualcuno di presunti reati, se l’accusato è riparato all’estero, si arrestano i congiunti rimasti sulle rive del Nilo.
È un sistema scellerato verso cui il cosiddetto mondo libero, che si batte per i diritti dell’umanità, non può restare a guardare come se nulla stesse accadendo. Rivolgendo il pensiero all’affarismo del gas, al mercato dei caccia Rafale, dei carri Abrams, degli elicotteri Leonardo, delle fregate di Fincantieri. O sognando i resort vacanzieri sul Mar Rosso.

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Egitto, polizia talebana – Enrico Campofreda

Come la Kabul talebana Alessandria d’Egitto moralizza la vita vietando e arrestando. E’ accaduto a un giovane accusato di far volare degli aquiloni. Avete capito bene, quella magnifica invenzione che, se costruita artigianalmente, fa librare in aria carta colorata e due stecche di bambù incrociate, con una coda di filamenti o catenine, sempre di carta multicolore. Un gioco meraviglioso come l’infanzia che se ne serve sognando di volare. Una gioia che sfida i singulti ventosi se accompagnata dall’abile mano che, dopo il lancio, resta a terra a osservare un decollo alto quanto il filo di cotone o di nylon è capace d’unire il motore umano alla sfida celeste. Insomma sul lungomare di Alessandria un manipolo di militari della Marina e agenti in borghese hanno fermato un ragazzo che si dilettava a lanciare aquiloni e l’hanno condotto in un posto polizia. Hanno sequestrato l’oggetto del reato: canne, carta telata, code celesti e rosse. Così agisce l’Egitto che ammette solo la pratica del divieto, della repressione, della restaurazione, della vita senza gioia e senza il diritto di poter far nulla che il Potere non voglia. Pratica con zelo l’ossessione del controllo, l’invasione nel gesto e nella fantasia altrui una sbirraglia pagata, poco e male, per assillare l’esistenza di cittadini piccoli e grandi. Anche quando queste forme di coercizione assumono aspetti grotteschi come inseguire gli aquiloni, abbatterli, distruggerli – quasi si trattasse di aerei nemici, di pericolosi invasori – i marcatori del territorio eseguono pedissequamente, senza battere ciglio, né pensare.

Non possiamo verificare, non ci risponderebbero, ma non crediamo che quei marinai e poliziotti abbiano agito di propria iniziativa. Il clima fobico dei regimi ama creare limitazioni, e probabilmente il locale governatore, o chi per lui, ha pensato di eliminare gli aquiloni dal panorama cittadino perché fonte di disturbo e di chissà quale idea sovversiva. Librarsi in volo rappresenta di per sé un gesto liberatorio che i grevi esecutori degli ordini repressivi nella dittatura egiziana non contemplano e intendono cancellare. L’Egitto che azzera il volo degli aquiloni è più vicino all’oscurantismo talebano che alla modernità di cui si vanta il megalomane dittatore del Cairo difeso dall’Occidente.

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Sanaa Seif rapita da agenti in borghese alla procura del Cairo – Chiara Cruciati

Sanaa Seif, giovane attivista egiziana e sorella minore di Alaa Abdel Fattah, prigioniero politico di lungo corso e volto della resistenza contro ogni regime, da Mubarak ad al-Sisi, è stata rapita ieri in pieno giorno da uomini in borghese nell’ufficio del procuratore generale.

Nemmeno due ore dopo era sotto interrogatorio, accusata di diffusione di notizie false, abuso dei social media e incitamento al terrorismo. In serata le sono stati comminati 15 giorni di detenzione cautelare.

È successo tutto in pochissimo tempo. La prima a denunciare la sparizione di Sanaa è stata la sorella Mona Seif, anche lei nota attivista. Lo ha scritto su Twitter, immediatamente: Sanaa è stata presa da uomini in abiti civili, caricata su un furgoncino e portata via.

