Nonostante tutto, buon Primo Maggio a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori, a tutti i precari, ai disoccupati di breve, medio e lungo, lunghissimo termine; agli inoccupati da immemore data, a tutte e tutti coloro che sembrano lavoratori e che, invece, ben oltre la “normalità” del regime di sfruttamento dettato dal capitalismo liberista moderno, si trovano nella condizione di un avveniristico schiavismo nel consegnare cibo e scatoloni con dentro qualunque cosa noi si ordini tramite Internet.

Buon Primo Maggio, dunque. Ma la cosiddetta “festa dei lavoratori” finisce qui. Non solo perché è impossibile festeggiarla come vorremmo, con cortei magari ancora un po’ pieni di bandiere rosse, cantando e discutendo di politica, di sindacato, di ricchezza e di povertà, di lavoro e di profitti; ma soprattutto perché il biennio pandemico sta sempre più mettendo a nudo il sovrano economico globale e tutte le sue ricadute continentali e nazionali: una decrescita antisociale che nulla a che vedere con l’attutire gli effetti endemici di ingiustizia che sono parte della produzione capitalistica, nella “naturale” difesa dei privilegi delle classi dominanti.

Una decrescita che è da un lato accelerazione della concorrenza tra le grandi multinazionali (corporative) che investono nel commercio online e che sfruttano pertanto appieno la diffusione globale delle merci su tutto il pianeta; dall’altro è un progressivo impoverimento anzitutto degli strati più deboli e indigenti della popolazione, del ceto medio produttivo, delle imprese a carattere familiare, delle partite IVA e di tutti quei settori del mondo del lavoro che dipendono da sé medesime.

I livelli occupazionali erano stati dati, almeno ad inizio marzo, in lieve ripresa facendo intuire che, nonostante la pandemia, qualche speranza di non vedere solo segni negativi davanti a numeri assoluti e percentuali. Ed anche oggi, facendo riferimento ai dati raccolti un mese fa, confrontandoli con quelli di inizio anno, si nota come la disoccupazione sia aumentata vertiginosamente: solamente in questi primi quattro mesi del 2021 si registrano 254.000 posti di lavoro in meno (raffronto con il trimestre ultimo del 2020) e la maggiore penalizzazione riguarda le donne, la cui percentuale di esclusione dalle attività produttive sale di 2 punti in brevissimo tempo, da febbraio ad oggi.

I 34.000 posti di lavoro in più che si possono contare a marzo diventano una goccia nell’enorme oceano della crisi economica e dei salariati: una goccia importante, ma anche questa segno tangibile dell’enormità dell’impatto pandemico nella stragrande maggioranza dei settori: si salvano solamente le grandi multinazionali che operano tramite il web e che hanno costi di produzione ridotti non soltanto grazie ai bassissimi salari che pagano a dipendenti cui stipulano i contratti più svariati, giocando sulle discrepanze legislative, sulla spietata regola dell’esercito di riserva dei tanti che premono per avere uno straccio di lavoro anche senza un minimo di garanzie e tutele, ma che salvano i dividendi dei loro azionisti con operazioni di elusione fiscale apparentemente legali.

Le tassazioni dei grandi gruppi internettiani, del mega commercio mondiale fatto di pacchi e pacchetti, sono ridicole rispetto a ciò che pagano non solo le lavoratrici e i lavoratori su miseri salari, ma pure le medie e piccole imprese sia italiane che del resto d’Europa.

Non c’è dubbio che la pandemia abbia acuito le differenze di classe ed abbia mostrato (e dimostrato se mai ve ne fosse stato bisogno) che le diseguaglianze sono irriducibili ad una sostenibilità tanto nazionale quanto internazionale dell’economia di mercato. Ed anzi, proprio i momenti di crisi improvvisi, come l’esplosione del Covid-19, creano turbinosi vortici di quella “anarchia produttiva” di cui già nella seconda metà dell’800 sia Marx sia Engels ne scrivevano ampiamente:

«Ogni imprenditore capitalista (od ogni associazione capitalistica) produce merci indipendentemente dall’altro. Non è che la società stabilisca quanto e che cosa ad essa occorre, ma gli industriali fanno semplicemente produrre col miraggio di un maggiore profitto ed al fine di battere la concorrenza».

E’ una regola prima del capitalismo, un comportamento conseguente allo scopo per cui si è sviluppato e continua a rimodularsi a seconda delle trasformazioni che esso stesso impone al mondo (alla natura, agli esseri viventi tutti) e di cui non si cura se non per limitare i danni che possono derivargli. Il fine produttivo non mira ad altro se non all’accumulazione del profitto e la pandemia ha giocato a favore di certe mega realtà produttive globali, a scapito di quelle minori. E così, sempre più giù, a cascata fin verso gli oltre due miliardi e mezzo di salariati che sono sfruttati nel mondo, spesso privi di qualunque tutela sindacale, di quelli che consideriamo diritti acquisiti nel nostro Paese e nel nostro ricco mondo occidentale e che sono ancora un miraggio in vaste aree del pianeta.

La disoccupazione italiana non può essere ridotta ad un dato meramente statistico, ad un fatto esclusivamente di natura sindacale: deve poter essere un problema sociale che riguardi la politica di questo Paese, il suo governo e tutti gli enti locali. La domanda qui è d’obbligo davvero: ma è in grado oggi lo Stato italiano di affrontare il grande dramma occupazionale con una riforma del mondo del lavoro che sia adeguata ai tempi?

