Quali le istanze programmatiche, quali le forme di organizzazione e di lotta adeguate allo spazio politico europeo e al passaggio d’epoca nel quale siamo immersi? Costruire contropoteri duraturi, capaci di combinare rottura e negoziazione: questa, la sfida

1. LA PANDEMIA E NOI

Mentre scriviamo, il virus continua la sua corsa in molte parti del mondo. In Italia, il ritmo dei contagi è tornato ad aumentare, all’interno di una dinamica che, sia pure in modo differenziato, sta interessando buona parte d’Europa. Nuove restrizioni vengono adottate, l’incubo del lockdown viene continuamente esorcizzato nel dibattito pubblico ma è tornato a essere presente. Sappiamo quanto potenti siano gli interessi che a questa misura estrema si oppongono, in particolare quelli di chi, come Confindustria, già a marzo ha mostrato con quale cinismo anteponga la ragione del profitto alla salute dei lavoratori e delle lavoratrici. Per “convivere con il virus” non facciamo certo conto su questi interessi. Sono piuttosto le reti sociali, la cooperazione che si svolge attorno a istituzioni come le scuole e gli ospedali, le forme di organizzazione e tutela sui posti di lavoro che possono per noi assicurare un’efficace convivenza con il virus, capace di tenere aperti quanti più spazi di libertà possibile. Occorrerà dunque nei prossimi mesi avere cura di queste reti e di queste forme, consolidarle ed estenderle. E sarà altrettanto importante intensificare la riflessione sulle modalità e sugli strumenti necessari per consentire lotte e mobilitazioni in questa congiuntura, in cui non può in alcun modo essere data per scontata l’efficacia delle forme tradizionali.

La congiuntura, intanto, deve essere analizzata non solo in termini epidemiologici, ma anche in termini politici. Occorrerebbe farlo nella stessa prospettiva globale in cui si manifesta la pandemia.

A nessuno sfugge, infatti, che la posta in gioco nella gestione del Covid-19 riguarda anche il futuro assetto del disordine e dell’ordine mondiale, come ad esempio chiarisce la competizione per il vaccino. Lo spettro delle reazioni alla pandemia è del resto molto ampio e profondamente eterogeneo, e va dagli schemi governamentali in buona sostanza “neo-malthusiani” adottati da Paesi come India, Brasile e Stati Uniti a misure che puntano a “difendere la società” con una geometria variabile di autoritarismo e impiego di tecnologie digitali (si pensi a Cina a Corea del Sud). Tenendo presente questo sfondo globale, vogliamo intanto concentrarci sull’Europa, che costituisce per noi la scala più prossima per l’azione politica. Non mancano qui, del resto, gli elementi che si sono sommariamente richiamati (e il “neo-malthusianesimo” è in particolare ben presente all’interno delle élite europee). Ci pare tuttavia che nell’insieme delle società e nelle stesse istituzioni europee prevalga un diverso atteggiamento, che si può misurare attraverso la differenza tra la reazione alla crisi finanziaria del 2007-2008 (e poi alla “crisi dei debiti sovrani”) e quella alla profonda crisi economica e sociale determinata dal coronavirus.

Semplifichiamo: nei primi anni Dieci, il “management europeo della crisi” si organizzò attorno alla logica punitiva e disciplinare dell’austerity, in perfetta continuità con l’ortodossia “ordoliberale”. Oggi le cose stanno diversamente, e alcuni caposaldi del neoliberalismo in salsa europea (il Patto di stabilità, il pareggio di bilancio, l’attacco allo Stato sociale) sono apertamente in discussione tanto sul piano delle politiche monetarie quanto su quello degli investimenti e della spesa pubblica.

Occorre intendersi: si tratta di un passaggio politico contestato e reversibile, che avviene per altro all’interno delle classi dominanti, nella prospettiva di definire scenari di stabilizzazione capitalistica della crisi.

È tuttavia un passaggio cruciale anche per noi, perché indica un cambiamento significativo del terreno stesso su cui si gioca il conflitto sociale e politico. Semplifichiamo nuovamente: nei prossimi mesi non saremo chiamati a batterci contro “tagli” alla spesa sociale ma per indirizzare risorse e stabilire il modo in cui verranno utilizzate. All’ordine del giorno non sarà dunque la “resistenza”, ma una battaglia offensiva per la riappropriazione di quote significative di ricchezza sociale.

