1. L’imperversare della pandemia ha costretto la maggior parte dei paesi del mondo ad adottare tempestivamente tutte le misure idonee a sostenere il sistema sanitario, i propri settori produttivi e il sottostante tessuto sociale.

In questo scenario, l’Europa non è certo rimasta a guardare.

Con l’intento di fronteggiare le conseguenze legate al Covid-19 e dare supporto agli Stati membri, sono stati messi in campo una serie di strumenti economico-finanziari senza precedenti. Tra questi, in particolare, spicca il piano di sussidi e prestiti concordato dalla Commissione e dal Parlamento europeo – Recovery Fund. O, ancora, la cd. “Cassa di integrazione europea”, denominata SURE, volta a sostenere rischi di disoccupazione dovuti all’emergenza (https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_21_1209).

Ebbene, nonostante sia innegabile lo sforzo profuso dalle Istituzioni e dai leader dell’UE ci si deve chiedere se, questo stesso sforzo, possa essere considerato idoneo ad avviare un cambio di passo nel perimetro unionale.

Un cambio di passo in grado di appianare, in termini prospettici, il divario ormai cronicizzato all’interno dell’Eurozona tra Paesi del Nord e Paesi del Sud e incentivare inedite forme di solidarietà tra Stati membri caratterizzati da economie nazionali profondamente divergenti.

A prima vista, la circostanza che neppure la minaccia pandemica sia riuscita a evitare – già nel corso della prima ondata – i conflitti tra i cd. Frugal four (Austria, Danimarca, Olanda e Svezia) e i Paesi dell’area mediterranea, i cd. peccatori fiscali, in ordine alle modalità di erogazione e di ripartizione dei volumi del fondo per la ripresa istituito dall’UE, sembrerebbe rendere superfluo ogni interrogativo.

Eppure, ciò non esime, dal domandarsi se sia possibile interpretare gli effetti socio-economici di questa pandemia non solo come fenomeni negativi, in grado di esacerbare le numerose tensioni già in atto nel perimetro unionale, ma anche come antidoti contro la disgregazione. Antidoti capaci di generare nell’UE nuovi orizzonti di solidarietà e cooperazione tra Stati membri.

2. Prima di interrogarsi sulla possibilità che la pandemia possa essere il pretesto per definire le politiche idonee ad appianare il divario economico esistente tra gli Stati dell’UE, incentivando nuove forme di solidarietà, è opportuno – benché brevemente – delineare alcune delle ragioni che alimentano questo divario.

Ad avviso di Wolfgang Streeck[1] una delle fonti che alimenta il divario tra Paesi del Sud e Nord dell’UE consisterebbe, tra le altre cose, nel fatto che a partire dalla nascita dell’unione monetaria, i differenti sistemi economici che coesistevano nelle nazioni europee sono stati assoggettati a regole uniformi e, proprio per questo, insostenibili: in quanto insensibili ai diversi livelli di sviluppo delle singole economie.

L’ormai nota riflessione cui giunge Streeck, qui brevissimamente riassunta, mette davanti al fatto che, inevitabilmente, l’unione monetaria consistendo nell’applicazione del medesimo ordine di regole a sistemi economici (e culture economiche) differenti, non ha fatto altro che esacerbare le fragilità – per altre ragioni già presenti – dei paesi a competitività inferiore. Primi tra tutti Grecia, Italia, Spagna e Portogallo.

Questi Stati per rimanere fiscalmente attrattivi per le imprese, in un mondo globalizzato, ed evitare il progressivo impoverimento del tessuto sociale hanno dovuto, dapprima, erodere i sistemi di welfare nazionalifacendo ricorso a politiche di privatizzazione e di indebitamento e, in un secondo momento, per evitare il collasso innescato dallo stesso indebitamento, accettare le severe, benché inefficaci, successive misure di austerità economica imposte dall’UE al fine di risanare le finanze pubbliche.

