La guerra delle scorse settimane viene da lontano, ma ha molto a che fare con le politiche urbanistiche recenti. Un excursus lungo un secolo nella geografia di Gerusalemme

Venerdì 21 maggio, dopo undici giorni di combattimenti, Israele e Hamas hanno firmato il cessate il fuoco. Il bilancio finale è tragico: 248 morti palestinesi nella striscia di Gaza, di cui 66 bambini, 12 morti israeliani, di cui due bambini, e migliaia di feriti. I bombardamenti israeliani oltre ad aver danneggiato e raso al suolo centinaia di abitazioni e esercizi commerciali, hanno anche distrutto infrastrutture essenziali come il 50% della rete idrica di Gaza. Secondo le Nazioni Unite ora ci sono circa 800.000 persone senza accesso all’acqua pulita.

Dopo settimane di notizie dolorose, la voglia di approfittare del cessate il fuoco per distogliere lo sguardo da Israele/Palestina, almeno per un po’, è forte. Tentiamo di sfruttare, invece, la tregua corrente per riportare in primo piano ciò che è stato ridotto a mero sfondo di quest’ultima guerra. Chi ha seguito le notizie dell’ultimo mese avrà notato che nella narrazione mediatica del conflitto israelo-palestinese è apparso un toponimo ‘inusuale’: Sheikh Jarrah, il quartiere di Gerusalemme Est da cui sono partite le proteste che hanno innescato quest’ultimo conflitto.

Silwan. Foto di Benedetta Seraponi

Nel mese di maggio a Sheikh Jarrah sono state organizzate diverse manifestazioni di protesta a sostegno di quattro famiglie del quartiere, 27 persone in totale, che attendevano di sapere dopo anni di processi se, alla fine, sarebbero state cacciate dalle loro case. Era la fine di Ramadan, pochi giorni prima dell’anniversario della Nakba: “la catastrofe”, come i palestinesi chiamano le espropriazioni e la disgregazione della società palestinese a seguito degli eventi del 1948. Per più di un mese, i palestinesi di Gerusalemme avevano sistematicamente subìto le provocazioni delle autorità israeliane, dalla limitazione dell’accesso allo spiazzo di fronte alla Porta di Damasco – tradizionale luogo di ritrovo della comunità palestinese – fino alle irruzioni dell’esercito nella spianata delle moschee.

Nel mentre, le manifestazioni represse violentemente dalla polizia a Sheikh Jarrah hanno avuto un effetto esplosivo, al punto che, il 10 di maggio, la Corte Suprema di Israele ha deciso di posticipare il verdetto sulle case.

Gli scontri di Sheikh Jarrah sono stati ridotti dal ministro degli affari esteri israeliano a «dispute catastali». Questa espressione è stata ripresa anche da diversi media nostrani, che hanno poi contestualizzato queste “dispute” come parte della “quotidianità” del conflitto etnico-religioso pluridecennale tra israeliani e palestinesi. Si tratta di una narrazione tanto diffusa quanto mistificatoria. Infatti la declinazione del conflitto in chiave etnico-religiosa, ammiccando all’ineluttabilità dell’odio ancestrale tra arabi ed ebrei, ci distrae dal presente e deresponsabilizza la politica dalle decisioni concrete che hanno portato alla realtà di oggi.

Ciò che è accaduto e sta ancora accadendo a Sheikh Jarrah – e in diverse altre zone di Gerusalemme – non è il frutto di un odio antico e neppure di una disputa catastale, ma è il risultato di scelte politiche promosse negli ultimi vent’anni con un solo obiettivo: depalestinizzare in modo sistematico la municipalità di Gerusalemme, in particolare i quartieri che circondano la città vecchia.

Al momento più di mille persone residenti nei quartieri di Gerusalemme Est di Silwan, Batan el Hawa e Sheikh Jarrah hanno una causa di sfratto in corso. Quindi, per capire qual è la situazione attuale e quali scelte politiche sono state intraprese a Gerusalemme est, torniamo a Sheikh Jarrah, dove tutto è iniziato e dove tutto sta continuando.

