Tra sfide di Palazzo, giochi muscolari e protagonismi, prosegue il confronto interno alla maggioranza per l’approvazione del Recovery Plan. Una analisi critica dei suoi contenuti e della scarsa attenzione riservata alle Politiche attive del lavoro giovanile

Tra sfide di Palazzo, giochi muscolari e protagonismi, prosegue il confronto interno alla maggioranza per l’approvazione del Recovery Plan. E prosegue rapidamente, sulla base di linee guida ancora troppo generiche. In tempi concitati, si ascoltano richieste, si distribuiscono in tabelle gli intenti delineati dal governo. Un lavoro di estetica. E si ritoccano i numeri, un lavoro di limatura del “superfluo”.

È toccato anche alle politiche attive del lavoro giovanile: la prima bozza diffusa dal governo destinava a queste ultime 3,2 miliardi di euro. Briciole. Ma la situazione potrebbe peggiorare: la nuova bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza, infatti, prevederebbe 2,8 miliardi di euro destinati alle politiche attive del lavoro giovanile, su un totale di 196 miliardi.

Senza voler togliere importanza al tema della governance del Recovery plan, e senza voler insistere sulla tragicomicità della situazione, forse è giunto il momento di analizzare i contenuti del Recovery plan e la scarsa attenzione riservata alle Politiche attive del lavoro giovanile. Un veloce punto della situazione.

PREMESSA 1: IL RECOVERY PLAN ITALIANO È COSÌ PERCHÉ CE LO CHIEDE L’EUROPA?

In parte la scarsa attenzione alle politiche attive del lavoro giovanile del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) è dovuta alla strutturazione stessa del Recovery plan, questo è vero. Il Recovery and Resilience Facility, una delle misure più importanti del Next Generation Eu, metterà a disposizione di tutti i Paese membri 672,5 miliardi di euro di prestiti e sovvenzioni per sostenere le riforme predisposte dai singoli governi nazionali e sottoposte al vaglio della Commissione.

Le linee guida dello staff della Commissione prevedono almeno il 37% delle risorse per la cosiddetta rivoluzione verde e transizione ecologica. Per la spesa legata alla digitalizzazione, competitività e cultura, invece, viene richiesto «un livello minimo del 20%» sul totale delle risorse messe a disposizione.

L’Italia nella prima bozza rispetta le percentuali, che vengono anzi trattate in modo generoso: il 40,8% delle risorse andrebbe alla transizione green e il 23% alla digitalizzazione. Viene da sé che nella prima bozza il 64% delle risorse era già vincolato. La parte restante è stata distribuita tra gli altri obiettivi del Piano: infrastrutture per una mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, parità di genere, coesione sociale e territoriale e salute.

Nel Recovery plan, però, è prevista anche l’integrazione degli obiettivi con altre linee guida. Secondo quanto stabilito, ogni Stato dovrebbe anche rispettare gli obiettivi identificati dalle raccomandazioni Paese che Bruxelles invia tutti gli anni ai singoli Stati membri. Sorpresa: all’Italia viene ricordata, tra le altre cose, l’esigenza di prestare una maggiore attenzione alle politiche attive del lavoro giovanile.

Nel Documento di lavoro dei servizi della Commissione. Relazione per paese relativa all’Italia 2020, presentato il 26 febbraio 2020, si legge: «La disoccupazione giovanile continua a essere estremamente elevata e, inoltre, l’alta percentuale di lavoratori in part-time involontario e di lavoratori scoraggiati indica che le condizioni del mercato del lavoro restano deboli. Il rafforzamento delle politiche attive del mercato del lavoro è fondamentale per il successo delle riforme in questo ambito e del sistema di reddito minimo». Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano, come vedremo, c’è ben poco per rispondere a queste raccomandazioni.

PREMESSA 2: LO STRUMENTO ADEGUATO SARÀ IL REACT-EU?

