Nemmeno troppo a stretto giro di posta. Non si sa bene quanto tempo ci vorrà per scrutinare quasi 70 milioni di voti inviati dagli americani tramite i “box mail“, grandi cassoni che in tanti Stati dell’Unione hanno raccolto i consensi degli elettori. Intanto il risultato rimane appeso al filo di una incertezza che pesa come un macigno su quella “notte elettorale” che non ha portato alcun consiglio, che ha invece – almeno fino ad ora – confermato un primo dato: il ridimensionamento del trumpismo non c’è stato.

Se Biden aveva il compito di erodere il monolite del populismo e del sovranismo a stelle e strisce, questo intento è stato vanificato probabilmente da molteplici fattori che saranno oggetto di successive analisi. Se sarà vittoria democratica, sarà una vittoria che si giocherà su poche centinaia di migliaia di voti, forse uno o due milioni al massimo.

I contatori della CNN e del “The Washington Post” sono impietosi nel mostrare il balletto delle cifre nel confronto con le precedenti presidenziali in cui anche Hillary Clinton era avanti a Trump in quanto a voti assoluti ma perse – si disse – perché giusto qualche contea dirimente in Florida e in Pennsylvania, nonché in Michigan e in Ohio, finì per essere quel punto per cui “Martin perse la cappa“.

La complessità del sistema elettorale statunitense, fondato sul maggioritario più sperticato, non concede a chi ottiene più consensi di essere il Presidente degli USA. Per noi europei, noi italiani che un tempo eravamo affezionati alla proporzionale come equo metodo di ripartizione dei seggi in Parlamento, può risultare sempre molto curioso il fatto per cui chi ha più voti alla fine perde. E magari nemmeno di misura.

Pare che ci si debba affidare, per sperare ancora nella sconfitta se non del trumpismo almeno di Trump, nel voto postale che potrebbe ribaltare i vantaggi nel trittico degli “stati-chiave” di oggi: Wisconsin, Michigan e la solita Pennsylvania. Biden prevale, un po’ ovunque, nei grandi certi urbani, e nella Florida tanto contesa, vince nelle contee di Orlando, di Palm Beach (dove un tempo si votava acerrimamente contro i democratici, soprattutto tra la popolazione più anziana), dove doppia Trump, dove acquisisce anche una parte di quell’elettorato latino che Hillary Clinton aveva invece perso per strada.

Ma tutto questo non basta per vincere i 29 grandi elettori dello Stato del Sud il cui nord è sempre più nel cuore del vecchio Sud della Guerra civile, dove le bandiere confederate ancora segnano la ferita cicatrizzata ma ben distinguibile di una America che oggi potrebbe chiamarsi “Stati Disuniti” e non “Uniti“, alla luce del bilico su cui è sospeso l’esito delle presidenziali.

Certamente Biden non era il candidato più efficace per incunearsi nella diga razzista, suprematista, sovranista e iperliberista trumpiana: dato per perso da tanti sondaggisti e analitici politici, il presidente che ancora siede nella sala ovale rischia seriamente la conferma e siccome il dato elettorale è sul filo di un rasio affilatissimo, c’è da scommettere che la minaccia di ricorrere alla Corte Suprema, impugnando il risultato qualora fosse favorevole a Biden, non è soltanto un anatema gettato nel vuoto. E’ una promessa.

Una promessa che Trump fa ai suoi fanatici sostenitori, a mezza America che lo ha votato e che non è più distingubile etnicamente: un altro errore dei democratici è stato proprio questo. Ritenere che il voto si muovesse compattaente a compartimenti: sebbene si sapesse che chi prediligeva Biden voleva un cambiamento in materia di diritti civili, sociali e una gestione della pandemia completamente capovolta rispetto a quanto non fatto da Trump, è stato incauto sommare ai voti di opinione i voti dati per scontati su base etnica.

Stati come Florida, Texas, New Mexico e California hanno con grande ampiezza dimostrato che essere messicano o latino non significa meccanicisticamente votare contro il muro di Trump o a favore di Biden per una maggiore tutela delle minoranze. Il grande movimento del “Black lives matter” ha prodotto un’onda lunga di indignazione nell’intero globo: ha spaccato in due la società statunitese, così aggrappata ai suoi valori fondati sulla difesa della polizia in quanto legge e delle procure in quanto ordine.

Law and order” e movimento per i diritti dei neri si sono anche contrapposti ma non hanno prodotto una polarizzazione di consensi per un Biden che ha invertito la tendenza prevista, parlando di innalzamento delle tasse proprio mentre Trump spingeva sull’acceleratore della detassazione come promessa di recupero anche per la gestione confusa del Covid-19.

Se Biden dovesse recuperare negli “Stati-chiave“, visto che quelli che ancora può conquistare gli sono praticamente insufficienti per andare alla Casa Bianca, questa volta da numero uno e non da vice, si troverebbe a governare con un Congresso eternamente diviso tra maggioranza repubblicana al Senato e democratica alla Camera; con una Corte Suprema sbilanciata, pendula stella pascoliana su un mare di sovranismo che conta – ad ora – su oltre 65 milioni di voti contro i 67 milioni cui è abbarbicato il flebile sorpasso bideniano.

Tocca aspettare, dunque. Seguendo ora per ora l’evolversi di una circostanziazione di un voto arruffato, confuso, intriso di sospetti di brogli, di cambi di campo dell’ultim’ora, di tradimenti e corse sul carro del vincitore. E’ il gioco della democrazia, si dice. Forse è solamente il gioco di un capitalismo che si diverte ad orientare le grandi masse nello scegliere chi gli è più congeniale per rafforzarsi ai tempi del coronavirus.

Per vincere la sfida contro il vero nemico di classe che oggi ha. Un patogeno, piuttosto che una grande Internazionale degli sfruttati che non si accontentino di un Biden per vivere meglio e progredire, ma che ne considerino la sempre meno probabile vittoria come il punto di partenza per una lotta ben più esigente di quella rappresentata su una scheda da forare.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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