Splende il sole quella mattina di inizio aprile a Parigi: Jacob capisce finalmente cosa deve aver provato suo padre quando ha visto per la prima volta New York.
Moishes aveva appena vent’anni quando è arrivato in America da una cittadina vicino a San Pietroburgo, non conosceva una parola d’inglese, era solo uno dei tantissimi ebrei russi che cercavano fortuna in quel paese lontano, e sapeva che quello era un viaggio di sola andata. Jakob ha quasi ventotto anni, a New York il suo nome è già comparso sui giornali e sulle locandine di Broadway, e sa che tra una settimana quella breve vacanza finirà, perché la sua vita è al di là dell’oceano, in quella che è ormai la sua città, eppure rimane senza fiato di fronte a Parigi. Naturalmente ha già ammirato sui libri illustrati le foto di Notre-Dame e della Tour Eiffel, nei cinegiornali ha visto le immagini degli Champs-Élysées e della Senna, conosce bene quella città, ha ascoltato la musica dei suoi artisti, ma adesso è lì. Ed è tutta un’altra cosa: è annichilito da Parigi. Se Israel fosse lì, saprebbe certo raccontarlo meglio di lui: è suo fratello quello bravo con le parole, sa sempre trovare quelle giuste. Robert e Mabel Schirmer, che lo stanno ospitando, si sono offerti di accompagnarlo in giro per la città, ma quella mattina Jacob ha bisogno di stare da solo, deve scoprire Parigi. Vuole sentire la musica di quella città.
Fissa quella coppia di innamorati che passeggiano mano nella mano sul lungosenna. Il suo sguardo incrocia quello di una donna elegante che gli sorride. Jacob, intimidito, abbassa gli occhi, ma subito la sua attenzione è colpita dalla sirena di una chiatta. E poi da un organetto lontano. E dal profumo dei croissant di quella boulangerie e dai colori delle tende dei caffè. Crétin. Un urlo interrompe i suoi pensieri. E poi gli inconfondibili suoni dei clacson. Non capisce esattamente cosa gli sta dicendo l’autista di quel taxi, ma sa che ce l’ha con lui. Jacob si accorge di essere fermo in mezzo alla strada, proprio davanti al pont Saint-Michel. Anche il flic che è arrivato in quel momento gli fa segno di accostarsi al marciapiede: Attention, monsiuer. Dall’altra parte della strada tre bambini accompagnati da una giovane donna ridono di lui che goffamente corre verso il marciapiede, mentre un ragazzo che fa le consegne con la sua bicicletta riesce a evitarlo.

Nel 1928 Walter Damrosch dirige la New York Symphony Orchestra ormai da più di quarant’anni: per loro il vecchio Andrew Carnegie ha fatto costruire a due isolati da Central Park la Carnegie Hall. Il 12 febbraio 1924 Damrosch è uno tanti che assiste, nella fumosa sala della Aeolian Hall, al concerto organizzato e diretto da Paul Whiteman intitolato An Experiment in Modern Music. Trova lo spettacolo piuttosto noioso, ma il brano composto da quel ragazzo di Brooklyn, che lo ha anche suonato al pianoforte insieme all’orchestra, è qualcosa di davvero geniale. Il giorno dopo Damrosch contatta quel giovane che dicono si chiami Gershwin, quello che ha scritto Rhapsody in Blue, e gli commissiona un concerto per pianoforte per la Symphony Orchestra, una cosa dal taglio più classico, almeno nella forma e nella durata, ma con quello stile così incredibilmente moderno.
George e Ira stanno lavorando a tre musical, hanno firmato dei contratti, e così fino all’estate dell’anno successivo il compositore non può mettere mano a quel progetto. Finalmente il 3 dicembre 1925 alla Carnegie Hall va in scena il Concerto in fa eseguito dalla New York Symphony Orchestra diretta da Damrosch e dallo stesso Gershwin come solista. Al pubblico quella musica piace, ma i critici non sono tutti dello stesso parere, come i musicisti andati ad ascoltarlo. Prokofiev ha trovato il concerto “amatoriale”, ma a Schoenberg è molto piaciuto.Damrosch è entusiasta di quel concerto.

Gershwin è il Principe che ha preso Cenerentola per mano e l’ha apertamente proclamata principessa al mondo attonito, senza dubbio per la furia delle sue sorelle invidiose.

Intanto George e Ira continuano a scrivere per Broadway: la “ditta Gershwin” fa uscire almeno due musical all’anno. Ma il compositore vuole fare anche qualcosa di diverso, vuole continuare a inventare una musica nuova, la musica del Novecento. Decide che è il momento di studiare quello che sta succedendo in Europa, quello che sta succedendo a Parigi. E così nell’aprile del 1926 è nella capitale francese. Mabel Schirmer gli ha organizzato un incontro con Maurice Ravel. George gli chiede di poter studiare con lui. Ma il grande autore, che sta per completare il Bolero, rifiuta.

