In occasione dell’anniversario per i cent’anni dalla fondazione del Partito Comunista Italiano (in principio con il nome di Partito Comunista d’Italia), avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921, Sinistra in Europa pubblicherà nei prossimi mesi una serie di approfondimenti volti ad aprire una riflessione di carattere storico-politico sul più grande partito comunista del campo occidentale e sull’eredità che questa straordinaria esperienza collettiva ha lasciato in eredità.

La scuola comunista di partito di Frattocchie, la politica come scienza

Dell’edificio che un tempo ospitava la scuola di Frattocchie, al chilometro 22 della via Appia, non resta che una sorta di rudere. Eppure, nel discorso politico odierno, non si smette di evocare quella prestigiosa «scuola quadri» del Partito comunista italiano, ogni qual volta si assiste a una nuova e originale forma di degenerazione del costume politico.

Frattocchie per contrapposto ha rappresentato, infatti, il simbolo di una politica posta al vertice delle attività umane: una scienza che nulla concedeva a faciloneria e dilettantismo, per la quale occorreva dedizione e spirito di sacrificio. I comunisti dovevano studiare, molti avevano iniziato a farlo al confino dove dal ’26 erano state allestite scuole e corsi, e all’«università del carcere». Chi guadagnava nuovamente la libertà, si scriverà di Cino Moscatelli, comandante partigiano e poi deputato alla Costituente – era «un rivoluzionario agguerrito e addestrato, non più un ragazzo di periferia temerario e senza istruzione» (Barbano, 1982).

Mitizzata e rimpianta da alcuni, demonizzata e maledetta da altri, a Frattocchie e all’intero sistema educativo di scuole nazionali e regionali del PCI è dedicato il volume di Anna Tonelli «A scuola di politica. Il modello comunista di Frattocchie (1994-1993)». Una ricerca preziosa, attraverso la quale si possono ripercorrere le tappe di quel poderoso processo di pedagogia politica delle masse promosso dai comunisti italiani.

Se il teorico della scuola politica – sottolinea l’autrice, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Urbino – era stato Antonio Gramsci, fu soltanto al volgere della Seconda guerra mondiale che le federazioni provinciali del PCI iniziarono a ricevere le prime istruzioni dalla Direzione su come individuare il gruppo di allievi da indirizzare alla Scuola centrale. Le esperienze da alcuni maturate in carcere o al confino, notava Edoardo D’Onofrio, non risultavano, infatti, adeguate ai compiti nuovi che le circostanze storiche imponevano. In questa fase la formazione venne quindi intesa come «strumento di organizzazione e acculturazione delle classi popolari». Le divaricazioni socio-culturali manifestatesi tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta scossero nel profondo il partito, l’attività educativa venne quindi riformata estendendone la presenza a tutto il territorio nazionale, diversificando i corsi e attribuendo a ciascuna scuola una vocazione specifica. Nell’aprile ’74 gli Editori Riuniti diedero alle stampe il «Dizionario di politica economica», a cura di Luciano Barca. Il successo editoriale dell’opera segnò l’acmedella pedagogia politica comunista: anche le nozioni economiche erano parte ormai del bagaglio culturale del quadro di partito.

L’affermazione politica del PCI schiuse in quel frangente le porte di moltissime amministrazioni locali, un numero crescente di quadri politici venne quindi investito di incarichi di responsabilità pubblica. Per rispondere alle problematiche connesse bisognava assimilare gli «strumenti e gli istituti del governare»: si trattava in altre parole di conoscere lo Stato, le sue leggi e le sue logiche.

Direttore della scuola veniva nominato Luciano Gruppi, il prototipo – a giudizio di Italo Calvino – di quella «serietà riflessiva», di quella «maturità» e di quella «chiarezza responsabile» propria dei quadri comunisti. Un intellettuale «organico», autore di moltissimi pregevoli studi sul pensiero politico, nonché formatore e divulgatore straordinario, due propensioni indispensabili per quell’attività assai peculiare di formazione dei gruppi dirigenti. La capacità di rivolgersi a tutti gli strati della popolazione con un linguaggio accessibile senza tuttavia perdere il rigore scientifico, contraddistinse il suo magistero. Si faceva «acuta» la «questione del linguaggio», come ebbe a definirla in un intervento su «l’Unità» del gennaio ’79. Le «astruserie» cui si ricorreva nel discorso politico generale già in quella fase – nel convincimento «che ciò che è chiaro e semplice è inevitabilmente superficiale, e solo ciò che è oscuro e arduo può essere profondo ed originale» – minavano il rapporto tra intellettuali e lavoratori e soprattutto tra partito e masse. Ci si sarebbe dovuti sforzare invece «di essere chiari sempre, facili il più che si può». Su questo delicato crinale si sarebbe osservato il declino di una sinistra, fattasi negli anni sempre più povera ed elitaria. La profondità del distacco tra sinistra e classi subalterne, oggi, può misurarsi anche sul terreno del linguaggio.

