Quando i bambini al Pireo giocavano all’Iliade, nessuno voleva fare Aiace. E anche nel “fumettone” di Wolfgang Petersen per impersonare questo valoroso guerriero non hanno certo scelto una star, ma il muscoloso Tyler Mane, un ex-wrestler canadese quasi esordiente al cinema. Eppure Aiace non è solo muscoli.
Omero nella storia di quei cinquantun giorni fatali dell’ultimo anno della guerra di Troia “regala” a questo eroe alcuni scontri davvero emozionanti, di quelli capaci di tenere i suoi ascoltatori con il fiato sospeso. Omero usa Aiace per rendere più viva l’azione, ma non ama davvero questo suo personaggio.
Nel libro settimo Aiace viene scelto tramite un sorteggio per combattere contro Ettore e i due eroi si scontrano senza esclusione di colpi per un giorno intero. È Zeus che impone la fine di questo lungo duello, decretando un salomonico, ma ingiusto, pareggio: altrimenti Aiace avrebbe vinto e la guerra di Troia sarebbe finita alcuni mesi prima. Ma senza il finale spettacolare che tutti conosciamo. E quando, nel libro dodicesimo, i Troiani attaccano le navi dei Greci, Aiace ed Ettore tornano a scontrarsi e anche stavolta per poco l’eroe greco non uccide il principe troiano, scagliandogli contro una grossa pietra, che nessun altro avrebbe potuto sollevare. E Aiace per molti esametri difende praticamente da solo le navi dall’attacco nemico, uno dei più pericolosi di tutto il conflitto. Quando Ettore, miracolosamente guarito da Apollo, torna a combattere, affronta nuovamente Aiace e, pur senza riuscire a ferirlo, lo disarma. Ma Aiace poco dopo torna a combattere: è solo grazie a lui che le navi sono momentaneamente messe al riparo, anche se è ormai chiaro che senza il ritorno di Achille i Troiani sono destinati a sconfiggere i Greci. Aiace, come ce lo racconta Omero, è l’eroe che non vince mai, che non può vincere, perché l’alloro deve toccare ad altri. Già questo ce lo rende così vicino.
Il figlio di Telamone, ossia l’eroe di una generazione precedente, quella degli Argonauti, che con Eracle ha già espugnato la rocca di Ilio, è un guerriero valoroso, ma rimane sempre il numero due, perché Achille, che è suo cugino, è più forte e coraggioso di lui. E Odisseo è più furbo di lui. E Paride è più bello di lui. E Nestore è più saggio di lui. E Agamennone è più potente di lui. C’è sempre qualcuno che è un po’ più di lui. Ma ad Aiace questo davvero non importa. Omero ce lo fa vedere chiaramente: Aiace da solo può uccidere tanti altri guerrieri, può compiere imprese gloriose, ma non può conquistare Troia. E Aiace infatti non sarà tra i guerrieri che entrerà nella città nemica. Perché muore prima. Di questo Omero non parla, perché non vuole mettere in cattiva luce il “suo” Odisseo, l’eroe a cui vuole dedicare un altro poema.
Quando Paride uccide Achille, il suo corpo rimane a terra e i nemici si stanno scagliando su di lui per prenderne le armi: occorre riportarlo al campo greco, un gravoso compito di cui si incaricano Aiace e Odisseo. È l’ultima battaglia che combatte il re di Salamina, che tiene a bada da solo le truppe troiane, mentre il re di Itaca recupera il cadavere di Achille, lo carica sul carro e lo mette finalmente in salvo. Ciascuno dei due, al termine di questa impresa, reclama di ottenere le armi di Achille, un onore che sarebbe spettato per ragioni di sangue e per meriti sul campo ad Aiace, ma sappiamo che il mondo non sempre premia chi lo merita e così le armi vengono assegnate a Odisseo. Perfino Omero sorvola su questo episodio, citato di sfuggita nell’Odissea, evidentemente perché il re di Itaca non ci fa una gran figura. Ha ottenuto quel premio con l’inganno. Aiace va su tutte le furie, qualcuno dice che è impazzito, si racconta che abbia ucciso degli armenti credendoli i compagni d’arme, su cui vuole sfogare la sua rabbia vendicativa. Quando si rende conto di quello che ha fatto, capisce che per lui non c’è più posto nel mondo. Prende la spada che Ettore gli ha donato dopo il loro primo duello – una forma di rispetto cavalleresco che usava in quei tempi – si allontana nel bosco e si uccide gettandosi su quell’arma. La vergogna cade sull’eroe, tanto che Agamennone ordina che il suo corpo non venga bruciato, ma sepolto a terra, come marchio di infamia. Dovrà intervenire Odisseo, che evidentemente si sente in colpa, per permettere che Aiace venga ridotto in cenere, come si conviene a un eroe della sua tempra.
Omero ci mostra Aiace un ultima volta nell’Odissea, quando il gran viaggiatore raggiunge gli Inferi. Qui incontra tutti i suoi vecchi compagni e naturalmente anche Aiace, che di fronte a colui che gli ha negato l’onore di portare le armi di Achille, nonostante un goffo tentativo di scuse, rimane in silenzio. In maniera caparbia, ci fa intendere Omero: anche nella morte Aiace serba rancore. E così questa è l’ultima immagine che abbiamo di lui, un uomo inutilmente rancoroso.
Anche se Omero non ce lo dice chiaramente, c’è una cosa però che rende Aiace davvero unico tra tutti gli eroi che combattono sotto le mura di Troia: è il solo che durante quel lungo conflitto non viene mai aiutato da un dio. Non c’è qualcuno che scaglia una freccia al suo posto, colpendo quel punto preciso praticamente irraggiungibile, o un altro che fa arrivare una nebbia provvidenziale che lo nasconde ai nemici proprio nel momento di maggior pericolo; Aiace compie le sue imprese, combatte, si difende, vince o perde, sempre da solo, lui è l’unico eroe che non ha mai bisogno degli dei, né chiede loro aiuto.
Ma non è come Capaneo, non è uno che ha in spregio gli dei, anzi è un vecchio conservatore, probabilmente uno dei più all’antica tra quelli che sono andati a combattere a Troia. Aiace crede agli dei, ma crede anche che, di fronte agli dei, gli uomini debbano essere responsabili delle proprie loro azioni, nel bene e nel male. E deve avere in grande antipatia quelli come Odisseo, che fanno tanto i moderni, che sostengono i “nuovi” valori, ma poi quando sono in pericolo corrono a proteggersi dietro le gonne di Atena. Non è rancore quello che Aiace dimostra a Odisseo nell’Ade, è semplicemente che non ha nulla da dirgli.
E Aiace non si uccide perché è diventato pazzo, come fa comodo a tutti credere, ma perché si è reso conto che ormai il suo mondo è finito, perché adesso hanno successo quelli come Odisseo. E immagino che non sia un caso che anche un altro cavaliere che il mondo preferisce credere un pazzo abbia ucciso delle pecore, credendole pericolosi nemici. Perché anche il Cavaliere dalla Trista Figura è un un uomo che vive in un mondo che non gli piace, un mondo in cui vincono quelli come Odisseo.   

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Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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