Le destre sovraniste e neonaziste (i termini possono essere sinonimi e, comunque, si completano a vicenda tanto in uno sguardo al passato quanto in quello al futuro) sono fatte così: mentre l’ex partito politico Alba Dorata viene condannato dalla giustizia greca in quanto “associazione criminale“, dall’altra parte del mare oceano Donald Trump asserisce che l’essersi beccato il Covid-19 è una manifestazione divina, una volontà iperuranica, un segno – se vogliamo più laicamente – del destino.

Del resto, è scritto sui biglietti verdi: “In God we trust“. Quindi il confidare in domeniddio è la prima regola anglosassone, e pure a stelle e strisce, che dal potere del dollaro arriva in ogni angolo del Grande Paese per condurre la nazione verso il suo fulgido futuro. Come mai potrebbe, dunque, il presidente più istrionico della storia degli Stati Uniti non affermare che qualunque cosa gli accada, anche in disgrazia, sia invece la manifestazione della volontà di dio?

In Grecia, Nikos Michaloliakos, capo di Alba Dorata, è stato riconosciuto come mandante dell’omicidio del rapper comunista Pavlos Fyssas, eseguito da un neonazista affiliato al disciolto e incarcerato partito. Faccia ingrugnata dopo il verdetto, per niente somigliante a Göring dopo la lettura della sentenza a Norimberga, per lui e per altri dirigenti e militanti all’ombra della moderna svastica abbozzata e stilizzata nel blu del loro simbolo si aprono le porte del carcere definitivamente.

Un grande processo che ha messo fine ad una diatriba che altalenava dal 2013 con accuse ai giudici di non avere alcuna prova e con una magistratura che, nonostante le minacce tanto contro la società civile quanto contro le procure, non si è lasciata intimidire e ha fatto il suo onorevole e giusto corso.

A questo proposito è bene augurarsi che anche il governo italiano metta fuorilegge le organizzazioni neofasciste e neonaziste presenti in Italia, cui viene consentito persino di presentarsi alle elezioni: tartarughe o salamandre che siano, è l’unico caso in cui certi animali devono veramente stare in gabbia. Le violenze di Alba Dorata sono arrivate all’omicidio e a pestaggi di massa, ad un tentativo di creare le condizioni per istigare all’odio popolare contro i migranti, agendo così da detonatore di una bomba sociale che invece andava disinnescata sulla base della comprensione dei fenomeni sociali globali che investono, inevitabilmente, i nostri paesi.

Sarebbe bene evitare di assistere anche in Italia a determinate brutalità, ad un sovradimensionamento del contrasto antisociale frutto dell’impoverimento e non colpa né del cosiddetto “straniero” né dell’italiano autoctono.

Lavorare a riportare la coscienza di classe al posto dell’incoscienza individualista e fascista che vede nel povero uguale a noi il nemico da abbattare, è stato un compito duro cui la sinistra e i movimenti comunisti e libertari greci hanno assolto con costanza, senza mai mollare la presa e arrivando a questa grande vittoria di giustizia, di libertà, di vera e propria democrazia.

Se un bel po’ di giustizia c’è nella patria della democrazia, altrettanta se ne aspetta dal torpore che si sparge nell’aria dalla fiaccola della Statua della Libertà. Forse a torto… Forse con troppa speranza…

La campagna elettorale di Trump pareva azzoppata dall’incognita coronavirus, invece il comandante in capo delle forze armate più potenti del mondo sta cogliendo l’occasione per mostrare che lui è l’emblema vivente di una rinascita subitanea, di una guarigione velocissima dal contagio. In pratica sarebbe divenuto il messaggero divino, forse lo sponsor migliore, per il Regeneron, un farmaco in fase sperimentale che ora rimbalza di bocca in bocca, di tweet in tweet.

Il dibattito americano si è svolto in queste ore non su grandi temi che riguardano i rapporti politici interni agli Stati Uniti d’America o che concernono la politica estera. Sarebbe veramente ingenuo pensare che Trump e Pence stiano esponendo le loro linee programmatiche per il prossimo quadriennio alla Casa Bianca. Semmai giornali e siti web hanno titolato su problematiche trasversali, che lambiscono i grandi dilemmi del tempo e dell’anno in cui viviamo: invece che discutere del coronavirus si parla se posizionare o meno i plexiglas negli studi dove si tengono i confronti a due.

Kamala Harris nel suo primo dibattito televisivo contro Mike Pence la spunta già su questo fronte: sì ai parafiati e, a quanto è dato vedere, secondo i giudizi di analisti come Federico Rampini, ai punti vince la democratica che argomenta al pari del suo avversario, che insiste molto sulla disastrosa gestione dell’emergenza sanitaria da parte di quel presidente che da oggi è l’arcangelo del Covid-19.

