Se le lotte non dovessero prendere corpo, uno shock autoritario diventerebbe inevitabile. Se queste non dovessero riuscire a costituire un due antagonista, prevarrà la guerra fra poveri, razze e generazioni. Senza la formazione di contropoteri su scala europea, non sarà possibile nemmeno immaginare governi differenti.

di Raúl Sánchez Cedillo

Partendo dall’ipotesi della divisione in due, come figura della condensazione di contraddizioni e antagonismi sincronici (milioni di persone senza futuro né sicurezza alcuna, condannate a morire o a tirare avanti nell’ipersfruttamento delle proprie vite) e diacronici (l’intensificazione delle lotte di classe in Spagna e in Europa a partire dalla sequenza apertasi nel 2011), procediamo nel descrivere le proposizioni fondamentali che possono potenzialmente portare a una rottura emancipatoria, o, in altri termini, far sì che questa ennesima crisi diventi ingovernabile.

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Posto che lo spazio politico e produttivo di questa crisi è l’Europa (e non occorre perdere altro tempo per chiarirlo), anche l’unità di riferimento delle lotte e degli antagonismi del due è l’Europa. Così come elencando le lotte e i conflitti li riferiamo all’insieme “Stato Spagnolo”, tutte le lotte locali, regionali e nazionali sono lotte che si sviluppano all’interno di un diagramma europeo e che occorre analizzare rispetto a quella scala di relazioni ed efficacia. In questo senso, gli obiettivi posti possono e devono essere raggiunti su scala europea; qualsiasi “conquista” regionale o nazionale può solo considerarsi un primo passo, fragile e suscettibile di produrre effetti collaterali, causati da manipolazioni nazionaliste dei differenziali nelle condizioni di vita delle classi subalterne europee; nello stesso modo in cui i differenziali di redditi e benessere fra le comunità autonome spagnole servono a dividere le classi popolari intorno a egemonie “spagnoliste”, “baschiste”, “catalaniste”.

Durante la crisi europea del debito pubblico iniziata nel 2010, l’unità di azione delle élite politiche e finanziarie ha imposto una struttura nord/sud, centro/periferia nella dinamica del conflitto fra le necessità sociali di ogni stato membro e le politiche di austerità.

La stessa unità che in seguito al fallimento del Trattato Costituzionale europeo nel 2004-2005, ha fatto sì che il processo istituzionale della UE venisse solo apparentemente portato a compimento, gettando allora le basi per l’exploit sovranista delle estreme destre europee. Oggi tuttavia, quella unità sembra essersi frammentata in maniera durevole, in quanto nessuna delle forme di governance che si stanno formando durante e in seguito alla pandemia, sarà in grado di costruire un blocco monolitico come quello che massacrò la Grecia nel 2010-2015. La geometria che si va delineando può offrire spazi per la formazione di blocchi regionali, alleanze trasversali, interstizi nei quali iniziative di lotta autonome provenienti da vari paesi e territori possono costituire centri di gravità transeuropei.

Ancora non sappiamo come si risolverà il dramma familiare fra il neoliberismo europeo e i partiti di estrema destra. Sarà decisivo l’intervento dei centri di gravità delle lotte prima che questo avvenga, ovvero prima che si ricostituisca una Santa Alleanza. Un certo progressismo stolto potrebbe suggerire il contrario: continuare ad allearsi con il centro destra onde evitare che questo unisca il proprio destino alle destre estreme, in piena conformità con l’imperituro odio verso la moltitudine, aka “panico anticomunista”. Ma questa è esattamente la ricetta che ci ha portato fin qui.

Occorre che le condizioni e le conseguenze della pandemia ci facciano mettere da parte illusioni nazionaliste e sovraniste, ovvero l’idea che si possa sconfiggere la propria oligarchia capitalistica in un unico paese, e che uno Stato nazione possa fronteggiare la governance europea senza che le sue classi popolari svincolate organicamente dallo Stato paghino un prezzo carissimo.

Allo stesso tempo, la pandemia mette in risalto gli isomorfismi che ricorrono attraverso l’Europa: ovunque si impone il primato del profitto e del potere di classe sulle vite che lavorano per potersi sostentare e riprodurre. Le condizioni per la convergenza europea delle lotte e delle iniziative sono già date;

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I principali obiettivi delle lotte sono l’ottenimento di un reddito di base di emancipazione (individuale, universale e incondizionato) e la redistribuzione del lavoro a salario ugualesocializzazione del denaro (un tempo conosciuta come “nazionalizzazione delle banche”) e socializzazione comunitaria (democraticalocaletranseuropea) di ciò che potremmo definire come il settore 0 della produzione o settore comune, ovvero la sanità, l’abitazione, l’educazione, l’agricoltura non speculativa, la produzione energetica, la ricerca scientifica e le infrastrutture della telecomunicazione, così come i dati che tutti noi produciamo. Si tratta di garantire (per la legge della forza resa forza di legge) quote crescenti di riproduzione autonoma delle classi popolari in attività svincolate dalla produzione di guerra e dal riscaldamento globale. Una tale garanzia non può essere stabile, non può essere costituzionalizzata né dar luce a un New Deal con un capitalismo sfiancato; ma può perlomeno resistere e persistere, il che è già molto. Gli effetti che un processo di lotte di questo genere potrebbe avere sulla situazione europea, a condizione che queste raggiungano un certo grado di simultaneità, densità, estensione e coordinazione, potranno essere solo positivi e, per di più, rappresentare un evento inedito nella storia europea.