Francamente la risposta non può essere, così, di primo acchitto molto ottimistica: in questo lungo anno e mezzo di chiusure e aperture, di richiusure e di riaperture delle tante attività economiche e produttive del Paese, con i settori pubblici allo sbando e la sanità colta imprerata alla prova della pandemia, dopo decenni di destrutturazione del pubblico a favore esclusivo del privato, si poteva forse sperare che, arrivati all’oggi, dopo aver imparato l’evolversi involutivo della pandemia, il Parlamento tornasse al centro dell’azione di riforma, di prima gestione delle conseguenze antisociali di risvolti economici che riguardano tutti. Per primi le lavoratrici e i lavoratori e tutti coloro che vivono esclusivamente del salario che gli viene dato da altri, da un padrone, da un imprenditore.

Invece il Parlamento sembra quasi scomparso dalla vita sociale e politica del Paese. La cabina di regia è esclusivamente esecutiva (per quanto necessariamente debba essere tale nel trovare una sintesi a problemi immediati e contingenti), il governo è al centro di tutto: tanto delle istituzioni repubblicane quanto della scena mediatica; così è il Presidente del Consiglio dei Ministri, dipinto come un taumaturgo da non disturbare, da lasciar lavorare. Un elogio del sapiente superbanchiere internazionale che ha messo in imbarazzo persino i più enfatici agiografi contemporanei del liberismo e che oggi gli consente di affermare di poter garantire personalmente all’Europa la realizzazione di riforme istituzionali atte a semplificare quegli iter burocratici che sarebbero un inutile, pesante orpello per lo sviluppo imprenditoriale.

Sanità, giustizia, pensioni, informatizzazione, transizione ecologica: tutto è nelle mani di Draghi e del suo governo di unità nazionale, niente è nelle mani del Parlamento che deve solo ratificare l’utilizzo di quella che viene definita ormai unanimente (anche dai sindacati) come un’”occasione unica” nella storia del Paese: 220 e più miliardi di euro che però finiranno nelle tasche dei padroni mediante percorsi nemmeno troppo simulanti un finanziamento di interessi pubblici.

Sta di fatto che la discussione parlamentare sul tesoro europeo che arriverà all’Italia è stata più che altro formale, di principio: nessuna proposta radicalmente critica è intervenuta per mettere in forse l’applicazione del piano di suddivisione delle risorse. Le Camere sono sembrate recepire delle decisioni già prese, in virtù dell’ampia condivisione delle proposte governative sorrette dalla grande maggioranza di “unità nazionale“.

Quando si parla di povertà sociale, di disoccupazione, di crescita dello sfruttamento del lavoro dipendente, come si può ben vedere non si tratta di riferirsi soltanto a temi di natura economico-sindacale-imprenditoriale. Il mutamento pandemico sta sovvertendo gli equilibri costituzionali e sta attribuendo troppo potere al governo, relegando il Parlamento ad una funzione deliberativa, privandolo di un diritto di modifica dei piani, delle leggi e dei provvedimenti solo per il fatto che vengono calati dall’alto della monarchia economica europea.

Questa volta nessuno enfatizza la frase: «Ce lo chiede l’Europa», perché l’inganno è proprio tutto nella percezione che è anche sostanza. L’Europa sembra non chiederci nulla. Anzi, ci dà ben 220 miliardi di euro. Di ciò che pretende in cambio si fa qualche cenno: adeguare la pubblica amministrazione alle esigenze del mercato, così la giustizia e così ogni comparto pubblico un tempo finanziato solo con soldi pubblici e non con prestiti da strozzini o elargizioni a finto fondo perduto.

Già, c’è la pandemia, c’è l’emergenza sanitaria globale. Quindi la democrazia può essere messa un po’ da parte: del resto – diranno i difensori delle manovre liberiste del governo unitario nazionale da destra a pseudo-sinistra – il Parlamento c’è, lavora. E’ un po’ come la regina d’Inghilterra: regna ma non governa. Camera e Senato mica sono stati aboliti: formalmente sono rispettatissimi dall’esecutivo. Praticamente tutto passa da Palazzo Chigi e dai commissari per l’emergenza in divisa.

Crisi del mondo del lavoro e crisi delle istituzioni democratiche vanno di pari passo: meno diritti ai lavoratori e meno diritti civili non ci faranno venir fuori dall’emergenza pandemica migliori. A meno che l’impoverimento cui si va incontro esponenzialmente non faccia crescere la coscienza di classe e la conseguente lotta contro l’arroganza padronale, contro la pretenziosità del mercato, contro uno o più governi pronati al volere del liberismo continentale.

Ma possono i lavoratori, i precari, i sindacati, la sinistra di opposizione e di alternativa sperare invece di lottare, augurarsi una evoluzione in questo senso invece di prepararla? Se la rassegnazione è la cifra della politica di oggi, soprattutto tra le comuniste e i comunisti, allora Draghi, von der Leyen e capitalisti distributori di pacchi in tutto il mondo hanno già vinto questa nuova partita che, epocalmente, si apre con la pandemia.

Non rassegnamoci. Non è finito niente. Tutto continua e tutto deve ricominciare. Nonostante tutto, buon Primo Maggio.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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