La vulnerabilità non dipende soltanto dalla condizione mortale dell’individuo ma dalle perturbazioni della struttura sociale relazionale in cui è inserito e che determina la continuità della nostra stessa vita, attraversata e mediata dal conflitto

Escort e paninoteche sono state le prime vittime di Covid-19, ma i filosofi dello stato d’eccezione e dell’immunitas e gli economisti del patto di stabilità non ne sono usciti meglio. Tutti i suddetti hanno ragione di lamentarsi, perché i servizi da loro svolti rispondevano a esigenze fisiologiche e mentali legittime, purtroppo il mercato è spietato quando cade la domanda.

Man mano che cadono alcuni divieti e riprendono attività collettive – in primo luogo la scuola – cominciamo a prendere atto del carattere se non irreversibile almeno di lungo periodo di cambiamenti che durante il lockdown sembravano drammatici ma temporanei. Ora ci rendiamo conto di quanto il nostro quotidiano è cambiato e di come la pandemia è diventata essa stessa un dato quotidiano; l’attesa o esorcizzata “seconda ondata” si rivela piuttosto una presenza endemica, qualcosa che semplicemente non se ne va via più e, tutto sommato, non stiamo neppure nella situazione peggiore visto che, a parte India, Brasile e Usa, il virus in Europa ci sta accerchiando su tutti i confini e i contraccolpi materiali si prefigurano di lunga durata.

Al di là del ciclo pandemico – ma certo non è indifferente capirne evoluzioni e tempi del contrasto farmacologico o vaccinico, che non sembrano vicini – gli effetti economici sono del tutto evidenti e del resto Covid-19 si è innestato su una crisi della globalizzazione che era già cominciata e di cui anzi ha inizialmente occultato sintomi e segnali. La pandemia ha danneggiato le catene logistiche della produzione e del consumo e ha sconvolto tutto quel tessuto e indotto che affiancava, come lavoro informale, subappaltato, in nero il “razionale” sistema industriale e distributivo.

La devastazione sta sotto gli occhi di tutt∂ e ormai il discorso è tutto sulle conseguenze occupazionali dopo la fine del blocco dei licenziamenti, dopo l’esaurimento della cassa integrazione e dei sussidi vari, quando gli esercizi commerciali (già in esubero prima di Covid) incassati i contributi, decideranno di non riaprire per il bilancio fra costi e ricavi prevedibili. Beninteso, occorre pure vedere dove si indirizzeranno gli stanziamenti governativi permessi dal Recovery Fund e dal Mes – la vera ciccia del “ritorno dello stato” e dei nuovi equilibri di maggioranza.

Facciamo qui una digressione, utile non solo a descrivere le ideologie del ciclo reazionario, ma anche a definire la loro base di classe. Parliamo un po’ del negazionismo.

Qui si manifesta, sotto forma di una contraddizione secondaria, qualcosa di molto più grosso sottostante. Una bella serie di modificazioni del modo di produzione capitalistico viene a galla nella contrapposizione fra lavoro manifatturiero e lavoro di cura secondo le diverse estrinsecazioni: come ripartizione ipotetica degli stanziamenti, come prevalenza del ritorno al lavoro sulle precauzioni di distanziamento, infine come aperto negazionismo delle destre globali vs “sudditanza” delle sinistre alla dittatura sanitaria emergenziale – per usare, nell’ultimo caso, la fraseologia dei filosofi allocchi e dell’anarchismo da quattro soldi.

In apparenza, almeno in Italia, non ci sono state manifestazioni di massa come a Berlino, Londra o Madrid, ma un negazionismo mediatico o soft è largamente diffuso. Non penso alle pagliacciate alla Sgarbi ma agli ammiccamenti incessanti di Salvini e alla campagna a tambur battente condotta dai fogliacci di destra contro ogni misura anti-Covid del governo, condite da ironie sull’allarmismo e da ignobili asserzioni tranquillizzanti di virologi compiacenti o di non raccomandabili medici curanti alla Zangrillo.

Al di là del folklore da psicopatici e delle strumentalizzazioni da campagna elettorale minore, mi sembra che il negazionismo sia il supplemento di un’apologia della società del lavoro (lavoro sfruttato compulsivo, proposta incessante di stage gratuiti, ritorno al cottimo e prolungamento dell’orario). L’elogio del rischio “virile” e la svalutazione del contagio (complotto, levità delle affezioni, virus clinicamente morto, immunità di gregge) sono gli strumenti mediatici variamente modulati con cui si copre il rifiuto di ridurre il margine di profitto per salvaguardare la forza lavoro – nonché buona parte dei percettori stessi di profitto, per esempio gli esercenti e i professionisti. Il vero negazionismo necropolitico è stato quello della Confindustria e si è esercitato proprio nei giorni e nei luoghi più massacrati da Covid-19, per esempio nel bresciano e nel bergamasco. La regione di Madrid sta replicando i fasti lombardi di marzo-aprile. Così a livello mondiale è Trump più che il terrapiattista Bolsonaro il vero leader globale della corrente, quello che può permettersi sia l’apertura sconsiderata no-mask sia i suggerimenti micidiali di farmaci dannosi sia la fornitura elettorale di un vaccino non testato.

Il negazionismo incorpora ma non si esaurisce nelle paranoie specifiche, il Rettiliano in Chief è maggiore della somma indistinta dei credenti nei rettiliani, dei terrapiattisti, QAnon e no-vax.

