Mario Lombardo 

Human Rights Watch (HRW) è stata questa settimana l’ultima organizzazione a difesa dei diritti umani a definire quello imposto da Israele alla popolazione palestinese un regime di apartheid. Il durissimo giudizio della ONG con sede a New York ha sollevato come previsto un polverone, ma la definizione appare ineccepibile ai termini del diritto internazionale e descrive oggettivamente la realtà creata dall’unica presunta democrazia in Medio Oriente. Soprattutto, il rapporto di HRW demolisce ancora una volta la menzogna della natura “temporanea” delle restrizioni, delle discriminazioni e dei crimini in generale commessi quotidianamente contro i palestinesi da Israele nel nome della “sicurezza” e della lotta al “terrorismo”.

Se un appunto va fatto a Human Rights Watch, oltre a quello degli inutili appelli al governo di Tel Aviv per modificare il proprio atteggiamento, è la relativa cautela con cui delinea il contesto dell’accusa rivolta a Israele di praticare l’apartheid. Accusa che, peraltro, la stessa organizzazione aveva respinto nel recente passato. Per il direttore esecutivo di HRW, Kenneth Roth, Israele avrebbe solo negli ultimi anni oltrepassato il limite nel discriminare i palestinesi, non avendo in sostanza dato seguito agli appelli di molte “voci autorevoli” che hanno a lungo invitato i vertici politici e militari del paese a “cambiare traiettoria”.

La pubblicazione del rapporto di 213 pagine è stata accompagnata da una dichiarazione ufficiale di HRW nella quale si spiega senza mezzi termini che le politiche israeliane hanno come scopo “il mantenimento del dominio degli ebrei israeliani sui palestinesi”, dimostrato dai “gravi abusi commessi [contro questi ultimi] nei territori occupati, inclusa Gerusalemme Est”. Per raggiungere i propri obiettivi, dunque, “le autorità israeliane discriminano sistematicamente i palestinesi”.

Nel documento si legge che Israele “cerca di massimizzare la quantità di terra a disposizione delle comunità ebraiche”, mentre “la maggior parte dei palestinesi viene concentrata in centri urbani densamente popolati”. Le autorità di Israele adottano provvedimenti deliberati per “contrastare quella che descrivono apertamente come una minaccia demografica proveniente dai palestinesi”. A Gerusalemme, ad esempio, “i piani del governo per la municipalità, inclusa la parte occidentale e quella orientale occupata, si propongono di garantire una solida maggioranza ebraica” e, addirittura, “fissano le proporzioni demografiche che auspicano di preservare”.

La definizione di apartheid secondo il diritto internazionale trova insomma piena corrispondenza con le azioni dei governi israeliani, essendo in sostanza considerata una pratica riferibile a un regime istituzionalizzato per la dominazione sistematica di un gruppo razziale (etnico) su di un altro. Gli esempi concreti di questa situazione sono molteplici e HRW ne documenta parecchi. In generale, Israele ha approvato leggi che consentono a “centinaia di piccole città” di stanziare fondi e risorse destinate ai residenti palestinesi in percentuali nettamente inferiori rispetto a quanto previsto per gli ebrei. Questa odiosa discriminazione riguarda in primo luogo la scuola e gli altri servizi educativi.

Un altro caso è quello dell’applicazione della legge marziale nei procedimenti giudiziari che riguardano i palestinesi. Al contrario, gli ebrei che vivono negli insediamenti illegali della Cisgiordania godono di “pieni diritti” in conformità con il diritto civile israeliano. Per HRW, anche questa differenziazione corrisponde a una “oppressione sistematica” tipica di un regime di apartheid. I tribunali militari israeliani, che “processano solo i palestinesi”, secondo i loro stessi dati emanano inoltre verdetti di colpevolezza nel 99,7% dei casi.