A ogni modo, se il Recovery plan è uno strumento rivolto per lo più alle aziende per digitalizzazione e green economy, esiste un ulteriore strumento che dovrebbe prestare maggiore attenzione alla questione del mercato del lavoro: il React-Eu, un altro pacchetto del Next Generation Eu approvato in Parlamento Ue il 16 dicembre 2020. Ma anche in questo caso, al momento l’attenzione rivolta al mercato del lavoro giovanile sembra residuale, nonostante sia uno degli obiettivi principali del React-Eu (Assistenza alla Ripresa per la coesione e i territori d’Europa).

Il progetto metterebbe a disposizione di tutti i Paesi membri un totale di 47,5 miliardi di euro (37,5 miliardi nel 2021 e 10 miliardi nel 2022). L’Italia, prima beneficiaria del programma, riceverà 11,3 miliardi di euro nel 2021. Il riguardo per l’occupazione giovanile è nel Dna stesso del React-Eu, che specifica: i fondi finanzieranno progetti per «una ripresa verde, digitale e resiliente» e per «investimenti volti a risanare i mercati del lavoro – compresi i sussidi all’assunzione, i regimi di riduzione dell’orario lavorativo e le misure a favore dell’occupazione giovanile», soprattutto nelle regioni in maggiore difficoltà. Un’attenzione all’innovazione e un’attenzione al mercato del lavoro.

Per ora sembra che i fondi destinati all’Italia dal programma React-Eu verranno concentrati sul fondo centrale di garanzia, sulla fiscalità di vantaggio per le imprese nel Mezzogiorno, sulla cassa integrazione, istruzione e ricerca.

All’interno di questo quadro, solo 500 milioni di euro previsti nell’ambito di React-Eu saranno a disposizione del Fondo politiche attive per il lavoro e serviranno ‒ stando alla legge di Bilancio 2021 ‒ a sostenere una riforma degli ammortizzatori sociali e a creare nuovi posti di lavoro per i giovani. Eppure, in base a quanto riportato dal Sole 24 Ore, Bruxelles ha già espresso qualche «perplessità» per la fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno: gli sgravi contributivi assorbirebbero quasi il 70% dei fondi. Insomma, si attendono ulteriori dettagli a riguardo, ma anche per quanto riguarda il React-Eu, la situazione non si sta mettendo nel migliore dei modi.

LE (NON) PROPOSTE DELL’ITALIA

Tornando al Piano nazionale di ripresa e resilienza, si dirà: ok, le risorse stanziate sono relativamente esigue, ma l’importante è che siano stanziate bene. Ecco, altra nota dolente. Nella mezza pagina dedicata all’occupazione giovanile nella bozza di Recovery plan diffusa il 7 dicembre vengono delineate buone intenzioni, piuttosto che veri e propri progetti. E queste intenzioni, a ben vedere, non sembrano neanche così “buone”. Il primo punto alla voce Politiche attive del lavoro giovanile cita: «Un’azione specifica è rivolta a riformare le politiche attive e di formazione dei lavoratori, occupati e disoccupati. In particolare, queste azioni sono volte a favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, potenziando i centri per l’impiego e le attività di orientamento e formazione».

Insomma, altra formazione per i giovani e le giovani italiane, un altro generico potenziamento dei centri per l’impiego (il buco nero di ogni buon proposito, soprattutto se formulato in maniera così vaga).

Inoltre, sempre al primo punto, finalmente appare una proposta concreta: si incentiva l’assunzione dei giovani attraverso misure di decontribuzione per i datori di lavoro (finanziate in legge di Bilancio). Andiamo allora a leggere la bozza di legge di Bilancio. Stando all’ultima bozza diffusa (il piano definitivo è stato approvato alla Camera il 27 dicembre), al momento la legge prevede un bonus per le «assunzioni effettuate nel triennio 2021-2023»: verrà introdotto un esonero contributivo dei datori di lavoro pari al 100% applicabile per un periodo massimo di 36 mesi (48 mesi per le regioni del Mezzogiorno), e con un importo massimo pari a 6.000. L’esonero è disponibile solo per i datori di lavoro che assumeranno under 36. Fin qui tutto bene. Poi però: «La disposizione si applica anche ai datori di lavoro che assumono lavoratori con contratto di apprendistato». In realtà si tratterebbe di un’applicazione lecita, se inserita in un contesto lavorativo salubre.