Perché vuoi diventare un secondo Ravel, quando sei già il primo Gershwin?

Intanto Damrosch continua a chiedere a George un nuovo concerto per la Symphony Orchestra. Alla fine del 1927 Gershwin ricorda un piccolo brano – un “balletto rapsodico”, come l’ha chiamato – che ha composto a Parigi in quei pochi giorni di aprile: l’ha intitolato Very Parisienne ed è stato il suo regalo per Robert e Mabel. Nella primavera del 1928 torna, questa volta accompagnato da Ira, nella città francese e qui finalmente completa quel lavoro. A differenza dei suoi precedenti è un concerto per solo orchestra, ma accanto agli strumenti tradizionali Gershwin usa quattro clacson di taxi parigini. Si fa accompagnare da Mabel a comprarli e li porterà con sé a New York. Con quei quattro corni il 13 dicembre 1928 alla Carniege Hall viene eseguito per la prima volta An American in ParisA Gershwin non piace l’interpretazione di Damrosch, la giudica troppo lenta, ma quell’esecuzione è un grande successo.

Alla fine degli anni Quaranta la Metro-Goldwin-Mayer acquista da Ira il catalogo delle opere di Gershwin: un patrimonio di canzoni per tutti i loro film musicali. An American in Paris è bellissimo, ma è troppo lungo, impossibile inserirlo in un film. Ma ad Hollywood nulla è impossibile.
Alan Jay Lerner – il trentenne librettista e paroliere che con Frederick Loewe ha già scritto alcuni successi di Broadway e che sarà l’autore di My Fair Lady – prepara la sceneggiatura. Jerry – un veterano americano della seconda guerra mondiale che vive a Parigi tentando, con poco fortuna, di fare il pittore – rifiuta la corte della seducente e ricca Milo, perché ama Lise, una giovane francese che fa la commessa in una profumeria. La ragazza però sta per sposare un cantante, Henry, a cui è legata perché ha salvato lei e la sua famiglia durante la guerra. La storia è piuttosto esile, ma offre diverse occasioni per eseguire alcune tra le più belle canzoni dei Gershwin. E poi la grande sfida: il film si concluderà con un balletto di ben diciassette minuti, proprio sulle note di An American in Paris. Quel balletto sarà il coronamento della storia d’amore, ovviamente a lieto fine, tra Jerry e Lise.
La MGM ha sotto contratto sia il più grande regista di film musicali, Vincente Minnelli, l’uomo che sa “dare sostanza al mondo dei sogni”, secondo la definizione dei Cahiers du Cinéma, sia l’unico ballerino e coreografo capace di accettare una sfida del genere. Solo Gene Kelly può essere Jerry, solo lui può creare quel fantasmagorico balletto, solo lui può raccontare con i suoi atletici passi di danza lo stupore di un uomo che si ritrova a Parigi e l’incanto di scoprire la donna che ama in quella città di sogno.
Il problema adesso è Lise. L’unica ballerina di Hollywood così brava è Cyd Charisse, che però aspetta un bambino; e poi è troppo provocante, troppo seducente, Cyd non è Lise. Gene Kelly va a Parigi e nella compagnia del Ballet des Champs-Élysées di Roland Petit scopre una ragazza di vent’anni, nata vicino a Parigi, Leslie Caron, che conosce bene l’inglese perché la madre è franco-americana e ha lavorato come ballerina a Broadway, e la convince a seguirlo a Hollywood: uno dei più incredibili debutti della storia del cinema. Leslie Caron con quell’aria innocente è davvero perfetta per il ruolo di Lise. E sarà una delle grandissime dello spettacolo, tra cinema, teatro e televisione, di qua e di là dell’Atlantico.
Peccato che Maurice Chevalier non voglia accettare di partecipare al film: il personaggio del cantante Henry Baruel è creato su di lui. Forse non vuole fare quello che perde. Viene scelto il francese Georges Guétary, che pure è più giovane di un paio di anni di Gene Kelly.
La MGM non mette limiti di spesa per creare quell’incredibile sequenza finale: quei quasi diciotto minuti di balletto costano 450mila dollari. Le scene e i costumi sono ispirati ai quadri di Raoul Dufy, Pierre-Auguste Renoir, Maurice Utrillo, Henri Rousseau e Henri de Toulouse-Lautrec. C’è tutto il colore dell’arte francese, ma c’è soprattutto, negli occhi che ballano di Gene Kelly lo stupore, lo stesso stupore che un giovane musicista di New York ha provato una mattina di aprile a Parigi. E che tutti noi proviamo – almeno un po’ – quando andiamo in quella città. 

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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