Riceviamo e pubblichiamo

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E’ il 1992. Sull’onda indipendentista sollevata dalla morte del maresciallo Tito, anche la Bosnia dichiara l’indipendenza secondo l’esito del referendum approvato dai bosgnacchi e dai croati, boicottato dai serbo-bosniaci. E’ la miccia che accende il conflitto. Alla base, non il tribalismo etnico cui venne imputato e che è diventato un luogo comune, ma gli interessi degli stati europei.

Occorreva mettere un freno alla locomotiva dell’economia tedesca, cui si era aperta la possibilità di correre in direzione sud-est. Francia, Gran Bretagna, d’accordo con la Russia, mantennero un silenzio simile all’assenso mentre Slobodan Milosevic forniva sostegno militare ai Serbi di Croazia e di Bosnia. Del tutto palesemente, il ministro inglese Douglas Hurd sostenne il diniego delle armi ai bosgnacchi – i bosniaci musulmani – e il divieto di ritorsioni aeree della Nato sulle milizie serbe per “non prolungare i combattimenti”. Quanto vi fosse  di islamofobia, già al tempo, ancora non è stato indagato ma, scrive Limes, “I bosgnacchi erano molto meno armati e coesi dei due nemici, ma soprattutto avevano le spalle molto meno coperte. Croati e Serbi erano facilmente identificabili: cattolici e tendenzialmente filoccidentali i primi, ortodossi e più rivolti a Est i secondi. Pur essendo musulmani perlopiù di cultura e non tanto per devozione, i bosgnacchi scontavano la radicata diffidenza verso l’Islam diffusa presso èlite e opinioni pubbliche europee, non trovando tra gli Stati principali nessuno veramente disposto a prenderne le difese.”
Nei Balcani affluirono allora combattenti esogeni, se in Bosnia soprattutto da paesi musulmani, sul teatro dei conflitti divenne noto anche un italiano Roberto delle Fave, il Diavolo Rosso, che ha lasciato nelle sue memorie “Credevo di far fare un’uscita in grande di 7000 profughi croati …non ne abbiamo fatti uscire nemmeno una quarantina. Le intese non contano nulla nei conflitti “sporchi” e quel tunnel della salvezza mancata servì poi per nascondere terroristi internazionali, per fare entrare in città armi, ragazze e bambini da vendere o da violentare.”

§ In “Maschere per un massacro”, Paolo Rumiz scrive della genesi del conflitto. I preparativi del conflitto bosniaco erano avvenuti alla luce del sole, ma quasi nessuno prestò attenzione. “La velocità impressionante della pulizia etnica fu resa possibile non solo dalla sua lunga meticolosa preparazione, ma anche da questa incredulità delle vittime e della gente in generale”. A Srebrenica, continua Rumiz “l’orrore si compie nei giorni tra l’11 e il 15 luglio del 1995, mentre l’Europa va al mare. Dopo la resa dell’enclave bosniaca 8000 maschi musulmani vengono rastrellati, massacrati dalle truppe speciali del serbo Ratko Mladić e buttati in fosse comuni.  È il più spaventoso massacro in Europa dopo il 1945, ma l’Europa ci metterà mesi a venirne a conoscenza. I superstiti raccontano, i controspionaggi sanno, i satelliti spia fotografano, ma i rapporti sulla strage dormiranno fino a settembre e oltre nel cassetti delle cancellerie.”
Un filmato inchioda il continente europeo alla vergogna. Mostra il generale francese Philippe Morillon, capo dei caschi blu, mentre promette ai bosgnacchi: “tranquilli, sarete protetti“, ma quando l’11 luglio le milizie serbe occupano l’enclave di Srebrenica e la popolazione, conscia del destino che si prepara, fugge fiduciosamente verso la base Onu, i soldati non fanno nulla. Non hanno l’autorizzazione di sparare per difenderli, la Nato non ordina un  bombardamento dissuasivo, il comando è: consegnateli ai Serbi.

§ Il terrore dei bosgnacchi è nelle parole di una sopravvissuta   E’ la storia di Fadila: “Invece di un rifugio, la base Onu era una scena d’inferno, Io e mia figlia siamo rimaste alla base Onu due giorni e due notti senza cibo né acqua. Non avevo fame, solo freddo, eppure era luglio, ci saranno stati trenta gradi. Ma io sentivo freddo, gelavo. Era la paura. Stavamo guardando la morte negli occhi, aspettando che ci venissero a prendere per ucciderci. Parlavi con qualcuno e un attimo dopo era scomparso. Dove era finito? Era terribile, tutti per terra: vecchi, donne, bambini. I bambini morivano o piangevano di continuo.  In un angolo una donna partoriva, sentivo il bambino piangere, poi più nulla, non si capiva se era vivo o morto, un’altra aveva partorito due giorni prima e implorava latte o zucchero per il bambino. In un altro angolo una donna moriva, non ammazzata ma di paura e per paura un’altra si è impiccata. Era il caos totale.”