In questo senso, benché nelle premesse l’unione monetaria e poi l’euro avrebbero dovuto indirettamente contribuire all’integrazione sociale europea, hanno restituito il risultato opposto.

Hanno favorito una gerarchizzazione tra Stati membri e hanno esasperato le distanze e i conflitti all’interno dell’UE tracciando una linea di confine tra i Paesi che presentano un avanzo e quelli afflitti da deficit. Meglio ancora tra Paesi del Nord e Paesi del Sud.

In questo senso, si può sostenere che i Paesi nordici hanno fatto dipendere gran parte del loro benessere proprio dal fatto che i Paesi del Sud, da un lato, non sono stati in grado di sostenere l’omologazione economica imposta dalle regole discendenti dal regime monetario comune e, dall’altro, si sono impoveriti a causa del sempre più intenso fenomeno di trasferimento delle sedi legali e amministrative delle maggiori società e gruppi verso i regimi a fiscalità agevolata dei Paesi dell’area settentrionale.

Ebbene: l’impoverimento dovuto all’insostenibilità delle regole imposte dall’adesione all’unione monetaria unitamente al conseguente consolidamento del predominio del metodo intergovernativo all’insegna dell’austerità fiscale[2], anziché migliorare la competitività economica degli indisciplinati Paesi dell’area meridionalee avviare un virtuoso meccanismo di pratiche solidaristiche tra Stati ha, piuttosto, alimentato i dissidi interni.

In tal guisa, le logiche austeritarie applicate dalle istituzioni europee, formatesi sulle esigenze delle economie più solide, hanno condotto i Paesi del Sud, cd. peccatori fiscali, in una liturgia finanziaria circolare che ha recintato le economie più fragili tra il peso del debito e, conseguentemente, lo stigma della colpa.

3. E che ci sia un rapporto intimo tra debito e colpa e che, a sua volta, questo rapporto abbia favorito il divario tra i Paesi del Sud e quelli del Nord è particolarmente evidente se si prendono in considerazione le prerogative economico-finanziarie dei Paesi nordici a tradizione protestante.

Entrambi i concetti (debito e colpa) in tedesco sono resi dal sostantivo schuld (più in particolare, la radice indoeuropea *(s)kel– rimanda a colpe meritevoli di biasimo).

Questo dettaglio, per certi versi, aiuta a comprendere e contestualizzare in che modo le economie capitalistiche dei Paesi nordici, a tradizione protestante, hanno interpretato e tuttora interpretano le fragilità economiche dei Paesi del Sud e, ancora, in che modo hanno avallato l’applicazione delle draconiane misure di risanamento dei bilanci pubblici della crisi finanziaria, poi divenuta crisi del debito, che ha colpito l’Eurozona: contro il debito e, dunque, contro la colpa, l’unica strada da percorrere è quella della disciplina e del rigore. Non importa a che prezzo, perché non ci sono alternative.

Del resto, rimanendo nell’ambito linguistico, sempre a causa del retaggio protestante, in tedesco, così come nelle altre lingue germaniche, il concetto di austerità ha una connotazione del tutto positiva, reso dall’espressione Sparpolitik, vale a dire politica di risparmio.

È questa la dimensione etica e poi economica che, in qualche misura, giustificherebbe le misure al tempo imposte, ad esempio, dalla Troika a carico della Grecia?

Ed è questa, inoltre, la logica che si trova non solo alla base del cd. paradigma dell’austeritàma anche di quel solidarismo atipico che si è ormai consolidato nei rapporti tra Stati europei?

Un solidarismo che si fonda su precetti di razionalità economica e che si regge esclusivamente sulla dialettica debito-credito: gli Stati salvano gli Stati più a rischio sostanzialmente <<per proteggere se stessi da un aumento generale dei tassi di interesse sui titoli di Stato>>[3].

Più che mai la solidarietà tra Stati è, ad oggi, interpretata come solidarietà nell’interesse dei creditori o, tuttalpiù, degli investitori.

