Uno dei grandi errori, di analisi e di visione politica, commessi negli ultimi quaranta anni è stato quello di pensare che fosse possibile una società “non di mercato” pur facendo funzionare l’economia secondo meccanismi di mercato. E’ stato uno dei grandi errori alla base della deriva neoliberale della sinistra contemporanea, una deriva che l’ha portata – tra le altre cose – a sposare entusiasticamente il progetto dell’Unione Europea e i vari programmi di riforme strutturali realizzate a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. L’idea era che fosse possibile far funzionare l’economia secondo meccanismi di mercato, facendo sì che a indirizzare lo sforzo economico della società fossero il meccanismo di compravendita delle merci in vista del profitto e il sistema dei prezzi libero di fluttuare, pur mantenendo vivi e attivi, nel corpo sociale, principi etici e politici alternativi alla forma di mercato e alla logica socio-culturale ad esso intrinseca. Capitalismo e liberalismo economico, dunque, insieme alla democrazia sociale; Costituzione italiana e trattati europei, nell’armonia dell’economia sociale di mercato.

L’intenzione di questo articolo è di sfatare questo mito, sulla base dell’analisi della società di mercato compiuta da Karl Polanyi (1886-1964): un autore che si è occupato del meccanismo di funzionamento dell’economia di mercato e di come la nascita dell’istituzione del mercato abbia portato ad una ristrutturazione complessiva della società. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che accanto all’analisi della struttura della società di mercato esiste l’aspetto “ideologico” della questione, e cioè la diffusione nell’ultima metà di secolo di una nuova immagine del mondo che ha modificato in profondità la coscienza degli individui che abitano la società contemporanea, costituendo un  fortissimo fattore di giustificazione del sistema capitalistico neoliberale e fornendo un nuovo “filtro” ideologico che ha portato a interpretare sé, il mondo e le relazioni con gli altri sulla base di un tipo di razionalità di stampo “economico”. I concetti di imprenditoria di se stessi, di capitale umano e di applicazione del calcolo costi – benefici all’esistenza nella sua generalità sono soltanto alcuni dei contenuti di questa nuova immagine del mondo che è stata indagata da Luc Boltanski e Ève Chiapello nell’opera “Il nuovo spirito del capitalismo”.

La questione della società di mercato è stata indagata da Polanyi in tutta una serie di opere, su tutte “La sussistenza dell’uomo” e “Traffici e mercati negli antichi imperi” (che trattano di tematiche di antropologia economica) e “La grande trasformazione”, testo in cui l’autore ungherese tenta una ricostruzione storica della nascita del sistema capitalistico di mercato e del modo in cui tale sistema ha ristrutturato le fondamenta della civiltà umana.

L’opinione di Polanyi è che una società “non di mercato”, organizzata intorno ad un’economia di mercato, è impossibile. Attenzione: ciò non implica che in una società di mercato non possano esistere degli spazi occupati da altre logiche e altri principi, come ad esempio la cooperazione, la redistribuzione verticale o la solidarietà orizzontale, ma che questi spazi divengono estremamente ridotti e i soggetti che li popolano non sono in grado di influire sul meccanismo complessivo alla base della società: i principi alternativi resistono ai margini, senza la capacità di produrre effetti sociali e politici di rilievo; sussistono, in poche parole, come soggetti e principi incapaci di incidere sul meccanismo di funzionamento della società nel suo complesso.