«USARE IL TERMINE “arrestata” – ha aggiunto in un tweet successivo – implica una legalità del procedimento. Sanaa Seif non è stata “arrestata”, è stata rapita e il suo rapimento è stato facilitato dalle guardie dell’ufficio del procuratore generale. Le violazioni commesse contro la mia famiglia continuano e crescono con la benedizione del procuratore generale d’Egitto Hamada El Sawy».

Ovvero l’uomo conosciuto in Italia per essere il responsabile della pressoché nulla collaborazione tra procure sul caso della morte di Giulio Regeni. È andata esattamente così, Sanaa è stata rapita mentre con la sorella Mona e la madre Laila stava denunciando quanto accaduto appena il giorno prima, il pestaggio subito di fronte al super carcere di Tora dove è detenuto dallo scorso settembre Alaa Abdel Fattah.

ERANO LÌ PER AVERE notizie, da tre mesi non possono vederlo per le pretestuose misure di contenimento del Covid-19 ordinate dal governo del presidente al-Sisi: visite familiari vietate, a fronte di carceri sovraffollate, sporche, con pessime condizioni igieniche e di aerazione.

I dati a disposizione parlano di 28 prigioni colpite dal Covid, almeno dieci prigionieri deceduti e 133 contagiati, insieme a 22 poliziotti.

A metà marzo le tre donne erano state arrestate per un sit-in di fronte a Tora: chiedevano la liberazione di tutti i detenuti politici, circa 60mila, sestuplicati dai tempi del non certo tollerante regime di Mubarak. Con loro era stata arrestata anche Ahdaf Soueif, scrittrice e sorella di Laila.

Domenica una nuova vessazione, il pestaggio da parte di alcune donne – probabilmente mandate dal regime – sotto gli occhi degli agenti che non sono intervenuti. La denuncia si è trasformata, nell’arresto di Sanaa. Ventisette anni, attiva dai tempi della rivoluzione del 2011 quando creò un giornale della piazza che superò le 30mila copie, era stata già detenuta nel 2014 per sei mesi.

I CRIMINI DEL REGIME egiziano proseguono, senza soluzione di continuità. Il 17 giugno scorso la detenzione preventiva dello studente Patrick Zaki, in carcere dal 7 febbraio, è stata rinnovata di altri 15 giorni. Per lui è nata la campagna «100 Città con Patrick», lanciata dalla rete di studenti e giovani GoFair, che chiede ai comuni italiani di concedere al giovane la cittadinanza onoraria.

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Il giornalista Mohamed e la dottoressa Alaa: cosa significa essere egiziani – Chiara Cruciati

Sono le storie dei singoli a far capire, all’estero, cosa significhi essere egiziani. Khaled Said, Alaa Abdel Fattah, Mahmoud Abu Zeid, Giulio Regeni, Patrick Zaki, Sarah Hijazi, chi ucciso per strada dalla polizia, chi torturato per giorni fino a morirne, chi detenuto senza ragione se non quella della repressione politica, chi tanto umiliato e abusato da voler abbandonare la vita.

LE LORO STORIE sono tanto più dolorose perché non sono l’eccezione, ma la normalità. Una normalità fatta di (ed è una stima) due o tre sparizioni forzate al giorno, di 60mila prigionieri politici, di leggi che vietano lo sciopero e le manifestazioni di dissenso.

Vale la pena raccontarne altre: a soffocare gli egiziani sono corpi militari e di polizia i cui strumenti arrivano dall’Italia e l’Europa, armi leggere, sistemi di intercettazione, veicoli blindati. Non ci sono solo le fregate.

Lunedì scorso in prigione in Egitto è finito l’ennesimo giornalista. Mohamed Monir, 65 anni, è stato arrestato da agenti in borghese ed è al momento in detenzione preventiva, i famosi 15 giorni rinnovabili senza limite. È accusato di appartenenza a organizzazione terroristica, diffusione di notizie false e abuso dei social media. Il motivo: era apparso su Al Jazeera, emittente tv qatariota, considerata dall’Egitto quasi minaccia esistenziale.

