La  mia idea giacobina di repubblica mi porta spesso, in questi tempi, a considerare la centralizzazione di ogni servizio che lo Stato dovrebbe garantire ai cittadini come una soluzione alle gravi disparità di trattamento che si possono contare se si osserva il quadro penosamente regionalistico della gestione della campagna vaccinale.

Ma forse non si tratta di un reflusso storico-politico che si perde all’origine della Rivoluzione francese e nei suoi successivi sviluppi e inviluppi. Probabilmente è un istinto naturale per chi ha sempre pensato ad ogni forma di federalismo come ad una iattura per questo nostro Paese nato posticciamente, tra i tentativi diplomatici cavouriani e lo scuotimento dell’albero risorgimentale da parte di Mazzini: con in mezzo il socialismo di Pisacane, l’avventurismo (positivamente inteso, sia chiaro) di Garibaldi, le propensioni neoguelfe di un Gioberti o quelle, appunto, federaliste di Cattaneo.

L’avversione nei confronti del federalismo, per un giacobino, illuminista e comunista (al pari di come si definiva Alessandro Natta, con un trittico molto azzeccato che riassumeva una lineare coerenza temporale nel divenire, alla fine, un risoluto nemico del capitalismo e di ogni sfruttamento), non è potuta venire meno neppure durante il salto dall’adolescenza alla maturità: se negli anni ’80 e ’90 prende piede il secessionismo leghista – finito poi, come nella peggiore delle soap opere nel suo esatto contrario, mantenendo alto il livello disumano razzistico e xenofobo, unica traccia di coerenza riscontrabile in quel ciarpame antisociale e impolitico – la reazione conseguente è un credere ancora più fortemente nella centralizzazione delle istituzioni e nel rafforzamento contestuale delle autonomie locali così come previsto dalla Costituzione.

I Costituenti, del resto, non previdero uno Stato federale proprio per le caratteristiche non solo di derivazione storica e politica dell’Italia, ma in particolare per la giovane età di una nazione che era passata dalla millenaria divisione in tanti staterelli alla torsione autoritaria fascista, dopo la parentesi (neppure poi così breve) del liberalismo sotto le insegne della monarchia e dell’espansionismo coloniale in Africa.

Una certa idea dell’Italia federale la dibattono nella Milano delle Cinque giornate. Ovviamente nessuno, a partire da Carlo Cattaneo, pensa ad un regime monarchico. L’unica forma di Stato in cui può germogliare il federalismo è la repubblica. Forse è l’unico punto su cui concordano con Mazzini che, per il resto, avversa quella sorta di regionalismo in una Italia tutta da unificare e da costruire come Paese prima ancora che come Stato. I timori non sono campati in aria, tanto che, se si ragionasse per astratto, giocando con la Storia (quella con la esse maiuscola), si potrebbe affermare che il passaggio dalla frammentazione italiana del Congresso di Vienna si sarebbe passati ad una “frammentazione unitaria“, un paradosso eclatante.

A ben vedere, non è stato il centralismo a negare tanti diritti sociali e civili nell’Italia post-risorgimentale, quella che inizia con Cavour e prosegue con Rattazzi e Crispi. Le diseguaglianze estreme tra il Mezzogiorno e il Nord dell’Italia non sono causate dalla mancanza di un federalismo regionalista, ma dal tipo di politiche che i governi della sinistra e della destra storica portano avanti. Sono tutele dei privilegi di ceto e classe sociale: privilegi aristocratici da mantenere e tutele assolute nei confronti della grande impresa che si sviluppa nell’”Alta Italia“, mentre nella “Bassa” la povertà crescente si acuisce per la conformazione territoriale, per la storia del millenario dominio napoletano che è capace di costruire fastose regge, celebrare degnamente la cultura con prestigiose università ma che non ha una vocazione industriale e capitalista.

Anche in questo senso, Gobetti ha ragione quando critica la mancata rivoluzione liberale di una Italia nascitura e di quella appena nata dopo l’unificazione politica nel decennio di preparazione (1849 – 1859) e in quello di costruzione dell’unità statale (1860 – 1870). Tanta parte delle antinomie risorgimentali sono molto bene espresse dal giovane intellettuale torinese: la sua analisi si compenetra a quella di Gramsci che, pur volendo arrivare a sintesi differenti – liberalismo da un lato e marxismo rivoluzionario dall’altro – spiegano molto bene il dramma di una Italia tutt’altro che unita dalla monarchia sabauda, lasciata preda di tanti particolarismi locali gattopardescamente evolutisi in nuova classe dirigente del Regno: da quello della ridotta piemontese al nord a quello borbonico al sud.

