Foto Michele Lapini/eikon

Ndack Mbaye è consulente legale specializzata in diritto d’asilo, attivista antirazzista, ha partecipato con un scritto alla raccolta Future. Il domani raccontato dalle voci di oggi (Effequ, 2019). Con lei proviamo ad analizzare i principali nodi politici e sociali che emergono nel dibattito su ius soli e ius culturae in vista della mobilitazione del 3 ottobre

Il 3 ottobre è la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, istituita dopo il naufragio del 2013, e questo anno si terrà una mobilitazione per la cittadinanza. Partiamo da qui, e cerchiamo di spiegare questo paradosso. Il concetto di “vittime dell’immigrazione” non dovrebbe esistere: quali sono le leggi e gli impianti normativi che contribuiscono a perpetuare questa ingiustizia?

Arrivare in Europa, specie in Italia, attraverso canali legali oggi è praticamente impossibile per chi viene da determinate parti del mondo e con determinate risorse. Infatti più che di “vittime dell’immigrazione” parlerei di “vittime delle politiche di esternalizzazione e chiusura dei confini”. Forse è una definizione troppo lunga, ma almeno ci restituisce la consapevolezza che si tratta di morti frutto di precise responsabilità e non conseguenti alla migrazione intesa come “gesto eroico” compiuto da individui singoli, da persone povere che arrivano nella nostra Europa. L’elenco delle concause è lungo: l’impossibilità di ottenere visti d’ingresso, l’inattività delle missioni europee di ricerca e soccorso, gli accordi criminali con la Libia. In generale comunque non esisterebbero questi impianti normativi se il sentimento attorno al tema non fosse quello di doversi chiudere a riccio, difendersi.

Qual è la differenza tra ius culturae e ius soli e come mai sei una strenua sostenitrice del secondo? Cosa significa cittadinanza per te?

Parto dal presupposto che trovo difficile considerarmi una strenua sostenitrice dell’istituto della Cittadinanza, ma su questo punto torno dopo. Per chi si riempie la bocca di ius culturae: una tale impostazione significa aprire alla possibilità di diventare cittadini italiani, da minorenni, al completamento di un ciclo di studi e, in questo senso, la proposta si differenzia da quella di uno ius soli che invece riconoscerebbe la cittadinanza a tutti i ragazzini che sono nati in Italia o che vi sono arrivati da molto piccoli. Attualmente, la nostra legge sulla Cittadinanza (che nella sua ultima versione risale al 1992) contempla lo ius sanguinis come unica modalità per acquisire la cittadinanza: un bambino è italiano se almeno uno dei genitori è italiano. Al contrario, un bambino nato da genitori stranieri, anche se nato in Italia, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se fino a quel momento abbia risieduto in Italia legalmente e ininterrottamente.

La contrattazione dal basso e verso il basso per l’approvazione dello ius culturae, oltre alla tristezza di vedere giovani donne e uomini che abbandonano a mani basse ogni tentativo di lotta, suggerisce anche un’idea calmierata di diritto. Un diritto sottoposto al vaglio di un’integrazione che suona un po’ come un ricatto e che non tiene conto del fatto che la continuità degli studi e il completamento di un ciclo di istruzione sono circostanze subordinate a precisi requisiti materiali e burocratici: sono ancora troppe le famiglie che non possono permettersi di mantenere in Italia i figli per tutto un ciclo di studi, che perdono la copertura di un permesso di soggiorno e la continuità anagrafica, che sono ostacolate o comunque non facilitate nel prosieguo degli studi per i figli.

Ma, anche se non dovessero intervenire tutte queste difficoltà, qualcuno mi deve comunque spiegare se la Cittadinanza è uno status o una materia di scuola a cui continuiamo tutti a prendere insufficiente. Quando il percorso per un diritto è così tortuoso e cieco verso i corrispettivi di classe, sociali ed economici faccio fatica a non vederlo come un privilegio: un privilegio che passa attraverso un modo per essere “figli bastardi” della Repubblica che turbi di meno chi è nato nel Palazzo. Se proprio la Cittadinanza deve esistere, deve essere riconosciuta senza innalzarla (o declassarla, sono punti di vista) a una nazionalità mascherata, all’esaltazione del senso di appartenenza a ideali stantii, all’abdicazione dello “straniero” che si ha in sé.

Il caso Suarez ha in parte scoperchiato cosa accade intorno alla compravendita di competenze per gli esami di lingua. Ma l’idea che occorra conoscere la lingua italiana, ancora prima di vivere nel nostro paese, cela anche l’idea che la cittadinanza sia qualcosa “da guadagnare”, così come la possibilità di revocarla in caso di reati gravi. La “cittadinanza a punti” esiste ormai in tutta Europa, perché è un istituto discriminatorio e penalizzante?

L’idea che la cittadinanza vada guadagnata non è nemmeno poi così nascosta. L’ideologia e la mitizzazione della Nazione ci hanno condotto a confonderla con lo Stato da quando, negli anni ‘60 del Novecento la nozione di “cittadinanza” ha incontrato quella di “diversità” con l’emergere di nuovi soggetti portatori di diritti. Abbiamo così assistito a un appiattimento della cittadinanza sulla nazionalità, che magari un tempo aveva senso per far leva sui sentimenti capaci di fare dei sudditi i nuovi cittadini dello Stato-Nazione, ma che ora ci condanna a un rapporto unidirezionale tra appartenenza e partecipazione che pare dire: anche se la tua etnia non è la mia, la tua appartenenza alla mia Nazione ti consente di partecipare al mio Stato.