C’è una specie di discriminante ontologica che corre fra sentimenti di vulnerabilità e di invulnerabilità. La prima prende atto della condizione umana, la seconda è un risarcimento immaginario della fragilità creaturale. Tutte le religioni hanno cercato di compensare con l’immortalità ultraterrena l’esperienza inaggirabile della morte; la religione del capitalismo pretenderebbe di applicare al singolo la presunta immortalità del capitale. L’eterno presente neoliberale genera la sfida dell’invulnerabilità personale come requisito in un mondo dominato dalla concorrenza in ogni settore della vita. Gli sbruffoni mediatici dichiarano in forma grottesca quanto i dirigenti confindustriali invitano a praticare silenziosamente sulla pelle dei dipendenti.

(fonte: commons.wikimedia.org)

Più intrigante e ambiguo è il discorso sulla vulnerabilità, che è poi quello della nostra area, a sinistra insomma di #Milanononsiferma e degli appelli di Bonaccini ad alzarsi dal divano. Vulnerabilità è molte cose: autogratificazione vittimaria, rassegnazione creaturale alla sofferenza, apologia della debolezza, oppure esposizione all’altro, aiuto, solidarismo, politica della cura.

Judith Butler, nel suo ultimo libro sulla Forza della nonviolenza, partendo dal rifiuto del mito fondativo della civilizzazione come un maschio adulto, che sta per i fatti propri in condizione di autosufficienza, come se non fosse stato mai un bambino, nutrito dai genitori, oggetto di cure e inserito in relazioni di parentela e istituzioni per sopravvivere, crescere e apprendere a come cavarsela da solo. Butler non solo mostra che l’individuo non è un dato originario, bensì il prodotto di un meccanismo di individuazione, ma anche che quel mito delle origini definiva a priori i ruoli del maschio adulto civilizzatore e della madre come specializzata nel lavoro riproduttivo e di cura, ignorando che lo stesso adulto vedrà ripetutamente messa in discussione la sua autosufficienza nel corso della vita. La vulnerabilità non dipende soltanto dalla sua condizione mortale ma dalle perturbazioni della struttura sociale relazionale in cui è inserito e che determina la continuità della nostra stessa vita, attraversata e mediata dal conflitto.

Nessun corpo può provvedere da sé al proprio sostentamento e deve in qualche modo “affidarsi” ad altr∂: è dunque a partire dalla non-autosufficienza e dall’asimmetria dell’aiuto e non dal diritto originario degli individui che occorre porre il problema dell’eguaglianza come fatto relazionale e sociale.

La vulnerabilità, a questo punto, non costituisce un attributo del soggetto, bensì una caratteristica delle relazioni sociali; non costituisce un’identità, che sarebbe in ultima analisi un’identità vittimaria affidata alla paternale benevolenza di entità più forti autorizzate a scegliere quali individui o gruppi soccorrere. L’unico modo giusto per ridurre la vulnerabilità è agire conflittualmente sull’insieme di relazioni preesistenti che la determinano: insomma resistere e ribellarsi.

Solo attivando in un percorso di lotta i gruppi vulnerabili (migranti, donne, non bianchi, queer e trans), rendendo le vittime degne di lutto si può contrastare la violenza ordinaria e istituzionale che le cancella.

La loro è tutt’altro che una “nuda vita” agambeniana, è piuttosto una “vita vivente”, sopravvissuta a discriminazioni e persecuzioni, che si oppone alla minorità e alla sparizione grazie appunto a protesta e resistenza.

Il lavoro di cura che insiste sulla vulnerabilità collettiva è lotta sul welfare oltre che concreta assistenza e mutualismo dal basso in tempi di pandemia. Esige con forza il ristabilimento dei fondi tagliati per i settori educazione e sanità, l’aumento delle retribuzioni degli addetti e delle prestazioni erogate, il riconoscimento del lavoro gratuito impiegato nella cura domestica; richiede altresì che le esigenze della ripresa del lavoro industriale e logistico-distributivo non vadano a scapito della salute dei lavoratori e degli utenti.

La riabilitazione del welfare, dopo l’orgia distruttiva del neoliberalismo e in genere l’enfasi sulla riproduzione alludono ma non equivalgono al lavoro liberato dallo sfruttamento – è bene tenerlo presente! Tant’è vero che sul terreno del welfare si sono svolte alcune delle lotte sociali più significative degli ultimi anni, in significativa connessione con quelle sulla produzione. Tuttavia, nella palese contrapposizione al lavoro “socialmente utile” proclamato da organizzazioni padronali e governi, la cura definisce un’alternativa etica e logistica alle forme prevalenti di sfruttamento e oppressione, soprattutto se, come è accaduto, congiunta alla rivendicazione di aumenti salariali, di un reddito di base, di una riduzione dell’orario e della diffusione negoziata dello smart working.

L’accanita difesa del lavoro industriale da parte dei negazionisti conclamati e occulti della destra non innocentizza l’area della cura, anzi è possibile che sul terreno del welfare vengano adottate politiche selettive, disciplinari e gerarchiche – come denuncia Sandro Mezzadra in un recente contributo su Euronomade – però consente di marcare una differenza tendenziale fra due campi. Nel primo domina lo sfruttamento e l’ideologia del privato e il produrre è più importante dello star bene, nel secondo vi sono elementi di cooperazione e di apertura dal pubblico verso il comune.

Non si tratta solo di privilegiare in investimenti il lavoro di cura rispetto alla ripresa della produzione industriale, ma di definire la complementarità fra riproduzione e produzione attraverso la complementarità delle lotte e l’introduzione di un reddito di cittadinanza universale che compensi gli sconvolgimenti del mercato del lavoro e garantisca la sopravvivenza fisica di chi scampa al virus ma non ai suoi effetti economici. Il negazionismo epidemiologico è la schiuma del nemico di classe ma va “curato” impugnando le gerarchie della produzione.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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