La caratteristica dei Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, da inizio pandemia fino all’ultimo firmato poche ore fa, è quella di intervenire in un contesto generale e nazionale affrontando particolari situazioni che variano da regione a regione, da provincia a provicina e persino da comune a comune.

Le contraddizioni quindi sono all’ordine del giorno e sono pure comprensibili in testi dettati dall’emergenza sanitaria che, tuttavia, rischiano di ridicolizzarsi da sé stessi, di diventare, proprio per la estrema puntigliosità delle singole direttive che regolano confini temporali, di luogo e comportamenti differenti a seconda di cosa ognuno di noi stia facendo nel corso della giornata, una babele di numeri soggettivamente interpretabile.

Questo avviene perché il DPCM è un contenitore di norme e non un decreto-legge con una sola norma ben esposta, icastica e diretta. Non c’è scritto: « Bisogna sempre portare la mascherina ». C’è la circostanziazione particolareggiata: quando portarla, come portarla, dove portarla, tutte le eccezioni del caso, tutte le contravvenzioni e persino la possibilità che le Regioni possano inasprire quando ha stabilito l’esecutivo.

Siamo sinceri: i DPCM al tempo del coronavirus sono, nella pandemia, un pandemonio di normative, opportune e necessarie, ma un gran ginepraio rimangono e si sottopongono pertanto al plauso di molti e alla detrazione di tanti altri, nonché al pubblico ludibrio degli scettici, dei negazionisti e dei riduzionisti del contagio.

La critica verso le singole disposizioni governative è legittima e deve poter essere fatta laddove, in tutta evidenza, si nota una certa rigidità a modificare i comportamenti sociali quando si tratta di lavoro, pena l’incorrere nelle ire di Confindustria che disegna uno scenario di sviluppo del Paese tra l’oggi e il 2050 fondato sulla libertà di licenziamento, sulla distribuzione degli aiuti europei esclusivamente alla classe padronale e non “a pioggia“, secondo un più equo criterio di stabilizzazione economica della società oggi così tanto sofferente.

Diffatti il governo porta il lavoro da casa al 70% dei casi soltanto per quanto concerne il comparto del pubblico impiego, ma si guarda bene dall’anche soltanto suggerire agli imprenditori di fare maggiore uso del cosiddetto “smart working”; quando sappiamo, per averne fatto esperienza nel corso della prima fase dell’ondata del Covid-19 (tra il febbraio e il maggio scorso) che proprio le grandi industrie, i grandi impianti produttivi erano diventati inevitabilmente luoghi di diffusione del virus, tanto da costringere interi settori alla chiusura ancor prima della chiusura totale del Paese.

La mancata proclamazione della “zona rossa” nella Lombardia iperproduttiva, oggetto di rimpallo tra governo e regione, ha obbedito al rigore liberista dei padroni e ha causato probabilmente un numero di morti così elevato che si poteva evitare rinunciando alla logica del profitto a tutti i costi.

L’impressione che si ricava da quanto stabilito nel nuovo DPCM di Conte è che anche in questo frangente si sia preferito intervenire sul piano meramente civile piuttosto che su quello sociale: intendiamoci, non che le “movide” e i luoghi di ritrovo notturni non siano stati causa di amplificazione del passaggio del virus da persona a persona, creando vere e proprie situazioni di emergenza, dando vita a molti focolai; tuttavia si poteva rendere l’insieme delle norme varate in uno stato emergenziale, uguali tanto per il giovane che alla sera vorrebbe divertirsi quanto per un lavoratore che deve faticare in fabbrica otto ore, spesso con protezioni insufficienti per la sua salute (e non solo a far data dall’anno della pandemia) e che si ritrova magari a portare il Covid-19 in famiglia.

La colpevolizzazione dei giovani viene di conseguenza se si punta il dito contro gli sport amatoriali e il divertimento serale: non credo sia l’intento del governo, ma rischia di esserlo proprio in assenza di un bilanciamento delle responsabiltà di tutte e di tutti. E’ natuarale che si creino poi dei cortocircuiti comunicativi nella trasmissione delle norme da Palazzo Chigi a sessanta e più milioni di italiani.