GEOGRAFIA STORICA DI GERUSALEMME

Per farlo ci dirigiamo a nord della città vecchia di Gerusalemme. Ci lasciamo alle spalle la Porta di Damasco (Bab al-Amud), attraversiamo Sultan Suleiman street, la strada che cinge le mura di Saladino sul lato nord, e ci incamminiamo lungo Nablus road. Superiamo il caffè al-Mihbash e il laboratorio di ceramiche della famiglia Balian, seguiamo la strada che discende la collina verso l’American Colony Hotel e in meno di due chilometri siamo a Sheikh Jarrah, quartiere a maggioranza palestinese di Gerusalemme Est.

La guerra arabo-israeliana, esplosa immediatamente dopo la proclamazione dello stato di Israele nel maggio del 1948, portò alla divisione di Gerusalemme in due parti, separate dalla Green Line (linea verde) tracciata dal comandante israeliano Moshe Dayan e il comandante giordano Abdullah al-Tal nel novembre del 1948. La Green Line tagliava la città a metà: la parte ovest controllata da Israele, il lato est in mano al Regno Hashemita di Giordania. La città vecchia di Gerusalemme e tutti i suoi luoghi sacri, situata a est della linea verde, rimasero sotto il controllo giordano fino al 1967, quando Israele occupò l’intera città, oltre alla West Bank, alla striscia di Gaza, al Sinai e alle alture del Golan.

Al Aqsa. Foto di Benedetta Seraponi

Sheikh Jarrah ha una storia molto più antica. Il quartiere era originariamente un villaggio che prese il nome dall’emiro (sheikh) Hussam al-Din, meglio noto come al-Jarrahi (in arabo, il guaritore, o il chirurgo). Al-Jarrahi era il medico personale di Saladino, il condottiero musulmano che liberò Gerusalemme dai crociati nel dodicesimo secolo. Diventò un quartiere di Gerusalemme solo verso la fine del diciannovesimo secolo, quando alcuni notabili palestinesi iniziarono a costruirci le loro abitazioni, preferendole alle case insalubri e sovraffollate all’interno delle mura della città antica. Nel 1905, secondo il censo ottomano, le famiglie musulmane che vivevano nel quartiere di Sheikh Jarrah erano 167.

Fin dal medioevo, però, Sheikh Jarrah era anche luogo di pellegrinaggio per gli ebrei. I pellegrini giungevano numerosi per visitare la grotta dove, secondo la tradizione, si trovava la tomba di Shimon ha-Tsadik (Simone il Giusto), sacerdote ebreo che visse a Gerusalemme tra il terzo e il quarto secolo avanti Cristo.

Come riporta il professor Yair Wallach, fonti storiche di fine Ottocento raccontano della porosità della società gerosolimitana. Il suonatore di oud Wasif Jawyhariyyam, palestinese cristiano, racconta nelle sue memorie che ogni anno, alla fine della primavera, si svolgeva nei pressi della tomba di Shimon ha-Tsadik una grande celebrazione pubblica ebraica. La festa era nota agli arabi come “Shathat al-yahudiyya”, il festival degli ebrei, e includeva preghiere rituali, l’accensione di candele, danze, musica e cibo. Il musicista racconta che oltre agli ebrei, anche i palestinesi musulmani e cristiani non si perdevano questa celebrazione.

Nel 1876 i capi delle comunità ebraiche sefardita (ebrei di origine spagnola) e ashkenazita (ebrei di origine centro-europea) acquistarono insieme la grotta dove si trova la tomba di Simone il Giusto e poco più di un ettaro del terreno circostante. Nel 1890, nella zona tra Nablus road e la tomba, iniziò la costruzione di un quartiere che prese il nome di Shimon ha-Tsadik. Qui, nel 1916, vivevano 13 famiglie.

Anche poco più a ovest furono costruite delle abitazioni alle quali ci si riferiva come Nahalat Shimon. Qui le case vennero principalmente date a famiglie meno abbienti, di origine sefardita-yemenita e il quartiere in breve tempo si sovrappopolò al punto che nel 1916 era abitato da 93 famiglie. La zona a sud della tomba del sacerdote, invece, rimase a lungo non costruita.

LA SVOLTA DEL 1948

La guerra tra arabi e israeliani del 1948 portò allo sradicamento e all’espulsione di migliaia di persone; circa 700.000 palestinesi furono costretti ad abbandonare le proprie case e proprietà situate nel neonato stato d’Israele. Di questi, circa in 20.000 furono costretti a lasciare le loro case a Gerusalemme Ovest, mentre circa 2000 ebrei dovettero lasciare Gerusalemme Est, soprattutto il quartiere ebraico nella città vecchia. Quando le forze giordane stavano per occupare Gerusalemme Est, anche gli ebrei che vivevano a Shimon ha-Tsadik e Nahalat Shimon furono evacuati.