§ L’impotenza e incredulità dei caschi blu nel dover consegnare alle milizie serbe i bosgnacchi L’intervista a Boudewijn Kok “Non passa giorno senza che io non ci pensi. Mi basta chiudere gli occhi e ho di nuovo tutto davanti. Rivedo quelle persone, sento l’odore dei morti. Eravamo prostrati, non avevamo nemmeno cibo, ero dimagrito dieci chili in poche settimane, passavo le giornate a vedere i musulmani che si impiccavano nelle proprie case. Per molti era preferibile morire piuttosto che finire nelle mani dei Serbi. Sono tornato in Bosnia oltre 20 volte da allora. Ho bisogno di andarci perché li ho perso l’uomo che ero e che non sono più stato. Appena tornato in Olanda dopo il genocidio ho lasciato l’esercito. Non riuscivo più a tenere in mano un’arma. Ho  iniziato una terapia che è durata qualche anno, ma per diversi di noi non c’è stata soluzione. Circa una decina di ex Caschi Blu si sono suicidati per smettere definitivamente di pensare. Io soffro ancora di disturbi post-traumatici, ma almeno ho trovato il mio equilibrio. La vera responsabilità è delle Nazioni Unite. Abbiamo chiesto e richiesto aiuto, munizioni, rinforzi. Non c’è mai arrivato nulla. Quell’operazione è stata un totale fallimento, certo. Cosa credi, che non abbiamo sparato? Abbiamo sparato. Ma nelle nostre pistole avevamo dieci proiettili in tutto contro un esercito forte di migliaia di uomini ben equipaggiati. Se ci fossimo ribellati, se ne avessimo uccisi, poi i Serbi non avrebbero certo risparmiato le vite di 8000 musulmani. Semplicemente, avrebbero sacrificato anche le nostre”.

§ Nel versante degli assassini di Srebrenica, Dražen Erdemović, fu uno di quelli  che non perse del tutto contatto con la facoltà del sentire. Letterariamente raccontato da Marco Magini in “Come se fossi solo” il suo è un caso di arruolato nell’esercito della repubblica serba di Bosnia non per convinzione, ma per istinto di sopravvivenza. Unico fra tutti gli altri che negarono e rimasero liberi, si dichiarò colpevole, prontamente condannato per partecipazione forzata, condannato a 10 anni, poi ridotti a 5.  (*)
“Ormai sono in trance, la mente anestetizzata mentre i corpi accatastati uno sopra l’altro cominciano a puzzare diventando pranzo di mosche e tafani. Continuano arrivare pullman pieni di uomini bendati. Nessuno di noi parla più, anche le reclute paiono stanche,  proseguiamo con il lavoro in maniera meccanica come se uccidere fosse per noi una routine. Preferisco quelli che muoiono all’istante, che scivolano al suolo come se qualcuno avesse staccato loro la spina. Mentre cerco di non ascoltare quelli che rimangono a terra feriti, non voglio vedere le loro lacrime, non voglio sentire i loro lamenti. Mi abituo al suono del mitra, cerco di tenermelo in testa, copre qualsiasi rumore e allontana i miei dubbi. Per fortuna mi hanno risparmiato il ruolo di finire i feriti: alle preghiere agli insulti ai pianti e alle maledizioni riesco abituarmi, ma non è il fatto di sopprimere un uomo ferito sparandogli a bruciapelo come se fosse un cane… Mi tengo in disparte in silenzio, continuo a bere. Quanti abitanti ha Srebrenica? I pullman continuano arrivare mentre noi eseguiamo quello che ormai è diventato un rituale di morte sempre uguale. Mi pulisco la fronte con la manica della camicia zuppa di sudore. Mi faccio schifo. Sono come loro [ndr i Serbi per odio contro i musulmani] perché continuo rimanere cosciente di quello che stiamo compiendo, ma non riesco a sottrarmi all’orrore.” 

(*) Il mandante e responsabile in capo del genocidio, l’ex generale Ratko Mladić, soprannominato “il boia di Srebrenica, dopo anni in libertà, in parte in incognito, in parte indisturbata,  solo nel 2017 è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aia.

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Di AFV

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