Se n’è andato il giorno dopo l’inizio della primavera, Sante Notarnicola. Aveva compiuto nello scorso mese di dicembre 82 anni. Di recente si era ammalato di Covid. Era guarito ma ne era uscito acciaccato, prima che un’infezione lo portasse via.

La vita del bandito Notarnicola è un impressionante affresco del Novecento, uno spaccato dei suoi conflitti e un esempio, controverso quanto si vuole eppure cristallino, di come anche nei momenti più bui, dentro una cella umida in mezzo al niente di un carcere speciale, grazie al fatto di sentirsi comunisti ci si possa immaginare come parte del motore della storia.

Era nato nel 1938 a Castellaneta, in provincia di Taranto. Da lì, dopo anni in un orfanotrofio, a 13 anni era riuscito a raggiungere sua madre a Torino. Gli anni Cinquanta nelle città operaie, soprattutto Torino e Milano, sono anni di passaggio. La base comunista, come racconterà Primo Moroni ricostruendo quella composizione di classe , non ha ancora smesso di attendere l’ora X. Nelle intercapedini delle fabbriche che erano state occupate alla fine del fascismo sono nascosti piccoli arsenali: intemperanze che il Pci togliattiano tollera appena confidando nella lenta evoluzione del suo popolo verso la lotta democratica. In questo clima, dieci anni prima del Sessantotto e molto prima che nascessero le formazioni armate, Sante Notarnicola si unisce a Pietro Cavallero. Rapinano banche e gioiellerie, dirà in seguito, «per raccogliere denaro a favore dei movimenti di liberazione nei paesi coloniali» e «mettere in risalto l’inefficienza della polizia, ridicolizzarla».

Le azioni della banda finiscono tragicamente nel ’67, con il colpo al Banco di Napoli di Largo Zandonai, a Milano, che culmina con un inseguimento della polizia e una sparatoria tra la folla al termine del quale rimangono uccise tre persone. Notarnicola viene arrestato e condannato all’ergastolo e qui comincia la sua terza vita, dopo quella di bambino del sud e bandito metropolitano. Conosce il carcere e vive da dietro le sbarre le trasformazioni sociali di quegli anni. Dalle galere quasi medioevali in cui finiscono soprattutto i soggetti dimenticati dalla modernizzazione, i figli di un’Italia contadina che subisce arretratezza o mutamenti vertiginosi, assiste allo scoppio dei movimenti e conosce i primi detenuti che si dichiarano prigionieri politici. Non è organico a nessuna formazione, ma è rispettato e ha un ruolo nelle lotte e nelle rivolte dei dannati della terra. In una lettera a Lotta Continua fa un bilancio (autocritico) della sua esperienza ma afferma: «Posso riprendermi anche nel luogo in cui meno credevo fosse possibile mantenere una linea rivoluzionaria, il carcere. Ho scoperto quanto ci sia da fare anche in questo luogo per un comunista. Questo è il mio impegno verso la mia vecchia classe: vivere in carcere da comunista, perché per me non vi è altro modo di sentirsi uomini che essere comunista». Nel 1972 Feltrinelli pubblica L’Evasione impossibile, il libro (poi ristampato da Odradek) in cui Sante ripercorre la sua storia e lancia un gancio ai movimenti della sinistra rivoluzionaria.

Racconta che quando gli agenti penitenziari gli comunicano che gli è consentito di tenere soltanto un volume in cella lui sceglie di conservare il dizionario della lingua italiana. Si aggrappa alle parole, le cesella, gli dà peso e infonde forza come solo i poeti riescono a fare. Anni dopo, invia a Primo Levi una sua raccolta di componimenti. L’autore di Se questo è un uomo gli scrive una lettera. Gli contesta l’equiparazione tra carcere e lager («Solo ad Auschwitz morivano 10mila persone al giorno», sottolinea) ma gli riconosce la patente di poeta. «Le tue poesie sono belle, quasi tutte – scrive Levi – alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che nel loro insieme costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè che è poeta solo chi ha sofferto o soffre e che per ciò la poesia costa cara». Levi considera «memorabile», «miracolosa per concisione e intensità» la poesia che si intitola Posto di guardia. Eccola: «Il guardiano più giovane/ ha preso posto/ davanti alla mia cella./ ‘Dietro quel muro – mi ha/ indicato – il mare è azzurrissimo’./ Per farmi morire un poco/ il guardiano più giovane,/ mi ha detto questo».

Il carteggio con Primo Levi risale al 1979, l’anno prima Sante era finito in cima alla lista dei possibili detenuti politici da liberare per ottenere la liberazione di Aldo Moro. Come è noto non se ne fece nulla e lui continuò assieme ad altri la peregrinazione lungo il Circuito dei Camosci, la rete delle carceri speciali nei quali venne rinchiuso un pezzo della generazione successiva alla sua.


Il suo destino doveva essere ancora quello di fare da ponte, di scolpire la parola a caro prezzo e consegnarla ad altre generazioni. Pur essendo un personaggio che nulla ha fatto per rendersi compatibile, per rinnegare la sua storia, incrocia la cultura popolare, che nasce dal basso ma arriva anche al grande pubblico. Quando finiscono gli anni Ottanta, Onda Rossa Posse pubblica Batti il tuo tempo, il primo album rap italiano che segna l’uscita dal ghetto dei centri sociali. Militant A, animatore della posse, scova un componimento di Sante sulle pagine di Politica e Classe, una delle riviste che in quegli anni erano pensate per costruire sbocchi politici ai reduci delle sconfitte degli anni Settanta. Il brano diventa una canzone, Omaggio a Sante, che racconta il momento in cui dopo 21 anni esce di galera: è in semilibertà, ma si impegna a non dimenticare chi è rimasto dentro: «Questi miei compagni vanno amati/ giovani generosi/ questi compagni vanno amati rispettati/ liberati».

Nel 1991 i Gang registrano Le radici e le ali, il disco con il quale fondono le radici combat rock e la canzone popolare italiana. Contiene una canzone che resterà appiccicata adosso alla band e che ripropone per immagini, lungo un arco di tempo che va da Gaetano Bresci a Joe Strummer, il mito-archetipo del bandito sociale analizzato dallo storico Eric Hosbawm e decantato da decine di canzoni rock’n’roll. Il brano si intitola Bandito senza tempo ed è evidentemente anche un omaggio a Sante Notarnicola: «Un tempo fu a Milano/ Dove si va a lavorare/ C’erano tante bande/ Quante banche da rapinare/ Forse fu per caso/ Che con Pietro Cavallero/ Fece la comparsa/ In un film in bianco e nero».

E’ il momento in cui una nuova generazione di militanti, usciti dalla Pantera e alla ricerca di nuove forme di attivismo, riprende in mano i libri di Notarnicola. Lui decide di vivere a Bologna e apre una birreria, il Mutenye. Si trasferisce al Pratello, quartiere a ridosso del centro nel quale il popolo autoctono delle osterie e della piccola criminalità si mescola a studenti ed artisti. Qui non smette di fare attività culturale e diventa una presenza costante, discreta ma imprescindibile. La sua postazione è in una saletta appartata del locale: chi lo conosce sa che può trovarlo lì. Dispensa consigli da vecchio saggio e lascia trasparire la sua storia con discrezione, conservando La nostalgia e la memoria (come si intitola una sua raccolta di componimenti) ma senza caricarla sulle giovani generazioni. «Veniva con la pioggia e se ne andava via col vento», cantano i Gang. Questa volta Sante Notarnicola, il bandito senza tempo con un vocabolario sottobraccio, se n’è andato davvero.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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