(fonte: wikimedia.commons)

Non c’è ottimismo in questa diagnosi. Né pensiamo che la crisi, o l’indebolimento, della cornice macroeconomica del neoliberalismo significhi necessariamente l’eclissi di quest’ultimo. Non ripeteremo l’errore dei governi “progressisti” latinoamericani del primo decennio di questo secolo. Abbiamo imparato a sufficienza che il neoliberalismo non è soltanto un insieme di politiche macroeconomiche, è anche una forma di “governamentalità” che è penetrata a fondo negli ultimi decenni nelle nostre società, disseminandovi la razionalità della “concorrenza”, del “capitale umano” e della “meritocrazia”. Questi aspetti del neoliberalismo resteranno a lungo con noi, e si tratta di affrontarli in tutti i luoghi in cui agiscono. La stessa logica di erogazione delle risorse del Recovery Fund (o Next Generation EU) ne porta segni cospicui, e certo le cose non staranno diversamente per i programmi nazionali di investimento che sono in corso di preparazione. È un punto fondamentale da tenere presente all’interno del nuovo terreno di conflitto che si è oggettivamente aperto.

2. WELFARE COME CAMPO DI LOTTA

Enunciamo chiaramente la nostra tesi: nella congiuntura europea e italiana che abbiamo sommariamente descritto, il welfare si presenta come terreno privilegiato di lotta. È la stessa composizione del lavoro vivo contemporaneo a giustificare questa tesi. Dire welfare significa dire riproduzione sociale, e abbiamo imparato dal movimento femminista ad assumere quest’ultima come prisma essenziale per leggere lo stesso universo della produzione. Riproduzione sociale, ovvero quell’insieme di lavori che va dalle attività di cura all’interno dei nuclei familiari fino a quelle a elevata complessità nei settori antropogenici per eccellenza, istruzione e sanità in primo luogo; un reticolo di attività e lavori troppo spesso mal pagati o resi invisibili, e comunque sempre attribuiti in modo sproporzionato alle donne, attraverso cui la società si riproduce. C’è qui una chiave per ripensare la cooperazione sociale nel suo complesso, ponendo politicamente in rilievo la miriade di conflitti e lotte che ruotano attorno al lavoro di cura ma anche valorizzando il principio della reciprocità e della condivisione che lo innerva.

Questi conflitti e questo principio ci offrono lenti fondamentali per accostarci alla questione del welfare nei suoi termini più generali. E definiscono un primo criterio attorno a cui elaborare elementi programmatici non solo per il rifinanziamento del welfare ma anche per una sua profonda riorganizzazione.

C’è bisogno tuttavia, nel momento in cui identifichiamo la centralità del welfare come campo di lotta, di qualche preliminare precisazione sulle diverse valenze che questo termine assume. Welfare significa “benessere”. La lotta sul welfare è dunque in primo luogo lotta sul significato del benessere (nonché della salute e della cultura che viene trasmessa con l’istruzione). Ma occorre subito aggiungere che il benessere può essere inteso in molti modi, ad esempio secondo una logica patriarcale di amministrazione e gestione dall’alto, mentre welfare si è coniugato storicamente ad esempio con workfare (nella prospettiva di un uso del lavoro come strumento di disciplinamento di soggetti a cui è negato di poter decidere sul proprio benessere) e con warfare (con riferimento all’intreccio tra Stato sociale e “complesso militare industriale” in particolare negli Stati Uniti).

È del resto ben noto che la storia moderna delle politiche di welfare, quella che possiamo chiamare l’archeologia dello Stato sociale, prende avvio con leggi sulla povertà il cui carattere duramente disciplinare e spesso violentemente punitivo è stato illustrato da autori classici, come Marx e Polanyi, e poi da un’infinità di studi. Lo spettro del “cattivo povero”, stigmatizzato per la sua propensione all’ozio e alla promiscuità, circola in tutta la letteratura sul “pauperismo” che in Europa accompagna la formazione della società industriale.

Interventi assistenziali si accompagnano a interventi di polizia fino a risultare indistinguibili da questi ultimi, mentre l’“igiene” è un terreno chiave per lo sviluppo di politiche di disciplinamento di masse riottose di poveri e subalterni.