In questo senso, il sostengo garantito ad uno Stato (debitore) si manifesta unicamente con la pretesa creditizia. Pretesa che, come tutto ciò che si reclama, è legittima proprio perché è stringente: solo rispettando regole severe il debitore può liberarsi dalla sua colpa.

La fonte della distanza economica (dunque di benessere) tra Nord e Sud dell’UE lambisce questioni talmente radicate da involgere sia la sfera economico-monetaria che quella morale: sin dall’inizio della crisi greca, ad esempio, l’atteggiamento dei Paesi del Nord intenzionati ad applicare il rigore tecnocratico, poi tradottosi nel paradigma dell’austerità, è stato intriso di moralismo – “santi contro peccatori”, “cicale contro formiche”.

L’austerità ammantata di legittimità tecnica, non solo ha generato una vera e propria gerarchizzazione tra Stati membri ma ha aperto la strada ad un modello di politica economica che si è rivelato essere medicina venefica. Medicina che, per curare (con scarsi risultati) le criticità socio-economiche dovute all’integrazione dei mercati, ha dato vita ad una crisi di solidarietà tra Stati, esacerbando la competizione e la contrapposizione tra Paesi centrali, dal punto di vista economico, e Paesi periferici.

4. Considerato il profondo divario economico che intercorre tra i prosperi Paesi del Nord e gli indebitati Paesi del Sud dell’UE, e le posizioni politiche assunte da entrambe le parti in maniera disarmonica soprattutto in condizioni di emergenza, ci si deve chiedere se l’attuale pandemia possa essere il pretesto per correggere il tiro e creare un fronte comune.   

Può dunque l’attuale emergenza economico-sanitaria in quanto simmetrica, spingere le Istituzioni europee e gli Stati a discutere, simmetricamente, di quelle politiche che possono realmente favorire una crescita progettuale e duratura?

In altre parole, gli sconvolgimenti che discendono dall’imperversare del Covid-19 devono indurre a chiedere “più Europa”?

Se la risposta è “sì”, è bene specificare a quali condizioni.

Una risposta affermativa è condivisibile a patto che ambire a più Europa equivalga ad aspirare ad un’Unione Europa guidata da una volontà politica realmente informata all’interesse generale.

Dunque, un’Unione pienamente consapevole – ora – di non poter più fare esclusivo affidamento sugli aggiustamenti di mercato per impedire la divergenza economica tra Stati.

In questo momento di profonda depressione, una riforma profonda della governance europea (attualmente sbilanciata a favore delle misure pro mercato e a sfavore di quelle pro welfare), permetterebbe di ridimensionare il potere dei mercati nel regolare l’economia e, parimenti, all’UE di essere più incisiva nel regolare le politiche volte ad aumentare il benessere dei cittadini e le relazioni tra Stati membri. Nell’ottica della solidarietà.

La situazione attuale, la situazione pandemica, è certamente diversa da quella emersa a partire dal 2008.

In detto periodo si trattava di comprendere in che modo abbattere un grosso debito. E si è scelto di farlo insistendo sul paradigma dell’austerità e su quella <<miscela etico-economico-politica di ordo e neo-liberalismo su cui la Ue è stata edificata>>[4]. Miscela che si è rivelata inefficace.

Ora, alla luce dei primi interventi dell’UE, parrebbe che le Istituzioni europee abbiano concesso un allentamento sostanzioso del paradigma dell’austerità. Ma è davvero così? E, ad ogni modo, questo può bastare?

Certamente, la soluzione alla crisi non può essere più letta esclusivamente con gli occhiali economici.

La dimensione della solidarietà tra Stati nell’UE, in quanto normativamente debole e programmaticamente orientata a favore del mercato e alla cura degli interessi domestici, sente ancora estranea l’idea che (ad esempio) se in Grecia, in Portogallo o in Spagna un’intera generazione viene privata della possibilità di vivere una vita produttiva <<non è solo un problema greco, portoghese o spagnolo>>[5] ma è un problema di tutta l’Unione.