Perché un’economia di mercato produce, inevitabilmente, una società di mercato? Polanyi, come Marx prima di lui, sostiene che l’economia sia fondamentale, in ogni gruppo umano o società che sia esistita nella storia. Si intende qui “economia” nel senso sostanziale di “processo istituzionalizzato di interazione tra uomo e ambiente finalizzato alla produzione delle condizioni materiali per sopravvivere e soddisfare bisogni e desideri”: un significato che Polanyi si premura di distinguere da quello “formale” alla base della teoria economica neoclassica, che riguarda la relazione tra mezzi e fini in un contesto di strutturale scarsità delle risorse (una scarsità che, occorre sempre ricordarlo, è frutto non tanto della quantità di risorse fisiche disponibili, ma dalla infinità potenziale di finalità che gli individui perseguono e a partire da cui si contendono i mezzi disponibili). Detto più semplicemente, l’economia è fondamentale dal momento che una società che non organizzi la produzione dei mezzi di sussistenza e di soddisfazione dei bisogni non è capace di riprodursi nel tempo: come scrive Marx, l’attività lavorativa non potrebbe essere interrotta senza danni irreparabili, si tratta di “una cosa che ogni bambino sa”. L’economia, tuttavia, è “fondamentale” non solo in questo senso di funzione di riproduzione biologica e sociale, ma anche in quello (che è qui ciò che interessa) per cui il funzionamento del sistema sociale nel suo complesso deve, se non rispecchiare, quantomeno non contraddire l’organizzazione dell’economia e cioè dell’attività di produzione dei mezzi di sussistenza e soddisfazione dei bisogni. L’attività economica, dunque, non è che un aspetto della totalità sociale: l’aspetto determinante, tuttavia, che richiede la coerenza del sistema sociale complessivo rispetto ai propri meccanismi di funzionamento.

Che il processo economico sia “istituzionalizzato” significa che è organizzato socialmente; Polanyi ha individuato, nella storia della civiltà umana, tre “forme di integrazione”, e cioè di organizzazione sociale, del processo economico: reciprocità, redistribuzione, scambio. La reciprocità consiste in un sistema di prestazioni bilaterali che avviene in contesti istituzionali simmetrici (semplificando al massimo: un villaggio sulla costa dà del pesce ad un villaggio nell’entroterra, che in cambio fornisce legname e selvaggina, secondo modalità rituali ben definite); la redistribuzione consiste in un movimento di beni dalla periferia ad un centro, e poi di nuovo alla periferia sulla base di un principio di distribuzione “sovrano”, e cioè stabilito da un’autorità centrale dotata di autorità politica; lo scambio, invece, è un movimento di beni tra due entità che si incontrano in modo contingente in un mercato e scambiano beni sulla base di equivalenze, che possono essere fisse e prestabilite oppure trovare il loro valore sulla base di dinamiche di offerta e domanda. Le forme della reciprocità e della redistribuzione sono dominanti in società in cui i rapporti economici sono “incorporati” nei rapporti politici e sociali (il che, tradotto più semplicemente, significa: l’attività economica avviene sulla base di disposizioni dell’autorità pubblica, di usi e costumi tradizionali, di prescrizioni religiose, di valori morali come l’onore e la dedizione al bene della comunità, e così via); lo scambio, invece, apre la via ad una forma di integrazione dell’economia in cui i rapporti economici e l’attività produttiva sono “scorporati” dai rapporti sociali, dalle disposizioni dell’autorità sovrana, dagli usi e dalle tradizioni, dalle credenze religiose e dai sistemi etici.

Polanyi sostiene che l’esistenza di scambi economici non equivale all’esistenza di un’economia di mercato: nella storia umana, anche in presenza di scambi economici, questi scambi sono avvenuti in mercati in cui i tassi di scambio erano indefiniti o prestabiliti e dunque precedenti allo scambio stesso: ciò che contraddistingue l’economia di mercato è il fatto che i tassi di scambio sono fluttuanti e derivano dal sistema dei prezzi libero di riconfigurarsi sulla base delle mutate condizioni di domanda e offerta. A caratterizzare la società capitalistica di mercato, nata tra la fine del Diciottesimo e l’inizio del Diciannovesimo secolo, è dunque l’autonomizzazione dell’attività economica che si verifica come conseguenza di due fattori: il fatto che ad indirizzare l’attività economica non sono più valori “non economici” bensì il sistema dei prezzi, e il fatto che questo modello istituzionale è alimentato dalla (e messo al servizio di) razionalità capitalistica della valorizzazione del capitale. Si può, all’interno di questo ragionamento, soltanto accennare ad un altro aspetto della questione: il fatto che, nella tradizione liberale, questa forma di organizzazione dell’economia è stata presentata come la migliore forma istituzionale per stimolare l’intraprendenza e la creatività umana, spinte da quel motivo (presuntamente) universale che è la ricerca del guadagno e che è diventato il principio fondamentale della società capitalistica.