La “questione sociale”, poi, si intreccia con la minaccia costante posta da una povertà di tipo nuovo, installata al cuore della produzione di ricchezza, rivelandosi con sempre maggiore chiarezza nel corso dell’Ottocento “questione operaia”. Ed è l’insubordinazione operaia, che tra il Quarantotto e la Comune di Parigi si traduce in vere e proprie insurrezioni, ad aprire spazi di tipo nuovo nelle politiche sociali, a partire dalla legislazione sulle fabbriche in Inghilterra e dalla lotta per la riduzione della giornata lavorativa. Prende forma qui una diversa logica, quella dei diritti sociali di cittadinanza, che fino a oggi convive in modo conflittuale – all’interno delle politiche sociali e del Welfare State – con la più antica logica patriarcale, disciplinare, punitiva, o meramente assistenziale.

Lo Stato sociale che abbiamo conosciuto in Europa occidentale nel secondo dopoguerra, con la grande anticipazione del New Deal rooseveltiano, ricombina quelle logiche sotto la pressione combinata delle nuove esigenze collegate alla produzione di massa e della continuità delle lotte operaie. La centralità della classe operaia nei nuovi equilibri viene da una parte riconosciuta, dall’altra mistificata, nella misura in cui il salario operaio è posto come variabile interna allo sviluppo del capitale – in particolare attraverso l’espansione dei consumi. La “rivoluzione keynesiana” interpreta e sostiene con precisione questo passaggio. Va detto con chiarezza: non c’è possibilità di ritorno a questa peculiare forma di Welfare State. Ne sono venute meno tutte le condizioni, sia dal punto di vista della composizione della classe operaia sia da quello dell’organizzazione del capitale e della cornice internazionale in cui quell’esperienza è maturata. Non possiamo dimenticare, del resto, che i movimenti degli anni Sessanta e Settanta ne hanno attaccato alcuni elementi costitutivi – i processi di burocratizzazione legati a un welfare interamente centrato sullo Stato, la posizione subalterna delle donne e il familismo di fondo, l’esclusione di minoranze e migranti.

Quando diciamo dunque che il welfare è oggi un decisivo terreno di lotta, siamo consapevoli del fatto che le logiche disciplinari che ne hanno a lungo caratterizzato la storia sono ben presenti anche oggi.

E sappiamo di non avere un “modello” a cui riferirci, di essere costretti a sperimentare e inventare. Ma sappiamo anche che in questi anni c’è stata una grande ricchezza di lotte e di pratiche, che hanno spesso alluso con forza anche alla formazione di nuove istituzioni, capaci potenzialmente di iscrivere all’interno del welfare il principio dell’auto-organizzazione sociale, di negoziare e contestare continuamente le politiche pubbliche ponendosi come vere e proprie istanze di contropotere. Per fare un unico esempio, i Centri antiviolenza, che si ricollegano a una lunga storia di iniziativa femminista cominciata almeno con i consultori degli anni Settanta, ci sembrano particolarmente significativi. Da qui pensiamo che possa ripartire il dibattito su quelle che in questi anni abbiamo chiamato “istituzioni del comune”.

(foto: Plateforme d’enquêtes militantes)

Sappiamo che la battaglia sarà lunga e che dovremo batterci su molti fronti. Come abbiamo detto, il neoliberalismo è ben lungi dall’essere sconfitto, e sul terreno del welfare sarebbe un errore ridurlo semplicemente allo smantellamento dello Stato sociale. Se i tagli a sanità e istruzione sono stati una costante negli ultimi decenni, soprattutto in Italia, il neoliberalismo ha anche elaborato una serie di principi di riorganizzazione delle politiche sociali, che si sono ad esempio espressi nelle “riforme” attuate dal New Labor di Blair in Inghilterra alla fine degli anni Novanta. “New Public Management”, “Private Finance Initiative”, partenariati tra il pubblico e attori capitalistici privati, aumento dei finanziamenti per sicurezza e forze di polizia hanno definito una cornice che non ci stupiremmo di vedere riproposta oggi da qualcuno in Italia – non necessariamente di “destra”. Si tratta di esserne consapevoli e di mettere in campo con forza altri progetti sostenuti dalla materialità delle lotte. Ma ancora più in generale, è alle questioni del reddito e del salario che occorre guardare se vogliamo che gli investimenti nel welfare non seguano logiche puramente assistenziali ma incontrino piuttosto una composizione del lavoro vivo capace di imporre il riconoscimento, almeno parziale, della propria potenza.

