A demonstrators poses with a Palestinian flag outside the International Criminal Court, ICC, during rally urging the court to prosecute Israel's army for war crimes in The Hague, Netherlands, Friday, Nov. 29, 2019. The ICC prosecutor was directed to reconsider her decision to not pursue charges in the Gaza Freedom Flotilla case. (AP Photo/Peter Dejong)

  Mario Lombardo 

Il Tribunale Penale Internazionale (ICC) ha emesso lo scorso fine settimana un’importante sentenza contro Israele che ha subito costretto il governo di Tel Aviv a mobilitarsi diplomaticamente per limitarne le conseguenze pratiche e, soprattutto, simboliche. La decisione presa a L’Aia ratifica in sostanza la conclusione raggiunta nel dicembre 2019 dalla procuratrice dell’ICC, Fatou Bensouda, secondo la quale era emersa una “ragione plausibile” per aprire un’indagine sui crimini di guerra di Israele, in relazione sia alle proprie operazioni militari sia agli insediamenti nei territori palestinesi.

Per il momento si tratta di una sentenza preliminare che non garantisce un’incriminazione formale. L’Ufficio del Procuratore ha infatti ottenuto soltanto la conferma della legittimità a indagare, visto che aveva ritenuto necessario dirimere le complicazioni legate alle questioni territoriali in Palestina. A decidere l’eventuale avvio del procedimento sarà la stessa Bensouda, che abbandonerà il suo incarico di qui a qualche mese. Le pressioni a cui sarà sottoposta sono facilmente immaginabili e non è perciò da escludere che possa lasciare una decisione definitiva al suo successore.

Per conoscere i prossimi sviluppi della vicenda potrebbero dunque volerci mesi o anni, anche per via della consueta lentezza con cui si muove la giustizia internazionale. Le implicazioni per Israele e i palestinesi sono tuttavia già evidenti, anche se sul lato pratico i possibili vantaggi per questi ultimi saranno tutt’al più modesti o comunque da valutare sul medio-lungo periodo.

Il verdetto di venerdì scorso ha origine nella nuova strategia attuata dai leader palestinesi alcuni anni fa dopo il naufragio del cosiddetto “processo di pace” con Israele per cercare di arrivare alla creazione di un proprio stato. La strada scelta era stata quella di entrare negli organi internazionali per fare pressioni dall’interno a favore della propria causa e ottenere concessioni dallo stato ebraico. Nel 2012 la Palestina era stata così accettata come “stato osservatore non membro” dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e, da qui, era poi seguita la partecipazione a svariate organizzazioni, tra cui appunto il Tribunale Penale Internazionale nel 2015.

In quanto membri dell’ICC, i palestinesi avevano intentato una causa contro Israele per le pratiche militari criminali a Gaza e per quelle relative alla costruzione di insediamenti nei territori occupati in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. L’indagine risale fino alla brutale aggressione contro Gaza durata 50 giorni nell’estate del 2014 e include anche la sanguinosa repressione delle proteste palestinesi lungo il confine con Israele nel 2018.

Per quanto riguarda la guerra, Israele ha sempre sostenuto di avere agito per “auto-difesa”, ma furono ampiamente documentati gli assassinii mirati e i bombardamenti indiscriminati contro obiettivi civili. Alla fine, i palestinesi uccisi furono più di 2.200, tra cui circa 1.500 civili propriamente detti, contro 73 morti (6 civili) da parte israeliana. In merito a questi fatti, anche se di gran lunga sufficienti ad assicurare una condanna per crimini di guerra, molti osservatori ritengono che, se mai si tenesse un processo, potrebbe essere difficile provare la colpevolezza di Israele.

Il governo di Tel Aviv e i vertici militari affermano di avere soltanto preso iniziative per rispondere ai ripetuti bombardamenti di Hamas e di altre organizzazioni armate palestinesi. I media ufficiali di mezzo mondo e praticamente tutti i governi occidentali avevano poi a loro volta appoggiato questa tesi. Inoltre, Israele potrebbe evitare questa incriminazione organizzando qualche processo e distribuendo ai militari una manciata di condanne anche per crimini minori, come fece la Gran Bretagna per le proprie truppe in Iraq. Come prevedono le norme relative alla giurisdizione dell’ICC, infatti, un processo internazionale è possibile solo se la giustizia di un paese non è stata in grado di agire per indagare e punire determinati crimini.