LA RAGIONE È POLITICA: il Qatar è un sostenitore dichiarato dei Fratelli Musulmani, dal 2013 messi al bando dal Cairo come organizzazione terroristica, soggetti a processi di massa e massacri (come quello di piazza Rabaa, agosto 2013, primo atto del regime di al-Sisi).

Dopotutto Mahmoud Hussein, caporedattore di Al Jazeera in Egitto, è agli arresti dal 20 dicembre 2015, senza che si sia mai arrivati a processo. E senza che un’accusa formale nei suoi confronti sia mai stata mossa, dopo oltre 1.270 giorni trascorsi in cella.

La polizia era stata a casa di Monir già il sabato precedente senza trovarlo. Gli agenti erano però stati “catturati” dalla videocamera di sorveglianza. Solo a maggio sono stati quattro i giornalisti arrestati in Egitto, terzo paese al mondo per reporter dietro le sbarre dopo la Cina e la Turchia, attualmente 26, numero che comprende solo quelli arrestati in relazione diretta al lavoro svolto.

Non solo i media. Negli ultimi mesi di epidemia di Covid-19 il sistema repressivo si è scagliato anche contro gli operatori sanitari critici verso la mala gestione della crisi.

C’è chi ha scioperato, chi si è dimesso, chi ha raccontato in che condizioni si lavora negli ospedali al collasso, privi di attrezzature e protezioni. Si finisce in carcere: secondo Amnesty International tra marzo e giugno l’Nsa, i servizi di sicurezza egiziani – gli stessi responsabili della sparizione e le torture a Giulio Regeni, secondo quanto accertato dalla Procura di Roma –, hanno arrestato sei medici e due farmacisti per aver espresso sui social media le loro preoccupazioni.

Tra loro c’è Alaa Shaaban Hamida, dottoressa di 26 anni, arrestata il 28 maggio all’ospedale di Alessandria, dopo essere stata segnalata dal suo stesso direttore.

Hany Bakr, oftalmologo di 36 anni, è stato portato via dalla sua casa a Qalyubia, nord del Cairo, il 10 aprile per un post di critica al governo su Facebook. Il 27 maggio è stato un medico la vittima dell’Nsa: aveva scritto un articolo sul fallimentare sistema sanitario egiziano. Questi alcuni dei casi.

CE NE SONO TANTI ALTRI, denunciati dal sindacato dei medici, che parla di minacce, interrogatori, multe, trasferimenti: «Stanno costringendo i medici a scegliere tra la morte e la prigione».

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Egitto, morire di Covid-19 infettandosi in galera – Enrico Campofreda

Solo un mese fa l’International Presse Institute, una rete di giornalisti e redattori che difendono lavoro, indipendenza e libertà d’informazione aveva denunciato il pericolo corso dai detenuti nelle carceri egiziane obbligati a una pesante quanto pericolosa promiscuità. Fra essi una sessantina di giornalisti. E in quei giorni, precisamente il 15 giugno, un decano dei media del grande Paese arabo, Mohamed Mounir veniva fermato e poi trattenuto in carcere per aver partecipato a un dibattito sul canale televisivo Al Jazeera. Il tema trattato in quell’apparizione riguardava un contrasto sopraggiunto fra la chiesa copta e il quotidiano Rose al–Youssef per una copertina di quest’ultimo. Così il sessantacinquenne Mounir, fondatore del “Fronte per la difesa dei giornalisti e delle libertà”, oltre che memoria cronachistica e storica degli eventi interni degli ultimi anni dalla caduta di Mubarak, all’elezione di Morsi fino al suo arresto e al golpe bianco di Al-Sisi, finiva in prigione. Nei giorni immediatamente successivi all’arresto la “Rete araba per i diritti umani” aveva fatto appello alla Procura di sicurezza dello Stato che s’occupava del suo caso, per liberare l’uomo cagionevole di salute, visto che aveva già subito due infarti ed era affetto da problematiche renali. In carcere Mounir s’è rapidamente infettato di Coronavirus, eppure nonostante gli appelli di colleghi e amici non è stato immediatamente scarcerato né condotto in una struttura protetta. Successivamente di fronte a un peggioramento è tornato libero finendo in ospedale, però era tardi: dopo poco è sopraggiunto il decesso per insufficienza respiratoria. Il cronista, da sempre impegnato con il sindacato dei giornalisti, anche nei recenti anni in cui la scure della censura ha ferocemente colpito la categoria, si era anche battuto contro la concessione alla monarchia Saud delle isole di Tiran e Sanafir, un occhio strizzato da Sisi al principe bin Salman per saldare buoni rapporti nel fronte arabo della repressione nazionale ed estera. Mounir aveva già conosciuto la galera durante il regime di Mubarak che l’accusava (senza prove) di un’adesione a un’organizzazione segreta comunista. Chi ha avuto il piacere di frequentarlo ne apprezzava la calorosa umanità e la coinvolgente ironia. L’informazione egiziana e internazionale perdono un professionista onesto, coraggioso, sensibile alla deontologia anche davanti alle minacce del potere, che in quel contesto sono tutt’altro che verbali.