Sottolinea Rampini che a sorprendere – positivamente, si intende – è anche l’aver potuto assistere ad un confronto civile, quasi degno della patria d’origine dei padri pellegrini: non la sguaiataggine di Trump, gli insulti reciproci e l’irrisione continua degli argomenti del competitor o il dare sulla voce violando qualunque tempo delle pari condizioni di espressione dei rispettivi programmi politici.

Nell’America ormai abituata, ma forse non del tutto assuefatta, alla volgarità sovranista che è espressione della gestione istituzionale del paese, lo stile compassato, l’attendere che l’uno parli e che l’altro risposta pareva quasi un retaggio del passato. Invece, è stato possibile rivedere tutto ciò nella partita giocata tra Harris e Pence.

Tattica politica anche, indubbiamente, con un vicepresidente che vuole mostrare e dimostrare come tra lui e Trump esistano differenze non da poco, pur condividendo ogni parola del capo della Casa Bianca che non perde tempo e, dopo aver fatto della sua esperienza col coronavirus una stigmata divina, si dice pronto a distribuire a tutti gli americani il Regeneron al posto della varechina che voleva mettere nelle vene della gente solo alcuni mesi fa. Intanto, tuona Trump, pagherà la Cina. Non è dato sapere bene come convincerà il governo di Pechino a sostenere questo sforzo economico, ma, visto che si è in piena campagna per le presidenziali, cretinata più, cretinata meno, qualcuno abboccherà certamente.

E’ quel che conta per i sovranisti: che la disinformazione resti alleata di una pessima gestione privata del pubblico, laddove peggiorano tutti i servizi sociali, dove si amplia il solco tra ceto medio e moderno proletariato e tra ceto medio stesso e borghesia imprenditoriale nonché la grande cerchia degli speculatori finanziari.

Il profilo delle politiche ipernazionaliste viaggia su un binario doppio: l’esaltazione delle differenze come problemi sociali da affrontare con metodi securitari e con l’istigazione all’odio nella popolazione autoctona, di qualunque paese si tratti, e insieme la difesa dei più determinanti assetti di privilegio economico per le classi dominanti, mostrando solo di facciata una attenzione ai problemi economici dei più deboli.

Dove governano i sovranisti non c’è nessun timido peronismo a suffragare le ipotesi che con loro il capitalismo sarà contrastato e il liberismo che gestisce gli affari interni ed esteri di ogni nazione sarà fermato nel nome di un nazional-socialismo. Del resto nemmeno i nazisti veri e propri avevano nel loro programma la messa in discussione degli assetti economici tedeschi, visto che ad iniziare dalla metà degli anni ’20 le più grandi sovvenzioni al NSDAP di Hitler provenivano dai ricchissimi industriali della regione della Ruhr, il grande bacino carbonifero alemanno.

La collusione tra autoritarismo e sostengo ai grandi privilegi degli industriali, del padronato e di tutti coloro che hanno da sempre sostenuto gli esperimenti autoritari nel corso del ‘900 e anche in questo nuovo millennio, continua a prodursi, a imbellettarsi e a tentare di ritrovare una verginità mediante le modificazioni che la globalizzazione impone ai grandi agglomerati del capitale nei cinque continenti: dall’Unione Europea all’India, dalla Cina al Giappone, dalla Russia agli Stati Uniti d’America.

Certi eccessi in questo senso sono persino stati stigmatizzati dal Fondo Monetario Internazionale che, se ne può dire tutto il male possibile se si è comuniste e comunisti, anarchici e antiliberisti, è stato preso alla sprovvista dall’ingresso prepotente di un nazionalismo di matrice autarchica in un mondo in cui l’abbattimento dei confini nazionali vale soprattutto sul terreno economico, per lo scambio delle merci.

Le carezze fatte dai sovranisti al ritorno dei dazi doganali, al protezionismo, al boicottaggio di determinati assi politico-economici in contrasto con gli interessi nazionali e i legami di carattere internazionale garantiti da trattati che impattano fortemente sul pianeta (si pensi al TTIP), non sono piaciute tanto alla Banca Mondiale quanto al FMI e nemmeno troppo alla Banca Centrale Europea.

Cosa ne dovremmo dedurre? Che forse il peggiore avversario del sovranismo, dei neofascisti e neonazisti di oggi sono i capitalisti di domani? Non proprio. Anzi, per niente. Il capitale è sempre pronto a sposare i virtuosismi di una certa politica progressista che si unisca in matrimonio al pensiero liberal-liberista (in Italia sarebbe bene rivedere tutta la storia che dalla fine del PCI ha portato alla progressiva involuzione nel PD), così come è pronto a sostenere nuovi tiranni, oligarchi, magnati dell’industria e imprenditori che si buttano nell’agone politico e copiano un berlusconismo ormai scivolato in disgrazia in Italia ma i cui agenti patogeni aleggiano e contaminano costantemente la politica del Bel Paese.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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