No, non è Capitol Hill ma piazza Monte Citorio. E l’uomo con le corna di bufalo non è il Jake Angeli appartenente alla fantasia di complotto dei QAnonisti: è un ristoratore modenese, già intervenuto a “La zanzara” di Cruciani e Parenzo su Radio 24. Il Presidente del Consiglio Draghi, oppure il Presidente della Repubblica Mattarella, nemmeno lontanamente hanno le sembianze politiche di un Donald Trump. Dunque, la piazza romana che protestava ieri contro la mancata riapertura di locali, ristoranti, bar e mercati rionali, è tutto tranne che una emulazione sovversiva di negazionisti e riduzionisti del pericolo rappresentato dal Covid19.

Eppure, se si ascolta tutta la diretta dei cronisti di Local Time, non si possono tralasciare una serie di segnali che rimarcano ancora una volta come, nel comprensibile e ormai diffusissimo disagio sociale dovuto al biennio pandemico, l’estrema destra neofascista si insinui e riesca a dettare modalità e svolgimento di manifestazioni che vengono proposte come “apolitiche“, “non organizzate” ma dettate da una improvvisazione rabbiosa che pure pretenderebbe di stare – almeno nelle intenzioni – dentro i confini della costituzionalità, della legalità e di forme di protesta definibili come “civili“.

Un tribuno del popolo improvvisato, vestito con una tutina bianca che risalta molto, si siede a cavalcioni della ringhiera che separa la piazza del Parlamento dal luogo dove si sono radunati i manifestanti. Agguanta un megafono e fa una dissertazione pasticciata, lagnosamente lunga e retorica sulla potenza della Costituzione, dei suoi articoli che sciorina uno per uno: letta così, anche la Carta del 1948 sembra qualcosa di estremamente banale e banalizzabile.

Poi ha un sussulto quando qualcuno gli urla dalla piazza: «Basta con le zone rosse, basta col rosso!». Ecco, lì si accende la fiamma tricolore del tribuno che replica a stretto giro di posta: «Macché rosso! Er rosso è quella della bandiera di merda dei commmunisti! [pronunciato con tre emme, alla romana]».

Qualcuno gli fa notare che s’è spinto nel politicamente scorretto e allora parte un inno di Mameli, poi un appello alle forze dell’ordine affinché facciano «…un gesto verso dei cittadini onesti, degli imprenditori che protestano…» e si tolgano i caschi antisommossa. Insomma, in quella piazza ci sarebbe anche della gente onesta che vuole veramente essere sostenuta dalle Istituzioni, ma il controllo lo hanno i negazionisti che invitano a togliersi le mascherine e a minimizzare gli effetti di diffusione del Covid19; Sgarbi che scende tra la folla e la arringa con i suoi noti francesismi, che vorrebbero essere dissacranti e irriverenti, anticonformisti e per questo estremamente popolari, mentre altro non sono se non esercizi di populismo per esagitare gli animi con frasi prive di senso.

Dire, ad esempio, che «Il governo alimenta la malattia» farà anche scatenare lo sperticarsi delle braccia, genererà un profluvio di applausi liberatori, ma non accenna nemmeno minimamente a far comprendere a quel migliaio di persone che sono lì davanti all’obelisco di Monte Citorio che il loro problema si chiama invece “lotta di classe” e che dovrebbero inveire contro i super potenti magnati dell’industria, quelli che detengono profitti a tal punto da poter superare non una ma due pandemie senza dichiararsi economicamente falliti.

Da Sgarbi, è evidente, non ci si può aspettare una analisi sociale anche tradotta nelle giuste parole semplici di qualunque comizio da tenersi davanti a gente inferocita per la mancanza dei ristori, per l’esasperante tiritera delle aperture parziali e delle chiusure, per il fallimento di una campagna vaccinale che – almeno fino ad ora – è stata impostata su criteri di categoria e non invece su criteri di salvaguardia delle fasce più fragili della popolazione: dagli ultrasettantenni in avanti, anagraficamente parlando, e coloro che sono più esposti ai contagi ogni giorni.

Per primi i sanitari, i medici, gli infermieri, tutto il personale delle RSA, i lavoratori dei comparti alimentari, tutti coloro che sono dipendenti dei supermercati e vengono quotidianamente a contatto (seppure si spera indiretto per via delle protezioni in vigore) con centinaia di persone.

La fondatezza della rabbia di molte centinaia di persone che ieri erano nelle piazze di Milano, Genova, Roma, Torino e che hanno protestato in varie forme, anche violente e da cui ci si sarebbe aspettata una presa rigorosa di distanza proprio da parte dei manifestanti stessi, isolando così neofascisti e sovranisti che soffiano sul fuoco del malessere popolare, quella rabbia è il primo sintomo di uno sfilacciamento di un tessuto sociale che rischia di logorarsi da più lati e di fare spazio a forme di rivendicazione sociale che finiscono con l’essere controproducenti proprio e principalmente per ciò che intendono raggiungere.

