Il parlamento peruviano ha destituito ancora un altro presidente, mettendo la società davanti a una nuova sfida. Quale azione politica adeguata alla fase e quale novità è possibile costruire a partire dalle rivolte nelle strade?

Il parlamento peruviano ha destituito ancora un altro presidente, mettendo la società davanti a una nuova sfida. La scorsa settimana, l’apparato statale più screditato del Perù si è sbarazzato di Martín Vizcarra dopo averlo dichiarato «moralmente incapace» e averlo accusato di corruzione, come era successo al suo predecessore, Pedro Pablo Kuczynski. La peggiore versione della nostra classe politica contrattacca, spianandosi la strada dell’impunità, del cinismo e di una corruzione sempre più estesa.

Il 15 novembre Manuel Merino, che presiedeva il Congresso che ha destituito Vizcarra ed ha assunto la presidenza immediatamente, ha dovuto dare le dimissione dopo la brutale repressione delle forze dell’ordine che hanno ucciso due manifestanti.

Cos’è questo neoliberalismo à la peruviana, in cui spossessamento ed ingordigia sono elementi costanti delle élite politiche e aziendali? Come organizzare una risposta popolare, di massa, in un contesto di crisi di questa portata che tende a disorganizzare e frammentare le fasce popolari?

Cos’è questa cosa che assume forma di istituzione, si dimostra capace di cambiare nome, ma intensifica i peggiori assiomi del neoliberismo? Cosa possiamo dire della nostra democrazia quando le braccia dello Stato coloniale cancellano qualsiasi immagine di istituzionalità classica?

In sostanza, si tratta di capire come affrontare la crisi. Abitarla e pensarla non dall’esterno di chi categorizza, ma a partire dall’espressione di tutte quelle persone che oggi rischiano la propria vita, rispondendo dalla strada alla barbarie statale. E non solo: anche a partire da quelle vite che nelle condizioni più avverse, in lockdown e con il coprifuoco, sono riuscite a reinventarsi nonostante l’azione degli apparati repressivi del potere.

Foto: Diego Miranda

LE PIAZZE

Le piazze sono state il miglior laboratorio di sperimentazione della trasformazione sociale del Perù degli ultimi anni. La ricercatrice e militante messicana Raquel Gutiérrez sottolinea il «potere di veto» che le masse hanno per opporsi a certe misure o avanzate del capitale e dare inizio a un percorso di riappropriazione, o almeno di contesa, della ricchezza sociale. Nel Perù degli ultimi anni, il Paese che abbiamo avuto in sorte con la costituzione neoliberale del ’93, non sono state poche le volte in cui la strada ha gridato «basta!».

Nel 2000 la mobilitazione popolare ha scardinato il modus operandi dello Stato con la «Marcha de los cuatro suyos» (ispirata ai quattro punti cardinali dell’impero Inca), spaccando l’amministrazione fujimorista di allora; nel 2009, in seguito al «Baguazo», c’è stata una svolta rispetto al governo autoritario di Alan García; nel 2014 gruppi di ragazze e ragazzi hanno ottenuto la deroga della «ley pulpín», la legge che di fatto rendeva legale lo sfruttamento sul lavoro tra i più giovani; nel 2019 migliaia di persone hanno occupato la Panamericana Norte, protestando contro la riscossione abusiva dei pedaggi nel distretto di Puente Piedra. L’ultimo gesto della nostra memoria viva delle lotte è stato quello delle operatrici ecologiche che, nonostante le pessime condizioni , ad agosto si sono mobilitate contro la precarizzazione del loro lavoro davanti alla municipalità di Lima per un manifestazione collettiva.

Come leggono le diverse sinistre queste forme di disobbedienza che non si sono mai armonizzate del tutto con il modello neoliberale e che non hanno mai rinunciato all’antagonismo di strada? Quali immagini costituenti ci arrischiamo a produrre se al momento del veto popolare non c’è stato bisogno di forme di autoritarismo politico o di un organo gerarchico come il partito? Il nostro orizzonte è il processo cileno?

Foto di: Diego Miranda

IL NOSTRO ORIZZONTE È IL SUD (A VOLTE)

Dagli anni Novanta, il Cile di Pinochet è stato la bussola delle misure giuridiche ed economiche adottate dal condannato Fujimori. Cile e Perù hanno mantenuto una posizione subordinata alle direttive del Washington consensus e dei Chicago boys. Ma dietro alle statistiche favorevoli e alla religione dello sviluppo economico è cresciuto il malcontento popolare. Alla fine il Cile è esploso, e sta affrontando un processo costituente dopo una partecipazione cittadina di massa. Cosa manca per fare quel passo in più, tanto auspicato dagli slogan della sinistra peruviana nelle ultime ore?