Una visione che ignora che l’aggruppamento etnico delle persone è un destino che ci è semplicemente dato in sorte, la cittadinanza è la condizione giuridica della persona fisica vincolata allo Stato e, infine, la nazionalità, se esiste, è affare del singolo in cui non dovrebbe essere dato di interferire.

E infatti in questa strenua battaglia al diverso lo Stato è stato capace di porsi in alterità a se stesso, costruendo profili di cittadinanza di serie B a cui riservare un trattamento giuridico non solo diverso da quello esistente per chi italiano lo è di sangue ma anche contrario alla propria stessa Costituzione (la previsione di revocare la cittadinanza per reati gravi è rivolta solo a chi la cittadinanza l’ha acquisita ed è contro al principio di uguaglianza, al principio di determinatezza della legge, al principio del fine rieducativo della pena…).

Ma anche al di là di quanto detto fino a qui è già di per se stessa evocativa l’immagine di accogliere con riserva, di riconoscere la cittadinanza finché la si merita, di poter eventualmente porre al di fuori di sé chi non si allinea a un’idea di subalternità costruita ad hoc. In questo senso l’intero impianto della normativa antiterrorismo, per fare un esempio, con i suoi limiti e le sue contraddizioni e costruito avendo in mente un nemico ben preciso, è già usato contro i soliti noti che si mettono in contrasto con l’Ordine costituito: i movimenti, gli attori del conflitto sociale tutto, chiunque venga visto come una minaccia per il nostro mondo così come lo conosciamo. E tra questi ci sono nuovi cittadini, come me che scrivo.

Nel leggere in questo modo il diritto penale ma anche la cittadinanza, la materia smette di essere a tutela dell’individuo e si legge unicamente secondo l’esigenza di annientare il soggetto che mettendosi contro lo Stato ne diventa nemico e contravviene al “contratto sociale”: l’individuo smette di essere cittadino e mettendo in discussione lo Stato non merita più le garanzie e le tutele di cui godeva in seno a questo. In quest’ottica, la cittadinanza ci serve solo fino a un certo punto: non a caso se ne percepisce l’utilità solo quando se ne è sprovvisti, ma per chi ce l’ha continuano i problemi.

L’Italia si autoassolve dal suo passato coloniale dietro frasi come «non possiamo accoglierli tutti» e non riconosce di essere parte di un sistema economico che sfrutta il sud del mondo spiegando che «anche i nostri giovani vanno all’estero». Quanto è insito il razzismo nella nostra società e perché è così difficile riconoscerlo?

È difficile riconoscere il razzismo nella nostra società perché si vorrebbe parlarne trascendendo dal concetto di razza. Il razzismo è ancora visto come un sentimento da cercare con il lanternino nei cuori delle persone e, anche quando si è abbastanza fortunati da trovarlo, solitamente è comunque imputabile all’ignoranza, alla povertà, al contesto delle periferie, ecc. Tutto ciò eludendo il ragionamento per cui, forse e a ben vedere, si tratta esattamente del contrario: sono l’ignoranza, la povertà e le periferie a rappresentare una conseguenza del razzismo, non viceversa.

Dal secondo dopoguerra a oggi si è pensato bene di delegare la lotta antirazzista a un afflato pedagogico che rischiari questa “eclissi della ragione” che è il razzismo, ma quasi nessuno sarà disposto ad accettare che il razzismo è invece un sistema che è stato inventato, creato e mantenuto in vita perché serviva, serve e, soprattutto, funziona.

E ancora meno persone saranno disposte ad accettare che si può essere razzisti anche senza sentirsi tali quando si agisce in un sistema razzializzato: è il solito discorso sulla differenza che intercorre tra responsabilità e colpa e che spiega come non si tratti di due condizioni che necessariamente convivono in contemporanea nello stesso individuo. Come propone Wissal Houbabi, in questi giorni forse sarebbe utile prevedere uno ius culturae rivolto alla cittadinanza italiana che faccia recuperare gli anni persi a blaterare di un antirazzismo che non esiste perché nega le sue premesse: la storia, il razzismo, la razza, il privilegio bianco e via discorrendo.

Come è possibile tenere insieme la battaglia per lo ius soli insieme a quella per la fine dei respingimenti e per la libertà di movimento?

Penso che alcuni spunti siano già emersi nelle varie riflessioni che ho proposto, ma forse il filo rosso è la costruzione di binari politici e culturali più solidi e condivisi che abbiano la forza di sottrarre il tema dei corpi e del loro posizionamento al fanatismo ideologico.

La lotta contro lo ius soli, i respingimenti, i porti e i confini chiusi sono posti a difesa di un mondo che è già morto, se mai è esistito, ma che tenta di sopravvivere nell’idea che ha di se stesso. L’assenza di uno o più diritti nulla possono contro il persistere delle libertà e delle spinte che le fanno emergere e costruire un impianto che neghi questi diritti e non cancelli le persone che sono portatrici di libertà proprie.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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