Una eterogenesi dei fini è, in sostanza, la migliore capacità di condizionamento di un disagio che deve essere organizzato e non lasciato all’improvvisazione: i sindacati di categoria devono gestire un processo di informazione dei loro associati e anche di tutte quelle lavoratrici e di tutti quei lavoratori che vogliono unirsi ad una lotta senza essere iscritti ad una associazione di difesa e tutela dei diritti fondamentali del mondo del lavoro. Soltanto così si evita di regalare una qualsiasi protesta, una qualunque piazza di questo nostro Paese alla strumentalizzazione dei sovranisti tanto istituzionali, governativi o di opposizione, quanto quelli extraparlamentari da sempre abituati a fare da detonatori dell’esasperazione dei più deboli e colpiti della società.

Il quadro del pauperismo pandemico è desolante: dal febbraio del 2020 ad oggi sono andati persi 945.000 posti di lavoro, di cui 590.000 dipendenti e 355.000 autonomi. Il tasso occupazionale è sceso del 2,2% e l’inattività  dei cittadini tra i 15 e i 64 anni è aumentata di 717.000 unità: un incremento quasi eguali a quello della crescita della disoccupazione. In pratica chi perde il lavoro oggi finisce per non avere alcuna speranza di ritrovarlo e va ad ingrossare le fila di una riga del pallottoliere dove si contano tutti quelli che rinunciano a cercare una occupazione. Almeno nel tempo immediato, in questo stato di incertezza assoluta.

La disoccupazione giovanile cresce anch’essa e arriva al 31,6% in chi ha una età tra i 15 e 24 anni (2,6% in più rispetto ad un anno fa); parimenti i giovani che lavorano scendono di 159.000 unità. Tutti dati dell’ISTAT: una fotografia davvero impietosa che sarebbe stata devastante se non si fosse prolungato il blocco dei licenziamenti che – a detta di molte sirene del liberismo dentro e fuori il governo – non potrà essere infinito. E’ evidente che nessuno pretende l’infinitudine dei licenziamenti in un sistema che ne fa la sua arma migliore per ricattare i lavoratori fra loro e avere forza-lavoro sempre a minore costo. Ci rimane almeno la dignità intellettuale e la coscienza critica per mantenere questa consapevolezza: non si può chiedere al padrone di non essere più un padrone e non si può chiedere al capitalismo di suicidarsi.

Ma si possono trasformare le piazze delle proteste in piazze anche di proposte concrete. Per farlo servirebbero almeno due sponde, due punti di appoggio imprescindibili: una sindacale e una politica. Sul piano sindacale si è già detto. Su quello politico il discorso è molto più complesso, perché entrano in gioco una serie di fattori più di lungo corso, di orizzonti benevolmente viziati dall’ideologismo, che va con cura preservato come fondamento culturale e sociale di una sinistra realmente anticapitalista e antiliberista, come essenza stessa della propria riconoscibilità critica, della propria fisionomia differente da qualunque altro volto di partito o movimento.

Come entrare in connessione con quei manifestanti che finiscono per prendersela con i migranti anche quando la colpa è del virus e dei governi che non hanno saputo pienamente gestire la pandemia dal punto di vista delle classi più deboli? E’ una domanda cui è difficile rispondere.

Ci si può provare, recuperando una fiducia sociale attraverso la dimostrazione della totale differenza che c’è tra chi vuole rovesciare la logica liberista che uniforma tutte le politiche degli esecutivi europei (fatto salvo quello spagnolo) e il resto delle forze che sono al governo e all’opposizione (almeno a destra): tutti uniti nella santa crociata in difesa della logica imprenditoriale, quella grande, quella che vede la classe media, dai piccoli imprenditori ai lavoratori autonomi, alle partite IVA come una semplice intercapedine tra la soglia del mantenimento di privilegi intoccabili e la minaccia di un cambiamento repentino.

Proprio in questi giorni, da oltreoceano, non certo da una amministrazione governativa tacciabile di essere simpatizzante socialista, viene la proposta di introdurre una tassa planetaria sulle ricchezze smisuratamente enormi. Janet Yellen, Segretario al Tesoro del governo degli Stati Uniti d’America, in un suo intervento al “Chicago Council of global affairs” ha esplicitamente parlato di una necessità impellente: introdurre a livello mondiale una tassa minima (minima, si intende!) sui profitti delle grandi società multinazionali, allo scopo di rialzare le aliquote fiscali precipitate dagli anni ’80 ad oggi dal 48% ad un misero 23%.

Il tutto mentre il giro di affari di grandi colossi planetari è aumentato esponenzialmente. Una inversione proporzionale con tassazioni oggi inadeguate persino per il governo di Biden, che sarà pure un esecutivo progressista agli occhi di molti moderati di centrosinistra ma che, questo è indubbio, non è di sicuro un governo con dentro comunisti dichiarati come invece accade in un paese liberale europeo: la Spagna.

La situazione è davvero grama se persino il ministro del tesoro americano si spinge fino alle soglie dell’indicibile fino a poco tempo fa. Del resto, in una sinistra mondiale allo sbaraglio e priva di una interconnessione internazionale, di una visione di ampio raggio e di lungo corso, di un progetto sociale, politico ed economico che sia realmente alternativo al liberismo dominante, anche la più timida delle proposte di giustizia fiscale (si fa per dire) sembra un atto rivoluzionario.

A questo dovremmo fare attenzione: finché appariranno socialisti coloro che invece ne sono l’esatto opposto (almeno sul piano della politica economica), non saremo riconoscibili noi comunisti e gente di sinistra come possibile, credibile alternativa al resto del mondo politico ed istituzionale.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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