Inserita in questo quadro, invece, sembra alimentare la convinzione illusoria che i contratti di apprendistato in Italia vengano usati realmente per stabilire forme contrattuali di formazione e integrazione al lavoro, la convinzione illusoria che non vengano usati come sostitutivi di veri e propri contratti a termine. Non spetta di certo alla manovra di Bilancio controllare e/o evitare adozioni illegittime di determinati contratti. Eppure, è obbligo di chi stila la manovra conoscere il tessuto sociale e lavorativo nel quale quei numeri vengono applicati. Gli altri punti del Recovery plan paiono confermare le impressioni: al mercato del lavoro giovanile viene destinato pochissimo, e neanche si centra il punto.

La seconda parte della mezza pagina del Recovery plan riservata ai giovani si sofferma sulla seconda misura: «Verrà potenziato il Servizio civile universale, al fine di incrementare la qualità dei progetti e il numero dei giovani coinvolti in attività che contribuiscono al miglioramento della coesione sociale del Paese».

Le politiche attive per il lavoro giovanile previste dal governo prevedono ‒ fa quasi sorridere ‒ un potenziamento del servizio civile. Ma non finisce qui, perché poi viene ribadito per l’ennesima volta: il piano prevede «il rafforzamento della rete territoriale dei servizi di istruzione, formazione, lavoro e inclusione sociale, la prosecuzione del processo nazionale di riforma delle politiche del lavoro, che include il rafforzamento dei servizi pubblici per l’impiego e l’implementazione del sistema informativo unitario delle politiche attive del lavoro». Insomma, probabilmente qualcosa cambierà nella prossima bozza diffusa (e forse in peggio, vista la riduzione delle risorse). Ma l’idea generale è di metter mano a un mercato del lavoro ridotto a brandelli, a garanzie contrattuali ormai inesistenti, a una generazione di stage, di finte partite Iva, a pile di contratti di prestazione occasionale attraverso altra formazione e il potenziamento del servizio civile.

Nel Paese che registra il 20,7% di Neet sul totale dei giovani, a fronte di una media europea dell’11,7%, si finge ancora di non notare un dato: l’incidenza dei Neet è del 23,4% tra i giovani con un titolo secondario superiore (diploma), ma del 19,5% tra coloro che possiedono un titolo terziario (laurea).

In Europa l’incidenza tra i laureati è del 9,0%. Non leggere al completo questi dati vuol dire riservare una cieca e pericolosa fiducia in una narrazione unilaterale del problema (che pure esiste), secondo cui i giovani italiani non lavorano perché non sono abbastanza formati e informati, perché qualcosa tra scuola e lavoro è andato perso. Eppure, a voler leggere la questione nel suo complesso, andrebbe aggiunta un’altra considerazione: molti giovani italiani sono già formati e informati. Il problema è che sono sottopagati. E offrire altro servizio civile a chi chiede un salario e un mercato del lavoro dignitoso equivale a sperperare quelle risorse che sono residue per volontà di altri (facciamo finta di sì, anche se non è così) e spese male per volontà italiana.

Ormai pare chiaro che i progetti presentati dal governo una cosa la dicono, in mezzo a tanta confusione: dei giovani italiani lo Stato non sa che farsene, non sa dove posizionarli, non sa come sfruttarne le energie e le competenze. Perché sapere come fare vorrebbe dire guardare in faccia la realtà: l’attuale condizione lavorativa dei giovani è il sintomo di un mercato del lavoro ormai al tracollo, che attraversa e attraverserà il futuro del Paese.

È una crisi sistemica, non generazionale. Il fatto che ricada su questa fascia d’età è solamente una casualità storica. Ma visto che ammetterlo vorrebbe dire considerare con serietà la tragicità della situazione, vorrebbe dire rivoltare i mali italiani e occidentali, si preferisce guardare solo un lato della medaglia: la disoccupazione aumenta per mancanza di formazione, non perché le prospettive occupazionali sono segnate da precarietà e demansionamento. Formatevi, allora, che andrà tutto bene.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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