Ciò che nel 1943, in piena Seconda Guerra mondiale, Michal Kalecki scriveva in Aspetti politici del pieno impiego continua a rimanere fondamentalmente valido, e le sue riflessioni riguardo al pieno impiego e al sovvenzionamento del consumo, nel contesto attuale possono essere applicate al reddito di base e alla redistribuzione del lavoro.

Allora come oggi, si compie l’assioma per cui il potere di classe viene prima dei profitti, mettendo in evidenza il nucleo di irrazionalità e fascismo che opera all’interno della struttura di potere del capitalismo mondiale:

«[…] Ci si può quindi attendere che i “capitani d’industria” e i loro esperti abbiano una disposizione più favorevole nei confronti del sovvenzionamento del consumo di massa […] piuttosto che nei confronti degli investimenti pubblici: nel sovvenzionare il consumo lo Stato non interferirebbe infatti in alcuna misura nella sfera dell’attività imprenditoriale. In realtà tuttavia la questione si presenta altrimenti: la sovvenzione dei consumi di massa incontra un’avversione ancora più aspra di tali esperti che nei confronti degli investimenti pubblici.

Ci imbattiamo qui infatti in un principio “morale” della più grande importanza: le basi dell’etica capitalistica richiedono che “ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte” (a meno che tu non viva dei redditi del capitale). […] Infatti, in un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del padrone sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. […] Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti».

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Il sistema dinamico di contropoteri che viene creato nell’espressione dell’antagonismo del due, necessita di istituzioni in grado di sostenersi nel tempo, riappropriarsi della gestione e delle finalità della produzione e di saper condizionare in maniera determinante la transizione a un modo di produzione del comune; partendo da quel “settore 0”, il settore che produce l’umano per mezzo dell’umano in un ambiente ecosistemico.

Che ruolo può giocare in questo contesto l’azione legislativa ed esecutiva in ambiti nazionali ed europei?

Porsi questa domanda alla luce del fallimentare tentativo di revoca della riforma del lavoro del 2012 in Spagna (riforma attualmente vigente, figlia legittima della Troika e nata nel 2012 durante il governo di Mariano Rajoy) suggerisce già una risposta: può nel migliore dei casi svolgere il ruolo di riconoscere la legge della forza e sancire ciò che già conquistato. Ma la natura di questa crisi aggrava e radicalizza il problema che già si presentò durante il precedente ciclo di lotte contro l’austerità: qualsiasi riforma reale prende valenza rivoluzionaria; nei fatti, un processo di cambio radicale comincia con riforme che non si chiudono in una regolamentazione stabile; bensì, per effetto della natura profondamente politica e di classe di questa nuova recessione, ciò che prevale è la sottomissione, la demoralizzazione, l’affermazione del potere del capitale come mediatore universale e condizionalità per la vita umana, al di sopra di ogni stabilizzazione risultante da un patto, da un Deal.

Il movimento del 15m (fonte: wikimedia.commons.org)

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L’antagonismo del due, nella sua contromobilitazione permanente non può permettersi di cessare il suo processo di scissione e, così facendo, neutralizzare politicamente la ricomposizione delle classi medie intorno agli obiettivi dell’alleanza fra rendita e proprietà che ha luogo nella forma-Stato. In altre parole, l’antagonismo del due implica un protagonismo popolare capace di disgregare e mettere in crisi l’egemonia (di discorso, presenza, finalità, leadership) della classe media che affida le proprie sorti allo Stato finanziarizzato della rendita parassitaria. Questo è il principale e senza dubbio più difficile compito nella costruzione del due. Sicurezza per sicurezza, certezza per certezza, credenza per credenza (credito). Nel caso Spagnolo, basti solo pensare ai 10 milioni di pensionati e alla capacità di ricatto e terrore di cui dispongono lo Stato e il sistema finanziario, nel mettere contro diverse generazioni, ostacolando la possibilità di trasformazione per paura dell’abbandono e della morte.

Se nel precedente ciclo di austerità non si riuscì a smantellare l’idea per cui “la ricchezza scarseggia”, se non attraverso brevi irruzioni come il 15M, tornerà questa a imporsi nuovamente nonostante l’ultimo decennio sia servito ad accrescere in maniera inconcepibile la concentrazione di capitale e proprietà?

