Le proteste in seguito alla diffusione del video dell’episodio di brutalità razzista della polizia nei confronti di Jacob Blake sono dilagate ovunque negli Stati Uniti. La NBA, da tempo in fermento, ha reagito con un’azione senza precedenti: boicottando le partite. Gesto che si inserisce in un lungo processo

Lo scorso 23 agosto a Kenosha, cittadina del Wisconsin, durante una banale colluttazione, il 29enne afroamericano Jacob Blake viene colpito sette volte sulla schiena dalla polizia mentre sta cercando di rientrare in macchina dai suoi figli. Il video del terribile evento circola immediatamente riaccendendo ancora una volta la rabbia e l’indignazione per l’ennesimo episodio di brutalità della polizia. Anche questo episodio ha trovato una grande vetrina presso la NBA, giunta alla fase calda dei playoffs, dove i giocatori sono stati ancora una volta recettori attivi.

Le immediate dichiarazioni di rabbia di giocatori e allenatori hanno dato seguito ali primi pensieri di azioni più dirette. Le voci di un boicottaggio da parte dei Toronto Raptors e successive dichiarazioni a riguardo a riguardo di George Hill dei Milwuakee Bucks, sembravano però inizialmente poco seguite. Poche ore dopo invece succede l’incredibile, i Milwuakee Bucks (tra le squadre favorite per la vittoria del titolo) decidono di non scendere in campo boicottando gara 5 del primo turno dei playoffs contro gli Orlando Magic; invece di competere sul parquet, la squadra rimane negli spogliatoi, dove proprio George Hill si prende in carico la lettura del comunicato dei giocatori: “negli ultimi giorni nel nostro stato del Wisconsin, abbiamo visto l’orribile video di Jacob Blake colpito sette volte nella schiena dalla polizia e i successivi spari nei confronti dei manifestanti. Nonostante la travolgente richiesta di cambiamento, nessuna azione è stata ancora intrapresa quindi noi oggi non possiamo pensare al basket”.

La decisione di boicottare l’incontro, presa in autonomia dai giocatori dei Bucks e all’insaputa della lega, ha causato un effetto domino che è andato ben oltre questa partita. Tutte le altre partite della notte (e del giorno successivo) sono state rimandate con la NBA che si è limitata a prendere atto della decisione già presa da tutti i giocatori. In WNBA le giocatrici si sono inginocchiate indossando delle magliette con impressi sulla schiena i sette colpi di pistola sparati contro Jacob Blake per poi tornare negli spogliatoi boicottando anche loro le partite.

Queste azioni hanno trovato immediatamente solidarietà tra gli addetti ai lavori: Kenny Smith, ex giocatore e attuale co- conduttore della popolarissima trasmissione NBA on TNT, ha lasciato lo studio in supporto e il giorno dopo gli arbitri hanno marciato uniti all’interno della bolla di Orlando.

La protesta è uscita dai parquet e ha raggiunto altri sport: la Major League Baseball ha sospeso numerose partite con i New York Mets e i Miami Marlins che hanno lasciato il campo dopo aver osservato 42 secondi di silenzio in memoria di Jackie Robinson (primo giocatore afroamericano a militare in MLB precedentemente riservata ai soli bianchi) per sottolineare la continuità storica del razzismo statunitense. Sono state rimandate anche diverse partite di NHL (hockey su ghiaccio) e MLS (calcio) e molte squadre di NFL (football) hanno sospeso gli allenamenti per discutere della questione razziale del loro paese.

L’azione senza precedenti lanciata dai giocatori della NBA ha portato anche diverse critiche dalla fazione repubblicana: l’ex giocatore di football Brian Urlacher ha commentato che “la NBA boicotta le partite solo perché un pregiudicato è stato colpito mentre cercava di prendere un coltello” mentre dalla Convention Nazionale Repubblicana sono arrivati i commenti di Jared Kushner “ricchi che hanno il lusso di saltare un giorno di lavoro” e dello stesso Donald Trump sostenendo che la NBA stia diventando “un’organizzazione politica” . Convention che Doc Rivers, allenatore dei Los Angeles Clippers, descrive con parole forti: “tutto quello che senti sono Donald Trump e tutti loro che parlano di paura. Siamo noi quelli che vengono uccisi, che vengono colpiti. Noi siamo quelli a cui viene negato di vivere in determinate comunità. […] È incredibile per me perché continuiamo ad amare questo paese che non ci ricambia.”

Le parole di coach Rivers si inseriscono in mesi e mesi di botta e risposta tra i giocatori e gli allenatori della NBA e la Casa Bianca, scavalcando la timida opposizione di Joe Biden e dellla parte mainstream del Partito Democratico per forza e radicalità dei messaggi.

Nelle ore successive regnava l’incertezza rispetto alla ripresa. I giocatori dei Los Angeles Lakers e Los Angeles Clippers hanno inizialmente proposto di interrompere del tutto la stagione per poi decidere di riprendere a giocare dopo la trattativa tra giocatori, proprietari e lega, mediata da Micheal Jordan, proprietario dei Charlotte Hornets e unico afroamericano a ricoprire quella posizine. Le recenti prese di posizione di Michael Jordan sottolineano sia l’importanza del momento che il cambio di ruolo che nel corso degli anni hanno assunto le figure pubbliche.