La caratteristica fondamentale della società di mercato, dunque, consiste nel fatto che lo sforzo economico della società è diretto da un meccanismo cieco e impersonale, il sistema dei prezzi libero di fluttuare: un sistema istituzionale che, secondo la teoria liberale, garantisce le condizioni strutturali della pluralità dei fini, dell’apertura delle posizioni sociali e delle libere opportunità universali che caratterizza la società moderna. Se il capitalismo (e cioè l’organizzazione della produzione economica in funzione della valorizzazione del capitale a disposizione) sia inscindibile da questa forma di organizzazione dell’economia, è una questione aperta: la certezza è che, storicamente, l’economia di mercato si è affermata in concomitanza col capitalismo, e dunque nell’ottica di Polanyi la società di mercato storicamente realizzatasi è una società di mercato capitalistica.

Dal momento che l’economia è la struttura fondamentale che deve essere “accompagnata” (o quantomeno non contraddetta) dagli altri aspetti della società, nel momento in cui l’attività economica viene organizzata secondo il modello istituzionale del mercato (insieme di mercati, in cui i fattori di produzione e i beni sono scambiati come merci sulla base di prezzi definiti da un sistema libero di fluttuare) ne consegue che la società non può che assumere a sua volta una forma di mercato anche in tutti quegli aspetti che non sono “economici” in senso stretto: dall’attività intellettuale alle forme culturali in generale, dalla struttura delle classi sociali alle modalità educative ai rapporti umani. Se questo non avvenisse, se il funzionamento “di mercato” dell’economia non fosse accompagnato da forme etiche, sociali e politiche coerenti col meccanismo di mercato, il motore della società sarebbe ingolfato e le contraddizioni finirebbero per portare la totalità sociale al collasso. Al riguardo conviene dare la parola direttamente a Polanyi, che nel passo qui riportato descrive il processo di formazione della società capitalistica tra Diciottesimo e Diciannovesimo secolo:

“[La struttura di mercato] rappresentava una violenta rottura con le condizioni precedenti. I mercati isolati, scarsamente diffusi, di un tempo, ora si trasmutarono in un sistema autoregolato di mercati. Il passo cruciale fu costituito dalla trasformazione del lavoro e della terra in merci; ossia, essi furono trattati come se fossero stati prodotti per essere venduti. Naturalmente essi non erano propriamente merci, poiché non erano affatto prodotti (come la terra), oppure lo erano ma non a scopo di vendita (come il lavoro). Eppure non fu mai escogitata finzione più efficace. Poiché il lavoro e la terra erano acquistati e venduti liberamente, furono inseriti nel meccanismo del mercato. Ora vi era un’offerta e una domanda di lavoro, e un’offerta e una domanda di terra. Di conseguenza, vi era un prezzo di mercato, detto salario, per l’uso della forza lavoro, e un prezzo di mercato, detto affitto, per l’uso della terra. Il lavoro e la terra disponevano di propri mercati, simili a quelli delle merci vere e proprie prodotte con il loro ausilio.

La vera portata di un passo del genere può essere valutata se teniamo presente che “lavoro” e “terra” non sono che modi alternativi di definire, rispettivamente, l’uomo e la natura. La finzione della merce affidò il destino dell’uomo e della natura al giuoco di un automa che si muoveva nelle sue guide ed era governato dalle sue leggi. Questo strumento di benessere materiale era controllato esclusivamente dagli incentivi della fame e del guadagno; o, per l’esattezza, dal timore di rimanere senza mezzi di sussistenza o dall’aspettativa del profitto. Fintantoché nessun individuo privo di proprietà poteva soddisfare il suo bisogno di cibo senza aver prima venduto il suo lavoro sul mercato, e fintantoché non si poteva impedire ad alcuna persona dotata di proprietà di acquistare nei mercati meno cari e di vendere in quelli più cari, quella sorta di cieca macina avrebbe continuato a sfornare quantità sempre maggiori di merci a vantaggio della razza umana. La paura della fame per il lavoratore, l’allettamento del profitto per il datore di lavoro, avrebbero mantenuto in moto quel vasto meccanismo.