Queste pratiche, spiega il rapporto, “assicurano agli ebrei israeliani gli stessi diritti e privilegi ovunque essi vivano”, inclusi gli insediamenti illegali, mentre “discriminano i palestinesi, in varia misura, a seconda di dove vivono” e sono il riflesso di “politiche che favoriscono un popolo alle spese di un altro”. Alla base non c’è oltretutto “nessuna legittima ragione di sicurezza”, ma la privazione dei “diritti fondamentali” di milioni di palestinesi viene a loro imposta solo per il fatto di essere tali e non si tratta semplicemente di “occupazione illegittima”, bensì di apartheid vera e propria.

Discriminazioni, abusi e violenze permeano tutti gli aspetti della vita dei palestinesi sottoposti al regime di apartheid israeliano. HRW elenca altre leggi e pratiche che rientrano a tutti gli effetti in questa definizione: dalle drastiche limitazioni agli spostamenti dei palestinesi, incluso il blocco di Gaza e il sistema dei “permessi”, all’appropriazione di oltre un terzo del territorio della Cisgiordania, che dovrebbe costituire un futuro stato palestinese. Ancora, dal trasferimento forzato di migliaia di palestinesi dalle loro abitazioni sempre in Cisgiordania alla mancata concessione dei diritti di cittadinanza; dalla sospensione dei diritti civili basilari al “quasi totale rifiuto di rilasciare permessi di costruzione ai palestinesi” e le conseguenti demolizioni di migliaia di abitazioni con la giustificazione della mancanza di permessi.

Il responsabile di Human Rights Watch per Israele e la Palestina, Omar Shakir, in un’intervista al sito d’informazione Middle East Eye ha spiegato come nel comportamento di Israele ci sia inequivocabilmente “l’intento di dominare [i palestinesi], cioè uno dei fattori che caratterizzano il crimine contro l’umanità dell’apartheid”. I governi israeliani si sono giustificati “per decenni” sostenendo che questa situazione, “soprattutto nei territori occupati, era temporanea e la conseguenza dello stallo del processo di pace”.

Tuttavia, la continua espansione degli insediamenti, l’approvazione della legge sullo “stato-nazione” nel 2018, che fissa a fondamento dello stato il principio della supremazia ebraica, e “le dichiarazioni formali di volere annettere ulteriori porzioni della Cisgiordania” hanno chiarito l’intenzione di “mantenere il dominio degli ebrei israeliani sui palestinesi per il prossimo futuro, se non indefinitamente”.

La presa di posizione di HRW segue di poco più di tre mesi le stesse conclusioni a cui era giunta anche l’organizzazione israeliana B’Tselem. Anche per quest’ultima lo stato di Israele si basa su un regime di apartheid. Il rapporto dei suoi ricercatori era stato ancora più significativo perché aveva spuntato la tradizionale arma a cui le autorità dello stato ebraico ricorrono per screditare chiunque denunci le loro pratiche criminali, vale a dire l’accusa di antisemitismo. Infatti, puntualmente, l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Gilad Erdan, ha reagito al rapporto di HRW definendolo “al limite dell’antisemitismo”.

Per quanto incisivo sia stato il giudizio di Human Rights Watch su Israele, le soluzioni che propone sono a dir poco illusorie. Se gli inviti alla Corte Penale Internazionale a indagare e incriminare coloro che in Israele applicano i principi dell’apartheid, al di là della molto dubbia efficacia, potrebbero in teoria avere qualche seguito, lo stesso non si può dire per gli appelli indirizzati alle Nazioni Unite e ai governi, soprattutto occidentali, per convincerli a prendere provvedimenti contro Tel Aviv.

I crimini brutali di Israele e il suo agire in costante violazione del diritto internazionale, senza doverne pagare le conseguenze, sono infatti resi possibili precisamente dal sostegno e dalla copertura che questo paese riceve dai governi “democratici” occidentali, a cominciare dal suo principale partner e alleato, gli Stati Uniti d’America.

https://www.altrenotizie.org/primo-piano/9268-israele-democrazia-e-apartheid.html

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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