Ragionando dell’attualità è agevole constatare che le conoscenze e le competenze necessarie «alla costruzione di pubbliche decisioni che assicurino […] un buon governo», diversamente dal passato, sono disperse tra una moltitudine di individui (Barca, 2013). La concentrazione delle decisioni nelle mani di pochi, sulla scorta di un’illusione accentratrice, contraddice pertanto «non solo il principio democratico della rappresentanza, ma anche il principio di competenza» (Ibidem). Le decisioni pubbliche, è questa la tesi di Fabrizio Barca, non possono che scaturire dalla mobilitazione e interazione tra conoscenze e competenze diffuse. Il bandolo della matassa si trova quindi nei partiti, educatori e formatori e ad un tempo promotori della «mobilitazione cognitiva» (Ibidem). La funzione educativa delle organizzazioni politiche va pertanto ripensata ed aggiornata, salvaguardandone tuttavia il valore e la rilevanza. Tutto ciò, in conclusione, non potrà però verificarsi a prescindere dalla politica: dalla riaffermazione, cioè, di una progettualità in grado di esprimere una lettura della società ed una visione del cambiamento. Per rendere, nuovamente, la democrazia un esercizio di massa sarà necessario liberare la politica dai pesanti tentacoli di quelle élite economiche senza scrupoli, che non smettono di mortificarla.

*Articolo pubblicato sul sito dell’associazione culturale Etica ed Economia

C’era una volta Frattocchie

di Anna Tonelli*

Il nome di Frattocchie evoca immediatamente la scuola ideata dal Partito comunista italiano per formare i quadri dirigenti del futuro, funzionante dal 1944 fino al 1993, per quasi cinquant’anni di attività che hanno visto passare e formarsi migliaia di militanti e funzionari. Si tratta di un riferimento, con luci e ombre, per tutti gli esperimenti successivi che a quella esperienza si rifanno per intendere la volontà di istruire le nuove leve delle professioni e delle amministrazioni centrali e locali. Sia per ricalcare alcuni schemi, ma soprattutto per distaccarsene e prendere le distanze, quel tipo di scuola ha contagiato il linguaggio giornalistico che, di volta in volta, ha  scritto della Frattocchie della Lega, della Frattocchie di Forza Italia, della Frattocchie dell’Ulivo, della Frattocchie di Enrico Letta, della Frattocchie del Pd e di Renzi, della Frattocchie dei grillini.

In realtà, di quel modello non è rimasto praticamente nulla se non il richiamo del nome. La scuola di Frattocchie e, più in generale il sistema scuole del Pci, ha rappresentato un universo molto composito in cui è possibile leggere una cultura politica che dialoga con la trasformazione del costume, della mentalità, delle generazioni, del modo di intendere l’adesione a una fede. Educare alla politica ha significato per un partito pedagogico come il Pci investire sulla formazione, con corsi che potevano durare da sei mesi a un anno, interamente finanziati e quindi gratuiti per i frequentanti, sia per vitto e alloggio, sia per i materiali di studio. Si trattava di scuole residenziali che erano un vero e proprio  microcosmo nel quale si sperimentavano la vita collettiva, l’identità di gruppo, le coordinate culturali, la tenuta del credo ideologico, i linguaggi comunicativi. Solo dall’intreccio fra le direttive dall’alto e il vissuto dal basso, può emergere la complessità di un sistema educativo che troppo spesso è caduto nella banalizzazione di uno stereotipo usato politicamente più che storicamente. Analizzare il sistema educativo comunista vuol dire concentrarsi sulla politica di un partito che si attrezzava per scegliere gli uomini – molto meno le donne – migliori da collocare nei ruoli di governo centrali o periferici, e soprattutto cogliere il sistema di valori, le emozioni, le aspettative, i progetti che influenzavano i comportamenti individuali e collettivi.

La formazione del militante mirava a costruire la carriera del politico che sapesse incarnare gli ideali di un partito che richiedeva controllo, preparazione e disciplina. Per questo le scuole comuniste hanno rappresentato un esempio unico nei metodi di insegnamento e nei programmi di studio, ma pure nell’attenzione posta nei confronti degli studenti, sia nelle modalità di reclutamento, sia nella condotta tenuta a scuola. I giovani selezionati dovevano essere consapevoli di costituire un investimento per il partito, da risarcire con un rendimento scolastico che potesse rispecchiare determinati requisiti, sia negli studi che nel comportamento durante i corsi: l’impegno nell’apprendimento, la correzione dei difetti caratteriali, la capacità di autocritica, la volontà di adeguarsi alle mansioni richieste, il grado di fusione nel gruppo, la disciplina verso se stessi e gli altri.

Il modello di Frattocchie segna il passaggio da un iniziale periodo in cui la formazione costituiva uno strumento di organizzazione e acculturazione delle classi popolari, a partire da operai e contadini, a una fase propulsiva, ascrivibile agli anni Settanta, con il Pci che promuoveva i quadri in funzionari alla guida delle amministrazioni locali. È indubbio che i primi esperimenti risentivano pesantemente dell’influenza delle scuole sovietiche, anche se la vocazione socializzante di quelle italiane finirà per attenuare quella «durezza settaria» che caratterizzava lo svolgimento di alcuni – ma non tutti –­ corsi. La specificità della scuola comunista è stata non tanto quella di addestrare alunni che sarebbero diventati dirigenti nazionali, ma di migliaia di militanti che avevano così la possibilità di approfondire teoria e prassi in vista di un impegno futuro nei loro territori, fossero a capo di una sezione o di comune. Una vera scuola di vita, con insegnanti di prim’ordine: Togliatti, Longo, Chiarante, Berlinguer – che per un anno fu anche direttore – Napolitano, D’Alema, Ingrao, Macaluso, Violante, etc…

Un sistema lontano anni-luce dalle scuole politiche attuali, non tanto per la distanza temporale, quanto per una modalità irripetibile nella struttura residenziale, nel metodo e nei contenuti.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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