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Giulio Regeni. Rete disarmo chiede di bloccare l’export di armi in Egitto

La Rete disarmo interviene in relazione all’audizione del Ministro degli Affari esteri Di Maio nella Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni sulla concessione dell’autorizzazione alla fornitura all’Egitto delle due fregate Fremm

«Rinnoviamo il nostro appello al Governo a sospendere tutte le esportazioni in atto e i contratti corso di autorizzazione per forniture di armamenti e sistemi militari all’Egitto fino a quando le autorità egiziane non faranno piena luce sulla morte del giovane ricercatore italiano, barbaramente torturato e ucciso nel loro Paese. Ribadiamo ai genitori di Giulio Regeni la nostra vicinanza, la nostra solidarietà e il nostro sostegno alla loro richiesta alle autorità di fare piena luce sull’uccisione di loro figlio affinché si giunga al più presto a verità e giustizia».

Rete disarmo, di cui fa parte la Commissione Globalizzazione e ambiente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, interviene a proposito dell’audizione del Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, Luigi Di Maio, presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, in relazione alla concessione dell’autorizzazione alla fornitura all’Egitto delle due fregate Fremm già destinate alla Marina Militare italiana (la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi).

Rete disarmo chiede al Governo di sottoporre all’esame e al parere delle Camere la fornitura all’Egitto di altre quattro fregate, 20 pattugliatori, unitamente a 24 caccia multiruolo Eurofighter e 20 aerei addestratori M346 ed altro materiale militare del valore tra i 9 e gli 11 miliardi di euro. «La legge 9 luglio 1990 n. 185 – dice infatti una nota della Rete – stabilisce infatti il divieto ad esportare armamenti “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere” (art.1, c.6 a)».

Il comunicato ricorda anche che la legge 185/90 esplicita il divieto ad esportare armamenti verso paesi la cui politica contrasti con l’articolo 11 della Costituzione italiana e verso i Paesi «i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa» (art.1, c.6 d).

A questo proposito il “Comitato contro la tortura” delle Nazioni Unite, in un rapporto (A/72/44) inviato all’Assemblea Generale nel maggio del 2017, ha accertato tali violazioni giungendo «alla conclusione inevitabile che la tortura è una pratica sistematica in Egitto».

Anche il Parlamento europeo ha evidenziato in due specifiche risoluzioni (Risoluzione 13 dicembre 2018 e Risoluzione 24 ottobre 2019) che in Egitto «continuano a essere commesse gravi violazioni del diritto alla vita attraverso la magistratura che ha emesso ed eseguito un numero mai così elevato di condanne a morte contro molti individui – minori inclusi – in particolare a seguito di processi militari e di massa privi delle garanzie minime di un processo equo».

La Rete disarmo coglie l’occasione anche per sollecitare l’immediato e incondizionato rilascio di Patrick Zaky, lo studente dell’università di Bologna da oltre cinque mesi detenuto senza processo nella prigione di Tora.

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Elezioni d’Egitto

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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