3. REDDITO E SALARIO: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA

C’è da dire che in Italia abbiamo, da qualche mese, un privilegio non piccolo: c’è un nemico. Senz’altro state pensando a Salvini, ma sarebbe troppo poco, considerando quanto politicamente avviene negli Stati Uniti o in India. Ci riferiamo piuttosto a Confindustria e al suo nuovo leader. Ascoltandolo con attenzione, leggendo le sue interviste, inseguendo le sue dichiarazioni, la posta in palio della grande frattura nella quale siamo immersi risulta evidente, inequivocabile. L’offensiva di Bonomi è costante e articolata.

In primo luogo la contesa sulle risorse europee. La polemica contro i sussidi ha una finalità precisa: distribuire alle imprese, colpire i poveri affinché si attivino, invece di oziare sul divano coccolati da Mamma-Stato – ovviamente lo Stato non è materno se garantisce denaro a fondo perduto alle grandi imprese. In secondo luogo, dunque, bersaglio di Bonomi è il Reddito di Cittadinanza.

Come sempre, si scarica la colpa della disoccupazione sui disoccupati, sull’offerta inadeguata e lazy di forza-lavoro, senza nulla dire del disastro del tessuto produttivo italico, che per anni ha scambiato moderazione salariale con investimenti in innovazione e ricerca nulli, competendo nel mercato europeo e globale attraverso l’abbassamento oltre misura del costo del lavoro.

Non stupisce allora che – in terzo luogo – Confindustria con violenza rara si stia scagliando contro i salari. Il tema riguarda la contrattazione collettiva, con i rinnovi che rendono l’autunno affollato, non si sa ancora se di inquietudini marginali o di lotte. Ma riguarda anche il salario più in generale, per esempio quello minimo per legge, che in Italia ancora non c’è.

Risorse e ammortizzatori sociali, Reddito di Cittadinanza, salario: oltre alla contesa sul welfare (e a essa strettamente collegata), sono questi i nodi dello scontro, dei prossimi mesi e anche dei prossimi anni. Vale la pena approfondire, anche a costo di risultare spigolosi.

Per troppi anni, l’insistenza fondamentale sul reddito di base ha rimosso la questione salariale. Certo, si trattava di farla finita con la cultura del lavoro, rossa o bianca che fosse. Insistendo dunque sull’allargamento a dismisura della cooperazione produttiva, innervata dalle tecnologie della comunicazione e favorita da soggetti produttivi via via più ricchi di formazione, competenze, relazioni. Con l’ambizione di ricomporre figure del lavoro assai eterogenee, comunque ostili alle identità collettive di un tempo.

Giustamente convinti che, attraverso il reddito di base, si potesse anche combattere l’assalto al salario che, sul finire degli anni Novanta, si presentava attraverso la breccia del lavoro precario di giovani e donne, oltre che con l’inizio del massiccio uso della forza-lavoro migrante, nelle campagne e nel lavoro di cura, nella ristorazione e, a seguire, nella logistica. Tutto giusto o comunque quasi niente sbagliato.

Ma oggi, anche in Italia, il “Reddito di Cittadinanza” c’è, con risorse pochissime e con la condizione di accettare un lavoro purché sia. La pandemia ha fatto saltare le condizioni e, al Reddito di Cittadinanza, ha accompagnato quello di emergenza, ma la novità è data. L’attacco di Bonomi anche in questo caso chiarisce la posta in palio: farne uno strumento residuale di sostegno alla povertà assoluta, magari accentuando le politiche attive del lavoro di marca privata, con grandi affari per le agenzie interinali e gli enti che speculano sulla formazione professionale. Soprattutto, la vigenza della misura non ha in alcun modo rallentato l’attacco ai salari, nella forma ultima imposta nel dibattito da Confindustria: il salario a cottimo. E sì, perché sganciare il salario dall’orario, per combinarlo con la produttività, significa tornare indietro nel tempo, nel senso della reazione più retriva.

