L’Ungheria e la Polonia intendono esercitare il loro diritto di veto e bloccare l’approvazione del bilancio dell’Unione Europea per il prossimo settennato 2021-2027 insieme al fondo collegato per la ripresa e la resilienza (Recovery fund/Next Generation Ue) da 750 miliardi di euro.

In attesa del Consiglio europeo di giovedì in videoconferenza la risposta alla crisi economica innescata dal Coronavirus resta in bilico. Angela Merkel, presidente di turno dell’Unione Europea, dovrà individuare una mediazione nello scontro che contrappone i governi ungheresi e polacchi al parlamento Ue e agli altri governi. La questione è rilevante: senza il rispetto dello stato di diritto (l’indipendenza della magistratura o libertà come il diritto all’aborto) i fondi europei saranno tagliati agli stati membri che li violano.

Due giorni fa lo scontro frontale con Ungheria e Polonia era stato escluso dal commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni nel corso dell’incontro della Cgil «Futura»: «Sono fiducioso – aveva detto – che queste ipotesi di veto non si tradurranno sul serio in un veto: ci sarà un negoziato complicato, ho fiducia che la presidenza tedesca lo svolga nel migliore dei modi». Ieri mattina la situazione è precipitata proprio in direzione del veto nel corso dell’incontro del Coreper, l’organismo di cui fanno parte gli ambasciatori degli Stati presso la Unione Europea. L’assise non ha raggiunto il voto unanime necessario per approvare gli accordi sul bilancio 2021-2027 e ratificare l’aumento delle risorse proprie dell’Unione, elemento necessario per garantire l’emissione dei bond che finanzieranno i 750 miliardi del fondo anti-crisi e dunque i 209 miliardi di euro assegnati all’Italia. L’accordo sui fondi Ue in cambio del rispetto dello stato di diritto è stato approvato a maggioranza qualificata. Ungheria e Polonia sono rimaste isolate. La loro mossa è stata concepita per colpire il bersaglio grosso: il bilancio europeo. La posta in gioco è chiara: senza un ammorbidimento sullo stato di diritto, il 2021 partirà senza bilancio Ue e senza fondo anti-coronavirus. Per gli ungheresi l’accordo sullo stato di diritto «va in senso contrario rispetto alle conclusioni del Consiglio Europeo di luglio» dove è stata raggiunta l’intesa con i paesi «frugali» sul Recovery Fund. In quell’occasione il parlamento europeo criticò i tagli a sanità e ricerca nel bilancio. La settimana scorsa sono stati recuperati 16 miliardi di euro in più e l’opposizione è rientrata. Ma il premier Orban e il polacco Morawiecki hanno riaperto le danze. Per Orban «spetta ai cittadini ungheresi decidere, se sono violati o no i diritti nel loro paese». Per il portavoce della presidenza di turno tedesca Sebastian Fischer ci sono margini per trattare: «I due Stati hanno espresso la loro opposizione rispetto alla condizionalità sullo stato di diritto ma non sulla sostanza dell’accordo sul Bilancio». Il rispetto dei diritti fondamentali è un problema che riguarda anche l’Italia condannata per le torture al G8 di Genova nel 2001 o sull’ergastolo ostativo. L’accordo sullo stato di diritto dovrebbe valere anche in questi casi.

Il ministro degli affari europei Enzo Amendola ha definito il diritto di veto «obsoleto e dannoso per chi lo esercita». Lo stesso che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha minacciato di usare durante le trattative sul «Recovery fund». È la posizione indicata dal presidente del parlamento europeo David Sassoli secondo il quale bisogna modificare i trattati europei per eliminare il diritto di veto dei governi. In questo quadro rientrerebbe la trasformazione del «Mes» in uno strumento della Commissione Ue, del Recovery Fund in fondo permanente e del Patto di stabilità su deficit e debito.

Le tensioni sul bilancio hanno scatenato una zuffa tra italiani. Per Fratelli d’Italia è «colpa della sinistra e dei grillini» «nei paesi frugali e nel parlamento Ue». I trattati già prevedono sanzioni, quello in corso sarebbe un attacco «politico-ideologico». Per Pd e Cinque Stelle il «Recovery è stato bloccato dagli amici di Salvini e Meloni».

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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