In altre parole, non è ancora consolidata l’idea secondo cui, ad esempio, sostenere la competitività dei paesi periferici del Sud dell’Unione mediante politiche redistributive e di mutualizzazione del debito, corrisponderebbe ad uno vantaggio per tutta l’UE.

5. Se la crisi Greca ha dimostrato che il potenziale collasso di uno Stato deve essere scongiurato – nel caso di specie con l’impiego di draconiane misure di salvataggio –  perché ciò comporterebbe inevitabili ripercussioni sugli altri Stati, l’attuale crisi pandemica, allo stesso modo, ha mostrato che lo stato di salute (sanitaria ed economica) di uno Stato e del suo tessuto sociale incide, in virtù dell’interdipendenza economica e commerciale, su quello di un altro Stato.

È arrivato il momento di comprendere che la solidarietà tra Stati membri nella redistribuzione di risorse è nell’interesse di tutti gli attori europei? Dunque, che la solidarietà si pone nell’interesse collettivo dell’intera Unione?

La solidarietà, intesa come responsabile distribuzione delle risorse, nel breve periodo, si pone a favore dei soggetti che maggiormente versano in condizioni di svantaggio evitando un peggioramento delle loro condizioni. Nel lungo periodo, garantisce ai Paesi-leader che nell’immediato hanno dovuto rinunciare a parte delle proprie risorse per distribuirle, di trarre beneficio dal fatto di operare in un sistema stabile e quindi idoneo alla conservazione del loro stesso benessere.

In questo senso, l’argomento (spesso finito sulla bocca dei capi di governo dei Paesi del Nord dell’UE) secondo cui la solidarietà genererebbe benefici solo ai soggetti che si trovano in condizioni di maggiore difficoltà, appare infondato.

Al contrario, è l’assenza di solidarietà in momenti di crisi che accelera la rottura dei legami sociali; che determina disaffezione da parte dei cittadini nei confronti delle Istituzioni europee e, infine, destabilizza il quadro di cooperazione inducendo potenzialmente i soggetti in difficoltà ad assumere posizioni opportunistiche (a svantaggio di tutti gli altri membri del gruppo) o palesemente lesive del sistema politico-economico cui appartengono.

Una responsabile redistribuzione delle risorse, istituzionalizzata a livello sovranazionale, incentiverebbe gli attori svantaggiati a rimanere all’interno del sistema cui appartengono e consentirebbe a quelli più forti di operare in un sistema economicamente più favorevole[6].

Si potrebbe sostenere che nell’UE, fino ad ora, non ci siano le premesse normative e politiche per prevedere il dovere per ogni Stato di obbligarsi stricto sensu a compiere sacrifici solidaristici nei confronti di altri Stati. Tuttavia, l’attuale pandemia ha messo in evidenza che per affrontare sfide comuni è necessario che queste premesse vengano create: in quanto la stabilità dell’UE, se fondata prevalentemente sull’interdipendenza economica, è assai fragile.

Ma ci sono queste premesse?

6. Come avverte Alessandro Somma nel sul ultimo libro Quando l’Europa tradì se stessa. E come continua a tradirsi nonostante la pandemia, tutti gli Stati sono debitori, in quanto l’indebitamento (necessario per contrastare la contrazione dei salari e fronteggiare il conflitto redistributivo) è necessario per mantenere l’equilibrio tra democrazia e capitalismo, sconvolto dall’affermazione del neoliberalismo nell’Unione.

È pur vero, però, continua Somma, che essere debitori non significa ricoprire le stesse posizioni e mantenere lo stesso peso politico. Non tutti gli Stati sono debitori allo stesso modo.

Infatti, alcuni Stati, benché debitori, mantengono una posizione di vantaggio mediante il controllo diretto sulla disciplina fiscale e monetaria, mentre altri Stati, benché debitori, sono sottoposti ad una <<irreversibile condizione di svantaggio>>[7].