Un discorso del tutto diverso va fatto invece per gli insediamenti illegali. In questo caso, la condotta di Israele è indifendibile da tutti i punti di vista, tanto che anche gli Stati Uniti, almeno a livello ufficiale, considerano illegittime le operazioni nei territori occupati. Al di là di quanto sostiene Tel Aviv, il trasferimento con la forza di una popolazione da un territorio occupato è bandito dal diritto internazionale. La Convenzione di Ginevra e lo stesso Statuto di Roma, cioè il trattato che ha fatto nascere il Tribunale Penale Internazionale, lo considerano come un crimine di guerra. Ad oggi, circa 700 mila coloni israeliani vivono illegalmente negli insediamenti costruiti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

Soprattutto grazie alla strenua protezione americana, è ad ogni modo improbabile che Israele e i responsabili dei numerosi crimini commessi contro i palestinesi possano essere oggetto di provvedimenti punitivi concreti. C’è però più di una preoccupazione a Tel Aviv se non altro per i contraccolpi in termini di immagine che anche solo un’incriminazione a L’Aia potrebbe causare. Da considerare c’è poi la possibilità remota, sia pure non del tutto da escludere, di assistere a possibili arresti di politici o militari israeliani bersaglio di mandati di cattura internazionali nel momento in cui mettessero piede in un paese disposto ad attuare un ordine del Tribunale Internazionale. Questi timori, come ha spiegato un’analisi del quotidiano Haaretz, potrebbero riguardare in particolare quegli ex politici o alti ufficiali delle forze armate israeliane diventati imprenditori o consulenti nell’ambito della “sicurezza” e non solo che negli ultimi anni hanno costruito rapporti lucrosi con svariati paesi e governi stranieri.

Resta il fatto che il ministero degli Esteri del gabinetto Netanyahu, subito dopo la decisione dell’ICC, ha inviato una comunicazione riservata a tutti i propri ambasciatori, sollecitandoli ad adoperarsi con i governi dei paesi in cui operano per prendere posizione contro la procuratrice Bensouda. L’iniziativa è stata rivelata dal sito di news Axios e nella lettera agli ambasciatori si legge l’invito da rivolgere ai vari paesi a “inviare messaggi discreti alla procuratrice per chiederle di non procedere con l’indagine contro Israele” e per “non dare al caso una priorità elevata”.

La parte più ipocrita della direttiva riguarda le possibili ripercussioni dell’incriminazione sulla situazione dei palestinesi. Il governo Netanyahu intende informare la comunità internazionale che un’indagine contro Israele “perpetuerebbe la crisi [dei rapporti] con l’Autorità Palestinese”, impedendo “qualsiasi progresso diplomatico tra le due parti”. Dopo avere cioè affossato ogni possibilità di negoziato con la Palestina, agendo regolarmente in violazione del diritto internazionale, Israele sostiene che una legittima inchiesta sui propri crimini rappresenterebbe la fine di un processo di pace già da tempo morto e sepolto.

Il livello di disperazione di Israele è evidente anche nel ricorso alla solita ridicola accusa di anti-semitismo, questa volta indirizzata anche al Tribunale Internazionale, colpevole oltretutto di non muovere un dito contro “brutali dittature” come Iran e Siria. L’infondatezza delle accuse di Israele si evince tra l’altro dal fatto che il procedimento in fase di valutazione da parte della procuratrice Bensouda include anche i possibili crimini di guerra commessi da Hamas e dall’Autorità Palestinese nel quadro della guerra a Gaza, per il primo caso, e in riferimento alle accuse di detenzione arbitraria e torture ai danni di fazioni rivali per il secondo.

Per Netanyahu si tratta anche di evitare un nuovo motivo di imbarazzo in un momento delicatissimo per la sua sopravvivenza politica. Il 23 marzo si terranno ancora una volta elezioni anticipate in Israele, segnate da un’accesissima competizione a destra, mentre proprio lunedì sono riprese le udienze del processo a suo carico per vari episodi di corruzione dopo il rinvio dovuto alla pandemia in atto.

In difesa di Israele si è intanto mossa l’amministrazione Biden. Il portavoce del dipartimento di Stato americano ha rilevato in particolare quella che ritiene essere l’illegittimità dell’ICC nei confronti di Israele, visto che questo paese è uno dei pochi a non riconoscerlo, proprio come gli Stati Uniti. Il fatto che Washington e Tel Aviv non siano parte del Tribunale con sede in Olanda è tutt’altro che casuale, poiché i due paesi sono i responsabili dei più gravi crimini commessi da un’entità statale dal dopoguerra a oggi.

La copertura americana permette in ogni caso a Israele di avere ottime probabilità di sottrarsi a una condanna e, molto probabilmente, anche a un procedimento formale per i crimini contro i palestinesi. Per qualcuno, tuttavia, anche la sola minaccia di una sentenza di questo genere potrebbe quanto meno limitare in futuro la creazione di nuovi insediamenti. Ancora una volta, l’appoggio di fatto incondizionato di Washington rende questa ipotesi probabilmente troppo ottimistica.

Altrettanto possibile ma con conseguenze concrete tutte da valutare è il riconoscimento indiretto delle aspirazioni territoriali palestinesi fatto dall’ICC. Sia pure limitando il proprio parere all’aspetto giudiziario, il Tribunale ha cioè stabilito la legittimità della sovranità palestinese su Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, includendo perciò anche quei territori che Israele ritiene “contesi” e fissando potenzialmente un paletto importante per una futura, anche se al momento illusoria, soluzione al nodo dello stato di Palestina

https://www.altrenotizie.org/primo-piano/9172-israele-criminali-alla-corte-penale.html

Di Red

„Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d'inventare l'avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l'avvenire.“ — Thomas Sankara

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