Il federalismo sarebbe stata probabilmente una risposta tutt’altro che sufficiente in una immaginaria repubblica unitaria italiana, così come la pensavano tanto Cattaneo quanto Mazzini, se non si fosse affrontato il secolare problema delle diseguaglianza aumentato, nel corso dell’800, dalla tendenza globale del capitalismo ad espandersi dai paesi industrialmente avanzati a quelli in via di sviluppo.

Gobetti e Gramsci vedono una Italia unita politicamente, tenuta insieme dal bastone e dalla carota del regime monarchico e dalle violenze fasciste in seguito, ma priva, da un lato di un vero assetto liberale sul piano istituzionale, dall’altro di una coscienza nazionale che non può crescere se non grazie alle prime grandi lotte operaie e contadine di fine ‘800 e di inizio ‘900. Ciò, nonostante l’Italia di allora sia ricca di dibattito sia sociale sia intellettuale. Non manca il confronto, lo scontro: le fazioni esistono, i partiti nascono, le associazioni di mutuo soccorso si diffondono un po’ ovunque.

Qui per la prima volta prende corpo una coscienza di classe che prova ad unificare le lotte e che in queste agitazioni, che non danno tregua all’associazionismo confindustriale che nasce in risposta alle rivendicazioni proletarie, in quella “Pietrogrado d’Italia” che è Torino, cui Paolo Spriano si riferisce proprio analizzando il rapporto sincretico e parimenti molto differente tra il pensiero gobettiano e quello gramsciano: una vera fucina di talenti intellettuali desiderosi di costruire una Italia sociale, dei diritti comuni, delle libertà civili e del lavoro.

Il dibattito tra centralismo e federalismo, almeno in quegli anni del primo Novecento, ha un sapore un po’ stantio, odora di anacronismo, perché ha le fattezze della mera forma istituzionale di uno Stato da trasformare radicalmente sul piano dei rapporti tra le classi prima di tutto e sull’espansione di una serie di diritti umani che riassumono in sé l’aspetto rivendicativo delle lotte operaie e quello più borghese delle libertà di pensiero, di stampa, di comunicazione che, nel programma del Partito Socialista prima e del Partito Comunista poi, diventeranno un punto di programma ineludibile: eguale istruzione, libera e gratuita per tutti.

Gobetti ha meno tempo, purtroppo, per assistere all’esaurimento dei princìpi statutari di un Regno debole che crolla sotto il peso del malcontento sociale e apre le porte al fascismo con l’intento di salvarsi dall’avanzata dei “rossi“. Gramsci, da marxista, studia il fenomeno nella sua componente sociologico-politica e individua almeno “due fascismi” nascenti: quello che definisce «composto dai nuclei urbani» che fa riferimento direttamente a Mussolini e lo segue fedelmente, e il fascismo “agrario“, il fascismo dei padroni della terra che intendono profittare del nuovo corso della politica italiana, integrandosi nel movimento, condizionandolo e mutandone in parte la ragione pseudo-sociale degli inizi.

Il centralismo non salva l’Italia dal pericolo fascista e tanto meno lo avrebbe potuto fare uno Stato federale. Ma la forma statale rientra in gioco con il consolidarsi del regime che esaspera ogni tentativo di delega territoriale e non concede la benché minima autonomia alle minoranze presenti, siano esse linguistiche, religiose, sociali, culturali. Il totalitarismo non conosce confini interni. Il dibattito sulla forma e sull’assetto politico-istituzionale dello Stato, dunque, ritorna dopo la fine della Seconda guerra mondiale e viene risolto dall’Assemblea Costituente: una repubblica democratica, centralizzata ma pienamente rispettosa di tutte le differenze, di ogni particolarità locale.

Questa formula ben congeniata è stata utilizzata, come del resto anche tante altre fondamentali espressioni della nostra Costituzione, per architettare revisionismi istituzionali che fossero congeniali ad interessi economico-politici di parte, fuori da ogni interpretazione intellettuale, da ogni concreto dibattito anche giuridico: il federalismo è divenuto una clava per propagandare la secessione della parte ricca del Paese dal resto d’Italia e, ultimamente, abbandonata l’idea di far nascere quella padania che non merita nemmeno la maiuscola, è stato trasformato in una nuova deformazione chiamata “autonomia differenziata“.

Un modo elegante per significare un regionalismo egoistico, privo di connessioni giuridiche, logiche, pratiche e formali, riguardanti i diritti universali dell’essere umano e del cittadino nell’unità della Repubblica. A distanza di un secolo, il tema della forma dello Stato rientra prepotentemente dalla finestra, proprio nel biennio pandemico che ha sclerotizzato le certezze sull’efficienza sanitaria gestita da un potere frammentato in tante piccole ma non irrilevanti consorterie regionali.

Un approfondimento in merito sarà utile, come già detto, a partire dalla ennesima, questa volta veramente necessaria, revisione del Titolo V della Costituzione.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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