Potrà ancora attecchire il mito della scarsità, del “non c’è abbastanza per tutti”, come precetto interiorizzato dalle classi subalterne, al fine di rafforzare gerarchie e divisioni di genere, razza e classe attraverso politiche fiscali, sociali e salariali? È giunto il momento di riorganizzarsi intorno a ciò che negli anni sessanta statunitensi era conosciuto come “strategia Cloward-Piven”. Quando si parla di New Deal americano, si tendono a dimenticare due cose fondamentali: se questo portò a una redistribuzione della ricchezza, ciò avvenne non prima della Seconda Guerra Mondiale; e se a partire dagli anni Trenta fino al suo declino all’inizio degli anni Settanta, si cimentò l’unità delle classi lavoratrici, le linee gerarchiche di razza e genere vennero riprodotte attivamente all’interno della sua composizione. E in tal senso non cessò mai di operare come dispositivo di segregazione e riproduzione delle divisioni interne alla composizione di classe, in piena continuità con linee patriarcali e coloniali. Nel delineare la propria proposta, gli attivisti Frances Piven e Richard Cloward, affrontano il problema dell’uso politico capitalista del welfare, proponendone un uso alternativo in chiave emancipatoria: la saturazione del sistema di segregazione con domande sovrabbondanti, al fine di forzare un universalità reale; un reddito garantito universale che possa rompere i muri di separazione di classe sulla base di razza e genere e porre fine alla povertà sistemica.

Reti come Yo Sí Sanidad Universal, già agiscono in questa direzione da tempo con un piano di accesso universale alla sanità che ora torna ad assumere un’importanza decisiva. Lo stesso non si può affermare riguardo all’appena introdotto Reddito Minimo di Sussistenza e a tutti i redditi minimi già in vigore, condizionati, insufficienti, non individuali, che riproducono la povertà in quanto dispositivi di segregazione e di paura fra le classi medie. Non possono esserci redditi di base individuali, incondizionati e universali fintanto che si ramificano lungo le stesse linee di genere, razza, classe e nazione di uso capitalista. In altre parole, senza attaccare le segregazioni interne alle composizioni di classe, ovvero, senza vere ed efficaci lotte intersezionali, non saremo in grado di conquistare alcun reddito di emancipazione né forme di redistribuzione del lavoro a salario uguale. La lezione centrale nella strategia di Piven e Cloward rimane attuale.

Ciò che appare chiaro in questa situazione è che se le lotte non dovessero prendere corpo, uno shock autoritario diventerebbe inevitabile. Se queste non dovessero riuscire a costituire un due antagonista, prevarrà la guerra fra poveri, razze e generazioni.

Senza la formazione di contropoteri su scala europea, non sarà possibile nemmeno immaginare governi differenti. Se il due europeo non si dovesse presentare nelle sue molteplici temporalità e singolarità, finiremo per guardare al secolo passato con ancora più nostalgia.

Questa volta l’enunciazione capitalista avrà più difficoltà nel riaffermare il terrore psicologico che tiene schiavo “l’uomo indebitato”, e che impone ai subalterni di interiorizzare la colpa del proprio vivere. Nella congiuntura in cui ci addentriamo la forza maggiore diventa il principale supporto alla forza della legge. E in questo antagonismo tra forze contrapposte, rimane valido quanto scritto dall’autore del Capitale: «Qui ha dunque luogo un antinomia. Diritto contro diritto, tutti e due portanti il sigillo della legge che regola gli scambi delle merci. Fra due diritti uguali, decide la forza».

Foto di copertina di Eleonora Privitera

Traduzione dal castigliano di Giovanni Tosti Croce nell’ambito del progetto Contested Editing

Nota del traduttore

Questo testo è l’ultimo capitolo di un lavoro più lungo, disponibile in castigliano, Entre dos derechos iguales, decide la fuerza. In esso ho tentato di fare una analisi della congiuntura creata dalla pandemia del Covid-19, chiaramente incentrata sulla situazione spagnola ma allo stesso tempo inquadrata in una cornice necessariamente europea. Nonostante la difficoltà linguistica, consiglierei alle lettrici e ai lettori in italiano di dare un’occhiata al testo complessivo in castigliano per riqualificare quello che così, in medias res, potrebbe sembrare una proposta troppo immediata, troppo calata dall’alto, troppo generica. L’analisi sia della profondità che del contesto della crisi di civiltà indotta dalla pandemia risulta fondamentale per la nostra scelta di riprendere la formula dell’”Uno che si divide in due”, perché l’enormità della violenza sulle vite delle classi subalterne che viene esercitata dappertutto in nome della forza maggiore non può essere contrastata politicamente che sulla base di questa matrice ontologica duale: biopoteri degli Stati dei padroni contro le vite delle forze del lavoro vivo. L’andamento della situazione, qualche mese dopo l’estensione del nostro testo, sembra confermare l’adeguatezza e l’urgenza del nostro approccio antisistemico sul “mondo che verrà”.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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