(foto: Annabella Da Re)

Ora più che mai, alla luce del dibattito politico europeo oltre che nazionale, la battaglia sul salario e quella sul reddito devono andare di pari passo. Senz’altro non si vince la prima senza la seconda, ma vale anche il contrario. Solo un salario minimo europeo adeguatamente parametrato – con riferimento ai Paesi Bassi o alla Germania e non alle zone speciali polacche – può far saltare in aria il dumping salariale che, oltre quello fiscale, favorisce capitalisti europei ed extra-continentali. Salario minimo per legge, perché la ritrovata concertazione tra le parti sociali non è una garanzia. Non lo è per i contratti gialli, come indica quello di UGL con le multinazionali del Food Delivery, non lo è in generale. Che la CGIL alzi la voce sui rinnovi contrattuali è un buon segno, ma la strada sembra già segnata: invece di aumentare le retribuzioni, e in sostituzione degli aumenti, si introduce o si rafforza il welfare aziendale (in prevalenza sanità integrativa), come d’altronde già accaduto con l’ultimo rinnovo – quello del 2016 – dei metalmeccanici. E la frammentazione corporativa del welfare va esattamente nella direzione opposta a quella, universalistica e del tutto strategica, fin qui delineata.

Aumentare le risorse e dunque la platea del Reddito di Cittadinanza esistente, facendo saltare in aria i vincoli e favorendo processi pubblici – e non necessariamente statali – di formazione e riqualificazione professionale: questa, in Italia, è battaglia fondamentale. E lo sarà ancora di più quando verrà eliminato, come richiede Confindustria da settimane, il blocco dei licenziamenti. L’incrocio della domanda e dell’offerta non funziona per colpa della domanda di forza-lavoro da parte delle imprese, e non solo per l’incapacità – che pure è sostanziosa – di chi oggi governa le politiche attive del lavoro. Ma se si rafforza il Reddito di Cittadinanza e nulla si fa per ridurre l’orario di lavoro, il problema rimane. Salario minimo legale (europeo) e riduzione dell’orario sono l’altra faccia della lotta per il welfare universale e per il reddito di base. Anche perché è attraverso la pressione sul salario, diretto e indiretto, che le resistenze del lavoro vivo per ora frammentate e molecolari possono ambire a una necessaria, quanto urgente, massificazione.

4. ROMPERE NEGOZIANDO, NEGOZIARE ROMPENDO

Il compito è più grande delle forze sociali in campo, non c’è dubbio. Le lotte del lavoro vivo sono effettivamente frammentate e molecolari, soprattutto quelle del lavoro precario e senza diritti. Pare una condizione ontologica, una invariante contro la quale può poco la paziente sfida del sindacalismo sociale. Eppure non esistono scorciatoie. Non esistono a maggior ragione se rivolgiamo l’attenzione a quanto sta accadendo in Europa. Il Recovery Fund, per la prima volta dalla nascita della Ue, distribuisce una robusta quantità di risorse che, necessariamente, dovranno rilanciare la spesa e l’impiego pubblici. Già lo abbiamo detto: le forme della distribuzione continueranno a essere quelle proprie dell’Europa neoliberale, ma le quantità sono inedite, hanno la consistenza di un Piano Marshall continentale.

La novità impone un cambio di passo. Anche perché indebolisce i populismi nazionalisti e sembra consolidare le tante varianti della Grosse Koalition. Certo l’Europa non sarà immune dal risultato elettorale americano, dove invece persiste una guerra civile (neanche troppo) strisciante.

Ma senz’altro ha per il momento imboccato un’altra via. E il trattamento europeo della crisi nella quale siamo immersi, che si somma e approfondisce quella esplosa tra il 2008 e il 2012, non assicura alcun happy end, anzi.

Ciò è esibito dalla violenza disumana che l’Europa sta spargendo ai suoi confini, in gran parte esternalizzati alla Turchia e al Nord Africa, con le macellerie libiche e del Mediterraneo, arrivando fino a Lesbo. Semplicemente, lo ripetiamo, è un altro terreno, fatto di politiche monetarie e fiscali espansive, neanche troppo velatamente keynesiane.