In linea di principio possiamo semplificare affermando che il disprezzo popolare per la classe politica è comune in entrambi i casi; è il modo in cui il neoliberalismo opera per riprodursi a essere diverso. In Cile Piñera non è stato destituito. In Perù avremo presto il terzo presidente in meno di tre anni. Sembra che radiare un presidente sia il modo in cui il potere in Perù riesce a purificarsi e a legittimarsi davanti alla società. Come si è arrivati a delegittimare la fugace popolarità che Vizcarra aveva conquistato proprio combattendo la corruzione di Fujimori?

Vizcarra aveva generato diverse aspettative sociali dopo aver sciolto il parlamento a maggioranza fujimorista nell’ottobre del 2019, nell’ambito di una lotta alla corruzione che aveva coinvolto i settori più datati dell’estrema destra peruviana12: un’impresa grazie a cui era riuscito a raggiungere livelli record di popolarità.

Ma non dimentichiamoci che Vizcarra è stato lo stesso presidente che ha fatto arricchire le grandi banche peruviane e il settore finanziario durante la pandemia, concedendogli quasi 9 mila milioni di dollari statunitensi; che è stato lui a emanare la legge n. 31012, che esonera polizia e militari dalla responsabilità penale nel caso in cui uccidano qualcuno mentre cercano di far rispettare lo stato d’emergenza; che è stato lui ad accusare le lavoratrici e i lavoratori dell’economia popolare di essere i responsabili del contagio, tacciando i mercati di quartiere come «focolai» e autorizzando la caccia all’uomo nei confronti dei venditori ambulanti, adottata da vari sindaci nei distretti di Lima.

Ordine e maniere forti sono state le uniche misure di sicurezza proposte dal suo governo defenestrato.

Foto: Diego Miranda

DITTATURA DI CHI?

Cosa esprimono le persone in strada, oggi, se non la difesa del governo neoliberale deposto? Non lo fanno né per Vizcarra, né per salvare l’istituzionalità liberale del sistema economico; oggi migliaia di persone scendono in strada per evitare che che un ulteriore atto del potere marcio si consumi ancora. Ma attenzione: la razionalità dello Stato neoliberale si ripete, il governo peruviano è capace di sospendere le istituzioni (sotto la spinta della disapprovazione civile) per evitare un eccesso di potere destituente (come nel caso cileno). Possono sparire il parlamento o il presidente, ma la macchina continua a funzionare. Siamo davanti a una «dittatura di nessuno», espressione coniata in un’altra occasione dal sociologo peruviano Félix Reátegui?

Se rimuovere pezzi dall’interno è il modo in cui il neoliberalismo peruviano si ritira per evitare la durata e l’intensificarsi della crisi, come possiamo rispondere in maniera originale, senza limitarci agli slogan con cui siamo tutti d’accordo? Vogliamo un processo costituente, sì, ed è quello per cui ci stiamo battendo. Ma, come parte della sinistra, diamo l’impressione di aver già definito tutte le vie di uscita per un momento di interruzione eccezionale come quello di adesso.

Le vicende degli ultimi anni – tra amnistie, destituzioni presidenziali e dissoluzioni parlamentari – hanno dato vita ad altre forme di mobilitazione, di confronto e di organizzazione contro un modello, al di là dei confini istituzionali. Come può la nostra azione essere adeguata a questo clima di incertezza e quale spazio dovremmo dare al sorgere di una novità politica?

Il filosofo argentino León Rozitchner in La izquierda sin sujeto si chiedeva se per caso non stessimo pensando la ragione senza considerare il corpo: «Il problema è spaventoso: come si può produrre il contrario di ciò che il capitalismo, con tutto il suo sistema di produzione di uomini e donne, produce?».

Dipenderà dalla disobbedienza del popolo prefigurare nelle lotte un possibile «orizzonte comunitario-popolare», che non si basi solo sul possibilismo del partito riformista (che anche se con le migliori intenzioni, forse, non fa che gestire uno Stato sostanzialmente neoliberale) e che allo stesso tempo non rinunci a ribadire il proprio diritto a una vita dignitosa. Il processo è iniziato e pronto a darci le alleanze di cui abbiamo bisogno per costruire la società che vogliamo.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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