Come ha raccontato in “The Last Dance” fino a pochi anni fa la politica veniva tenuta rigorosamente fuori dallo sport e i giocatori erano concentrati a godersi la nuova popolarità raggiunta con l’esplosione globale della NBA negli anni novanta. Negli ultimi anni, complice anche l’esplosione dei social, sempre più giocatori hanno iniziato a posizionarsi rispetto tematiche sociali (preceduti da avanguardie come Bill Russell negli anni sessanta e Kareem Abdul Jabbar negli anni settanta) fino a quello che rappresenta probabilmente il punto di svolta rispetto alla consapevolezza dei giocatori: proteste del 2014 guidate dai giocatori dei Los Angels Clippers contro il becero razzismo del loro proprietario Donald Sterling hanno dato prova di grande unità.

In questo percorso è stata fondamentale la figura di Chris Paul, fenomenale playmaker attualmente agli Oklahoma City Thunder, dal 2013 presidente della National Basketball Players Assosiation divenuta sempre più forte nel rapporto tra proprietari e lega. Grazie all’impegno della NBPA è stata garantita l’assicurazione sanitaria ai giocatori ritirati e lo stesso Paul è stato determinante nelle trattative per la creazione della “bolla”. Giocatore straordinario e personalità carismatica, Chris Pausha inoltre fondato insieme ad Carmelo Anthony e Dwayane Wade il “Social Change Fund” un progetto nato per “investire e dare supporto alle organizzazioni che lavorano per la liberazione” e si impegna costantemente nel mantenere alta l’attenzione sulle questioni sociali, ad esempio utilizzando l’intervista post-partita come spazio politico in cui posizionarsi.

Figure di questo tipo e la presenza contemporanea di tutti i giocatori nella bolla, invece che sparpagliati per tutta la nazione, hanno sicuramente rafforzato l’unione tra gli stessi in un anno che ha visto la NBA stringersi intorno a numerosi lutti. Il 2020 si è aperto con la scomparsa di David Stern (commissario della lega dal 1984 al 2014 artefice della sua esplosione globale) il 1 gennaio, seguita il 26 gennaio da Kobe Bryant divenuto immediatamente leggenda nonostante i rimossi del suo arresto per stupro nel 2003 (caso conclusosi con un accordo economico), proseguendo con gli ex allenatori (Jerry Sloan e Lute Olson) e l’ex giocatore 53enne Cliff Robinson. Le morti dell’attore Chadwick Boseman e dell’ex coach John Thompson sono stati vissute come ulteriori momenti per stringersi come comunità e rafforzare la di cambiamento.

Il protagonista di Black Panther, primo supereroe afroamericano, oltre a rappresentare un’icona nell’immaginario BLM, è sempre stato molto legato al mondo della NBA.

Coach Thompson lascia in eredità, oltre ad una grande carriera come allenatore della Georgetown University (primo allenatore afroamericano a vincere il campionato nazionale), sopratutto il suo impegno per combattere il razzismo strutturale statunitense; nel 1989 lasciò il campo in segno di protesta contro l’approvazione da parte della NCAA (organo che gestisce lo sport universitario) di un regolamento che prevedeva l’annullamento della borsa di studio sportiva in caso di mancato superamento del primo anno, norma designata per colpire gli atleti afroamericani provenienti da comunità a basso reddito. Perché questi gesti di protesta performati nel mondo della NBA non sono solo momenti di solidarietà e amplificatori delle voce delle piazze di BLM. Sono lotte sui propri corpi, sulla propria biografia che sono per rara fortuna è stata diversa in una storia di razzismo secolare.

Lega e proprietari, anche in un ottica di blackwashing, hanno (quasi) sempre supportato le azioni messe in campo dai giocatori, ma l’ultimo gesto lanciato dai Milwuakee Bucks rappresenta un passo in avanti decisamente più radicale.

La decisione autonoma dei giocatori ha sospeso due notti di dirette nazionali con immediate (seppur contenute) perdite economiche, esporsi in maniera compatta consapevoli di incorrere in conseguenze potenzialmente dannose, e rivolgere immediatamente lo sguardo in alto. Perché se è vero che quando parliamo di giocatori di NBA parliamo di milionari ma al tempo stesso quando parliamo dei proprietari parliamo di persone miliardarie. Consapevoli della loro forza i giocatori hanno strappato numerose richieste ai proprietari come condizione per la ripartenza. Oltre alla trasmissione di messaggi sociali durante le partite e l’istituzione di un osservatorio sul razzismo e la giustizia sociale (che coinvolge lega, giocatori, proprietari e governi statali) importanti sono stati l’impegno a mettere a disposizione gli impianti delle squadre per le registrazioni al voto e un concreto impegno economico e politico. Anche qui siamo di fronte ad un passaggio importante, la consapevolezza che giocatori e giocatrici possono trasformare il modo in le loro organizzazioni operano: è questo l’impegno preso dalle giocatrici della Atlanta Dream che si sono schierate contro la loro proprietaria , la senatrice repubblicana Kelly Loeffler, invitando a votare il suo rivale democratico alle prossime elezioni.

Le mobilitazioni degli ultimi mesi in NBA si inseriscono nella tradizione americana di impegno sociale legato allo sport e figure come Mohammed Ali, Tommy Smith e John Carlos sono state fondamentali per amplificare importanti momenti di lotta antirazzista e per contaminare i mondi nei quali erano inseriti, mostrandosi spesso più incisivi di politici e iniziative istituzionali. Se tutta la società è pervasa da diseguaglianze e razzismo è ridicolo tentare di mantere netti confini tra ciò che è politico e ciò che non lo è. In Italia possiamo imparare che “portare la politica nello sport” non è solo inevitabile ma anche strettamente necessario.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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