Una pratica utilitaristica imposta in quel modo all’uomo occidentale ne alterò fatalmente la comprensione di se stesso e della sua società. […] Quanto alla società, fu propugnata la dottrina affine che le sue istituzioni erano “determinate” dal sistema economico. Perciò il meccanismo di mercato indusse erroneamente a credere che il determinismo economico fosse una legge generale valida per tutta l’umanità. Naturalmente in un’economia di mercato quella legge è valida. Qui infatti il funzionamento del sistema economico non soltanto influenza il resto della società, ma lo determina, così come in un triangolo i lati non soltanto influenzano gli angoli, ma li determinano.

Nella stratificazione delle classi, l’offerta e la domanda sul mercato del lavoro erano identiche alle classi dei lavoratori e dei datori di lavoro, rispettivamente. Le classi sociali dei capitalisti, dei proprietari terrieri, degli affittuari, degli intermediari, dei mercanti, dei professionisti, e così via, erano delimitate dai rispettivi mercati della terra, del denaro, del capitale e dei loro impieghi, o dai mercati dei vari servizi. Il reddito di queste classi sociali era determinato dal mercato; il loro rango e la loro posizione, dal loro reddito.

Mentre le classi sociali erano determinate dal meccanismo di mercato in modo diretto, altre istituzioni lo erano in modo indiretto. Lo stato e il governo, il matrimonio e la cura della prole, l’organizzazione della scienza e dell’istruzione, della religione e delle arti, la scelta della professione, le forme di abitazione, la configurazione degli insediamenti, la stessa estetica della vita privata, tutto doveva conformarsi allo schema utilitaristico, o almeno non interferire con il funzionamento del meccanismo di mercato. Ma poiché pochissime attività umane possono essere svolte nel vuoto (perfino un santo stilita ha bisogno della sua colonna), gli effetti indiretti del sistema di mercato finirono praticamente con il determinare l’intera società. Fu quasi impossibile evitare l’erronea conclusione che, proprio come l’uomo “economico” era quello “reale”, così il sistema economico era “realmente” la società.” (“La sussistenza dell’uomo”, pp. 33-36)

Polanyi analizzava la nascita della società capitalistica di mercato, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, ma le sue considerazioni sono ancora oggi validissime: a maggior ragione in una società, come quella odierna, in cui l’istituzione del libero mercato è tornata ad essere il fulcro del funzionamento dell’economia, dei rapporti sociali e delle istituzioni politiche. A contraddistinguere il neoliberalismo è proprio l’estensione della razionalità economica in ambiti e settori dell’esistenza individuale e collettiva che precedentemente erano regolate da altri principi, nonché la riforma del sistema sociale e politico sulla base dei meccanismi concorrenziali: abitiamo un’epoca animata dal principio del mercato, che ha strabordato dagli argini dell’economia ed ha riscritto l’intera esistenza umana. Se si tiene conto della riflessione polanyiana, non si tratta di un caso, ma di una necessità interna, di una coerenza sistemica. L’idea che fosse possibile mantenere in vita una società “non di mercato” al di sopra di un’economia di mercato si è rivelata fallimentare, e persino controproducente: ha infatti indebolito la resistenza ideologica e politica di fronte all’estensione dei processi di mercificazione dell’esistenza umana, spianando la strada ai processi neoliberali. In futuro, nell’ottica della ricostruzione della sovranità democratica, sarà indispensabile riflettere sui meccanismi di coerenza interna dei sistemi sociali, ripensando dalle fondamenta i principi posti alla base dell’organizzazione dell’economia

Niccolò Biondi

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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