Non ricordo bene dove ho letto questa frase: «Solo l’intelligenza è portatrice dell’incomprensibilità della vita». E’ una frase tipica di un esistenzialismo però lontano dal pessimismo cosmico: si limita a tradurre modernamente l’antico adagio attrubuito a Seneca e ripreso dai padri della Chiesa, citato anche da Eco ne “Il nome della rosa“, secondo cui «…qui auget scientiam, auget et dolorem».

Il collegamento con la consapevolezza dell’acquisizione di una frustrazione sempre maggiore, tutta interiore, per chi si arrovella nel cercare un senso della vita e dell’esistente, mi è sembrato quasi istantaneo e mi ha riportato in questi giorni a pensare a Cesare Pavese di cui oggi ricorre il 70esimo della morte. Come per Luigi Tenco, anche per Pavese all’epoca si parlò del suo suicidio con i sonniferi causato da una delusione amorosa: Constance Dowling era il suo nome. La conobbe nella Roma del 1949, quella capitale ancora nel pieno della scia bellica e che aveva regalato a Pavese una impressione poco felice.

La sua descrizione della vita dell’Urbe moderna non è quella della “città per cui darei 27 campagne“, la città metropoli che gli appariva come la più viva espressione del tumultuoso incrociarsi di tante esistente, di un pulsare di fenomeni singoli che creavano masse a volte contorte e altre volte lineari e che erano il caleidoscopico disegno del risorgimento di un Paese crollato sotto il peso morale e materiale delle rovine della guerra e della dittatura.

Roma sembra già un po’ quella de “La dolce vita” di Fellini, dove i giovani si fanno lucidare le scarpe, si accrocchiano alla sera e che, al posto del prolungamento notturno delle feste improvvisate o per l’imbuco in qualche villa signorile, fanno invece la passeggiata mattutina. Tempi duri, la miseria continua a imperversare nonostante i primi effetti del “Piano Marshall“, e non c’è ancora il Paparazzo interpretato da Walter Santesso a scattare prontamente foto compromettenti da rivendere a giornali e riviste del pettegolezzo.

Pavese si illuse di aver trovato un affetto, un amore: ma rimase deluso quando Constance decise di volare in America, di provare la carriera del cinema come sua sorella. Partì per Hollywood e di lei non restò altro se non la dedica che lo scrittore le fece su “La luna e i falò“.

Le domande sulla vita che si era andato facendo per lungo tempo, si intensificarono e probabilmente assunsero un carattere pessimistico, nemmeno lenito dall’ultimo amore che conobbe: quello per Romilda Bollati. Pavese è tormentato, sicuramenta ama la vita, ne considera tutti gli aspetti e le contraddizioni che si porta appresso nell’apparire agli esseri umani come qualcosa di talmente grande dall’essere, alla fine, inconoscibile. Ma, nello stesso tempo, disprezza la solitudine.

La descrive molto bene ne “Il mestiere di vivere” quando si arrende al fatto che nemmeno la tortura della sofferenza ha uno scopo: non serve a niente. E’ un agitarsi tumultuoso in una finitudine che invece viene percepita come lontana dalla maggior parte degli esseri umani e che, ogni volta che possono, esorcizzano con le scappatoie religiose, la creazione di un mondo parallelo ma invisibile, di un destino di vita ultraterreno: l’angoscia pervade lo scrittore. Eppure non è paura della morte, è semmai claustrofobia del vivere.

La solitudine sentimentale lo rende sovente privo di empatia, disilluso, arrabbiato: «Povera gente, i testicoli da cui siamo nati, sono ancora sempre la nostra sostanza. Immensamente più felice è lo scemo, il povero, il malvagio, di cui funzioni il membro, che non il genio, il ricco, l’evangelico, anormale là sotto».

Le metafore che Pavese inannella sono compassionevoli, paternalistiche e crudamente accusatrici: la coglioneria di cui siamo fatti ci permea, istruisce tutta o gran parte della nostra vita e quando qualcuno tenta di elevarsi minimamente da questo putridume acefalo, finisce per essere preda dell’indistinguibilità che Nietsche descriveva a proposito di chi alzandosi tanto finisce per diventare invisibile agli occhi di chi rimane in basso.

Qui c’è anche una critica velata (ma poi nemmeno tanto…) alla superbia, ma vi è pure un elogio al superamento delle piccolezze quotidiane, della banalità di una vita che è crudele, che è tutto fuorché splendida e meravigliosa così come la vorrebbero quegli inguaribili romantici che, alla fine, sono soltanto dei sognatori del nulla perché ripongono la loro causa in un estetismo dei sentimenti che sono circondati dalla bassezza morale, dalle tantazioni del potere e dalla voglia di primeggiare gli uni sugli altri.

Pavese desidera una vita felice: nemmen gli interessa granché attribuire un significato all’esistente (e all’esistenza umana). Ma questa ricerca della felicità tutt’altro che egoistica. Azzardando un poco le similitudini, è il tipo di ricerca che intraprende Rosa Luxemburg quando corteggia per sé stessa tutti quei sentimenti enormi ma straordinariamente reconditi nell’animo umano e invisibili agli occhi (quell’”essenziale” di cui parlava Saint-Exupery): il desiderio per un uomo o per una donna fuori dalla tradizionale relazione di “possesso” dell’uno nei confronti dell’altro, ma pienamente dentro la naturale relazione spontanea della generazione delle emozioni tramite il libero sfogo degli istinti.

L’8 febbraio del 1946, sempre ne “Il mestiere di vivere“, Pavese scrive: «Certo, avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e t’accompagna e ti fa vivere». Sembra di leggere tante invocazioni di presenza accanto a sé che Rosa Luxemburg verga nella sue lettere a Leo Jogiches. La distanza materiale ed anche quella morale, propriamente umana: il non riuscire a raggiungere l’essere umano che ti aiuta a sopportare l’esistenza, ad evitare di rivoltarti nella melma dell’arzigogolo dell’insensatezza della vita.

Sfuggire alla sofferenza è per Pavese un imperativo: in questo assunto risiede la voglia di vivere che non può prescindere dalla felicità. Non astratta ma delegata ogni volta ad un luogo, ad una persona, ad un verso, ad una prosa.

A 70 anni dalla sua morte, non esiste una “lezione di Pavese” sulla vita e nemmeno sulla morte: esiste una storia di un essere umano che ha regalato ai suoi simili pagine splendide che hanno descritto la vita con tutta la sua sofferenza, imprigionata nei confini torbidi del destino a cui si può sfuggire soltanto con una immersione nelle frivolezze del minimalismo quotidiano, con la raggiunta sufficiente sopportabilità grazie a dosi di felicità in qualche modo trovata oppure dando scacco matto alla sorte, al tutto “che fa schifo” e, nichilisticamente, farsi gioco delle sbarre di questa prigione e obbligare i carcerieri ad aprire la cella del Miché.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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