Sarà, questo nuovo terreno, permeabile alle spinte from below? Come sempre non si tratta di buona volontà, ma di rapporti di forza. E la domanda dunque diventa: di che cosa deve essere composta, la forza, per essere efficace? Non basta riaffermare ciò che già sappiamo, ovvero che senza lotte non c’è riformismo del capitale. La rottura, e solo la rottura, può riaprire i giochi. Ma quest’ultima non si produce con l’evocazione ripetuta, che semmai assomiglia sempre più a un genere letterario utile a sfogare frustrazioni e, nello stesso tempo, a darsi delle arie. Sarà il clinamen a decidere, come sempre, la capacità di cogliere l’occasione. E l’attesa messianica, però, non brilla più dell’estremismo parolaio. Il problema che conta, per noi, è capire che cosa significa politica sovversiva oggi, nella grande frattura imposta dalla pandemia, nel “cataclisma occupazionale” che muove l’Europa verso un riformismo timido.

Servono lotte sociali esemplari che sappiano durare nel tempo, capaci di combinare rottura e negoziazione. Contropoteri o istituzioni autonome: chiamatele come meglio credete.

Basta che ci si intenda: si tratta di un potere diffusivo, fondato sulla molteplicità, che non può eludere il nodo della convergenza; ambisce a consolidare una normatività altra, ma non disdegna una riforma legislativa conquistata sul campo; ha le gambe ben piantate nella scena extra-parlamentare, ma ritiene giusto, tatticamente, condizionare con le lotte gli ambiti istituzionali di prossimità, come quelli nazionali e continentali. Andiamo al sodo: un contropotere che non dura nel tempo, e che non è capace di negoziare, non è davvero tale. Semmai ambisce, senza dirlo più, alla “presa del potere” – pur senza realismo politico alcuno.

(foto: Iasonas Apostolopoulos)

Istituzione autonoma oggi è sempre più democrazia di nuova natura. Non solo perché la democratizzazione del welfare, come sopra abbiamo indicato e come il movimento femminista ha chiarito una volta per tutte, è un passaggio obbligato affinché il welfare abbia un futuro. Ma anche e soprattutto perché il neoliberalismo, ormai cotto, ha comunque in quarant’anni distrutto la democrazia liberale, con essa i dispositivi socialdemocratici di governo della forza-lavoro e del conflitto sociale. Consolidare mutualismo e solidarietà nei territori urbani, reinventare – combattendo senza sosta – il diritto del lavoro e sindacale, moltiplicare esperimenti di formazione autogestita: non è la rottura che serve, ma il milieu affinché la rottura sia meno improbabile, affinché questa, una volta esplosa, non sia evanescente e dunque inefficace. Una “lunga marcia”, certo non progressiva, sempre esposta alla contingenza e quindi capace di fare i conti con la congiuntura, ma lunga e accidentata.

5. L’EUROPA PER NOI

Che l’Europa sia o meno lo spazio politico in cui dare battaglia, è ormai problema del tutto fuori discussione. Lo abbiamo sin qui chiarito, il Recovery Fund volta pagina, alla moneta unica si accompagnano la mutualizzazione del debito e in prospettiva una effettiva politica fiscale, ammortizzatori sociali e welfare dei diversi Stati membri si fanno tendenzialmente più omogenei. E abbiamo presentato il nostro modo di intendere le istituzioni autonome, avendo tra l’altro la fortuna di praticarle, quotidianamente, con tante e tanti. Queste istituzioni autonome offrono un primo criterio per pensare la stessa azione politica nello spazio europeo.

Quali possano essere, però, forme di organizzazione e di lotta adeguate allo spazio politico europeo, è questione di cui si fatica a scrivere.

Si fatica in generale, figurarsi in epoca di pandemia, con la seconda ondata che sta già colpendo duro e che renderà non poco faticosa la mobilità. Eppure non vogliamo esimerci, perché la teoria politica, anche se sempre prevede spazi bianchi che solo la prassi può riempire, è comunque una prassi anch’essa. Timorosa e inoffensiva, se incapace di azzardare – procedendo ovviamente per prova ed errore. Concludiamo dunque questo intervento con qualche considerazione sui temi dell’organizzazione e delle forme di lotta.