La circostanza che la crisi pandemica va a sommarsi ad altrettante crisi in corso rende evidente non solo che ci si trova di fronte ad uno scenario estremamente grave e senza precedenti, per la sua complessità e l’incertezza dei suoi esiti, ma che l’Unione europea è oggi ad un bivio <<tra la possibilità di una condizione assai migliore e una di gran lunga peggiore rispetto a quella attuale>>[8].

Per tale ragione sarebbe necessario adottare decisioni politiche lungimiranti idonee, ad esempio, ad incidere positivamente sull’abbattimento del debito degli Stati in difficoltà.

Si potrebbe ricorrere alla mutualizzazione del debito o all’emissione di debito comune mediante l’Eurobond.

Ma, appunto, ci sono le premesse politiche?

Parrebbe di no, posto che anche in questo caso, si è assistito alla contrapposizione tra Paesi virtuosi e Paesi indisciplinati.

Parrebbe di no, posto che nonostante ci si trovi ad un bivio rispetto alle possibili condizioni di vita future, non sembra affatto che parimenti si trovi ad un bivio l’ormai consolidato approccio neoliberale alla crisi adottato dall’UE.

Le misure adottate a livello europeo per fronteggiare la pandemia non sono concepite per rivalutare la solidarietà come prospettiva a beneficio di tutti gli attori europei.

Non sono concepite per incidere positivamente sull’indebitamento dei Paesi in difficoltà ed eliminare così la loro condizione di inferiorità rispetto ai paesi virtuosi.

Ad esempio, quando il Patto di stabilità e crescita, attualmente sospeso, verrà ripristinato, si genererà un ulteriore approfondimento del solco che divide i Paesi virtuosi dai Paesi in difficoltà.

In buona sostanza, se guardate da vicino le misure varate per fronteggiare l’emergenza sanitaria consistono in linee di credito che nel breve periodo servono ad allentare la pressione sui Paesi in maggiore difficoltà ma, nel lungo periodo, non scongiureranno l’aumentare del loro indebitamento. Al contrario, con ogni probabilità finiranno, in prospettiva, per aggravare la loro posizione.

Nonostante ci sia la diffusa consapevolezza della gravità della situazione, le misure adottate sembrano conservare come filosofia di fondo la retorica neoliberale che ha permesso di costruire, così come è oggi, l’Unione europea.

In altri termini <<occultate dalla cortina fumogena di una retorica solidarista, anche in occasione dell’attuale crisi le modalità scelte per affrontarla sono destinate a rafforzare l’ispirazione di fondo dell’Unione europea>>[9].


[1] Per un’esaustiva disamina della questione, si rimanda all’opera di W. Streeck, Tempo guadagnato: La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli, 2013.

[2] Cfr. A. Cavalli, A. Martinelli, La società europea, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 296.

[3] Cfr. J. Habermas, W. Streeck, Oltre l’austeritàDisputa sull’Europa, (a cura di) Giorgio Fazio, Roma, Castelvecchi Editore, 2020, p. 40.

[4] In questi termini efficaci si è espressa Ida Dominijanni nell’articolo “I governi non li porta la cicogna”, pubblicato su Internazionale, il 10 febbraio 2021.

[5] M. Ferrera, Rotta di collisione, Laterza, Roma-Bari, 2016, p. 137.

[6] C. Burelli, Solidarity, Stability and Enlightened Self-Interest in the EU, in Politiche Sociali, n. 3, 2018 pp. 449-464.

[7] A. Somma, Quando l’Europa tradì se stessa. E come continua a tradirsi nonostante la pandemia, Roma-Bari, Laterza, 2021, p. 149.

[8] C. Offe, L’Europa in Trappola. Riuscirà l’Ue a superare la crisi?, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 19.

[9]A. Somma, Quando l’Europa tradì se stessa. E come continua a tradirsi nonostante la pandemia, Roma-Bari, Laterza, 2021, p. 163.

Di: Nicola Dimitri

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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