Basta vedere i telegionarli o i quotidiani esteri per rendersi conto che in ogni nazione esistono problemi di comprensione delle disposizioni sanitarie: in Belgio sono stati addirittura affissi dei lunghi striscioni per le vie tanto di Bruxelles quanto delle altre città del paese per dire chiaro e netto che indossare la mascherina è obbligatorio e non consigliato.

Da un lato il governo italiano pecca in raccomandazioni eccessive quando suggerisce, consiglia, invita; dall’altro eccede in prudenza se si tratta di non disturbare troppo il caravanserraglio presunto di una economia italiana che reclama sempre maggiori aiuti di stato nonostante sia iniziativa privata.

Il disequilibrio presente nel DPCM è l’inevitabile conseguenza di un compromesso raggiunto tra Stato e Regioni, tra spinte differenti e particolarismi di un Paese che non è in grado di affrontare una emergenza sanitaria con la dovuta unità di intenti: non si tratta di penalizzare i territori, di non ascoltarne le esigenze; semmai si tratta di uniformare i comportamenti e impedire che le tentazioni egoistiche prevalgano sull’interesse collettivo, sul bene comune. Antica malattia tutta italica: un pro domo mea che fatica a morire e che si riprensenta ogni qual volta un problmea globale deve essere declinato su base locale.

Altre sciocchezze, vestite da concetti astrusi quanto impossibili da riscontrare nella realtà, come la “dittatura sanitaria” allontanano la giusta critica dal suo obiettivo e la indirizzano verso una miriade di ipotesi che sono sempre figlie del vizio del particolarismo egoistico, della saggezza individuale a discapito del ragionamento comune, della considerazione collettiva del problema che viviamo.

Se davvero esiste una “dittatura sanitaria“, sarebbe bello constatare quale potrebbe essere il regime della “democrazia sanitaria” che non è sorella della democrazia propriamente detta ma ne è, tutt’al più, la declinazione nel contesto della tutela della salute di ogni cittadino, di ogni cittadina. La vera “dittatura sanitaria” non è la mascherina che si deve portare sul volto quando si esce e non si ha la benché minima garanzia di distanziarsi quel tanto che serve per evitare di infettarsi col Covid-19. No… La vera “dittatura sanitaria” è quella imposta dal mercato e dalle politiche privatizzatrici che si sono fatte avanti in tanti decenni di smantellamento delle strutture pubbliche, di privilegio di quelle private e di differenziazione delle cure in base alla ricchezza dei territori.

Tutto questo è il contrario della valorizzazione delle autonomie locali: è l’adeguamento delle necessità dei cittadini a quelle dell’impresa privata che è penetrata nel sistema sanitario nazionale e lo ha eroso, disarmonizzato, reso così povero e inefficiente da separare ancora una volta l’Italia in diversi ambiti di intervento quando si tratta di fare ricorso allo stato-sociale, all’assistenza fondamentale per i cittadini tutti secondo i princìpi costituzionali, secondo la logica della solidarietà e non secondo quelle assicurazioni private in stile statunitense.

Lavarsi le mani più spesso, tenere la distanza di sicurezza – come se fossimo delle automobili in marcia – e portare la mascherina o scaricare la app Immuni (qui il collegamento per scaricare l’applicazione e avere tutte le informazioni)

La vera “dittatura sanitaria” l’abbiamo davanti agli occhi e non sotto. Non è pezzo di tela che ci separa dal virus. Come la mascherina, se la indossiamo tutte e tutti, ci protegge reciprocamente dal Covid-19, così la partecipazione popolare, un nuovo assemblearismo di massa e una nuova coscienza sociale e civile, può salvarci da un nuovo profittamento di una emergenza contro le speculazioni degli imprenditori sulle disgrazie dei più deboli di questa società, che sono decine di milioni.

Loro, i padroni, lo sanno e cercheranno di farsi largo forti dell’amoralità che li contraddistingue in quanto classe dominante. Noi dovremmo impedirglielo: per il bene sociale, per l’interesse comune, invece di scannarci sui “social” dibattendo su chi è meno fesso dell’altro perché crede di aver scoperto chissà quale complotto mondiale contro la libera espressione di ciascuno.

Anche così ci fregano: facendoci credere di essere grandi scopritori di chisà quali reconditi complotti pluto-giudaico-massonici. Mentre il complotto è proprio sotto i nostri occhi…

MARCO SFERINI

Foto di Elenza Photography da Pixabay

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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