Organizzazione. Ribadiamo quanto già detto e scritto negli scorsi mesi: le piattaforme che hanno accompagnato la nostra vita distanziata sono spesso un incubo, se pensiamo allo Smart Working senza diritti o alla continua estrazione di dati che esse rendono possibile, ma sono senz’altro uno strumento utile per rilanciare la discussione europea. Serve uno sforzo corale, fin dall’inizio: non basta l’indizione da parte di questo o di quel nodo territoriale, necessario è piuttosto un appello da subito transnazionale. È evidente che non esistono basi d’appoggio solide, ma ci sono certamente relazioni maturate nell’arco degli anni; senz’altro, poi, è condivisa l’urgenza di un nuovo inizio dei movimenti europei.

Quest’ultimo non sarà un prodotto di laboratorio, pretende mescolanze vivaci, esempi e fatti concreti. Indubbiamente il movimento femminista e quello ecologista hanno già esibito una straordinaria forza connettiva, capace di convergere nel discorso e nelle pratiche di lotta, con una rapidità mimetica potente.

I movimenti e le lotte dei e delle migranti, poi, si distendono spesso in uno spazio ricco di connessioni transnazionali. La formazione di una civil fleet per il soccorso in mare costituisce un esempio di cooperazione europea dal basso, tanto più importante in un momento in cui riprende l’iniziativa della Commissione europea nel Mediterraneo, nel segno dell’intensificazione delle espulsioni e dell’ulteriore esternalizzazione dei controlli di confine. Non partiamo da zero, insomma. Recovery Fund for the People potrebbe essere lo slogan per mettere in campo mobilitazioni decentrate con livelli quanto meno simili e convergenti di coordinamento.

Forme di lotta. C’è poi un punto su cui occorre essere chiari. Agire nello spazio politico europeo non significa necessariamente manifestare a Bruxelles o lanciare campagne europee. Entrambe le cose possono essere utili e a volte necessarie, ma forse perfino più importante in questo momento è comprendere che singole lotte in contesti locali e nazionali possono avere carattere immediatamente europeo. Una battaglia vincente per orientare l’uso delle risorse del Recovery Fund in un Paese come l’Italia avrebbe echi in tutto il continente, rafforzando analoghe mobilitazioni altrove.

Un movimento come quello dei Gilet gialli in Francia, che ha posto tra l’altro il problema della dimensione sociale della lotta sul salario, ha prodotto risonanze ben al di fuori dei confini nazionali (oltre ad aprire una contesa sulle politiche di bilancio i cui effetti non possono che ripercuotersi sulle stesse politiche europee).

Un’azione per cogliere ed esaltare la dimensione europea di singole lotte, campagne e movimenti deve insomma affiancarsi all’impegno per costruire e rafforzare processi di coordinamento a livello transnazionale.

(foto: Cinzia Barra)

Non mancheranno nei prossimi mesi, in Italia come altrove in Europa, occasioni di conflitto e mobilitazione sui diversi fronti che abbiamo qui indicato – dalla questione del reddito e del salario alle decisioni sulla destinazione dei fondi europei. Tutto questo avverrà in una situazione fortemente condizionata dalla pandemia, in cui si registra una sostanziale difficoltà a praticare le forme di lotta tradizionali, in particolare per quel che riguarda l’azione di massa nello spazio pubblico. Certo, il formidabile ciclo di mobilitazioni attorno allo slogan Black Lives Matter negli Stati Uniti mostra che questa difficoltà può essere superata in condizioni eccezionali. Ma ci sembra che intanto la si debba assumere realisticamente.

Lo abbiamo detto all’inizio: dobbiamo inventare e sperimentare forme di lotta e di mobilitazione adeguate al momento che stiamo vivendo. Occorre riscoprire il gusto della provocazione creativa, rimettere a tema l’azione diretta e la disobbedienza incardinandole all’interno delle nuove condizioni di vita e di sfruttamento.

I flashmob di Non Una di Meno che hanno cantato Un violador en tu camino ci offrono un esempio di come appropriarsi dello spazio pubblico e trasformarlo nella scena “teatrale” di una rappresentazione politicamente potente ed efficace. Più in generale, azioni creative e mirate possono oggi produrre una molteplicità di risonanze e innescare più larghi processi di mobilitazione quando non sono semplicemente espressione del nostro attivismo ma includono fin da principio il protagonismo dei soggetti sociali colpiti dalla crisi. Costruire minoranze attive capaci di mettere in campo azioni di questo tipo ci sembra un compito fondamentale in questa fase.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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