Raggiunto l’armistizio, il governo giordano affidò la gestione dei terreni “abbandonati” dal nemico alla Jordanian Custodian of Enemy Property. Nel 1956, la Giordania e l’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente) costruirono 28 unità abitative per i profughi palestinesi sui terreni situati a sud della tomba di Shimon ha-Tsadik. In cambio delle abitazioni, i nuovi residenti dovettero rinunciare alla loro carta annonaria, ovvero a parte degli aiuti ai quali potevano accedere in quanto rifugiati. Secondo il contratto, ogni famiglia palestinese, in quanto affittuaria, doveva pagare annualmente un affitto simbolico al governo di Amman. Passati i primi tre anni, il contratto poteva essere rinnovato per altri trent’anni e dopo questi per altri trentatré. Questo nell’eventualità che gli affittuari non fossero riusciti a tornare nelle proprie case d’origine; in caso contrario, gli appartamenti si sarebbero dovuti restituire al governo giordano.

Pochi mesi dopo la vittoria della guerra del 1967, Israele annesse circa 70 kmq di West Bank ai confini municipali di Gerusalemme, estendendo a quest’area la legge israeliana, in violazione dei trattati internazionali. Con la conquista di Gerusalemme Est, le proprietà gestite dalla Jordanian Custodian of Enemy Property passarono al cosiddetto Custode Generale, ente parte del Ministero della Giustizia israeliano.

Abitanti di Gerusalemme. Foto di Benedetta Seraponi

Poco dopo l’occupazione di Gerusalemme nel 1967, Israele fece un censimento e decise che tutti coloro che risultavano assenti dalle proprie case avrebbero perso il diritto di ritorno alle proprie abitazioni. Al contrario, coloro che erano presenti al momento del censimento, ottennero lo status di “residenti permanenti” di Gerusalemme e quindi di Israele.
I “residenti permanenti” di Gerusalemme hanno meno diritti rispetto ai palestinesi con cittadinanza israeliana. Un residente permanente, ad esempio, può vivere e lavorare in Israele, avere l’assistenza sanitaria, votare alle elezioni municipali – ma non può candidarsi – ma non può votare alle elezioni nazionali. Per un residente permanente è estremamente difficile ottenere un permesso di riunificazione famigliare nel caso il coniuge non sia un residente permanente.

La situazione negli anni è peggiorata: B’tselem (il Centro Israeliano di informazione sui Diritti umani nei Territori Occupati) riporta che nel 2003 il governo israeliano ha passato una legge che impedisce l’estensione della residenza permanente ai congiunti di residenti permanenti di Gerusalemme. Dal 1967, Israele ha revocato la residenza permanente a circa 14.500 Palestinesi di Gerusalemme.

Nel 1970, Israele passò la Legal and Administrative Matters (Regulation) Law che, tra le altre cose, legiferava sulle proprietà degli ebrei che vivevano a Gerusalemme Est prima del 1948. Secondo la legge, queste proprietà, se reclamate, dovevano tornare ai proprietari originari. Ma la legge, in Israele, non è uguale per tutti. Se un cittadino palestinese volesse reclamare la proprietà di un’abitazione posseduta a Gerusalemme ovest prima del 1948, questa legge, su di lui, non si applicherebbe. Per i palestinesi vige la Absentees’ Properties Law, legge del 1950 per facilitare il passaggio a Israele di proprietà palestinesi forzatamente abbandonate durante la guerra.

Diversi trust ebraici iniziarono così le procedure legali per riacquisire le proprietà e registrarle a loro nome. Nel 1972 questi procedimenti si conclusero con il passaggio di proprietà. Secondo il giornalista israeliano Nadav Shragai, le proprietà furono successivamente vendute a un’organizzazione di coloni. I “proprietari” attuali sono membri della Nahalat Shimon International: un’organizzazione basata negli Stati Uniti che ha tra i suoi obiettivi il sostegno all’ebraicizzazione di Gerusalemme Est. Nell’agosto 2008 questa organizzazione ha sottoposto al Comitato Regionale per la Pianificazione e la Costruzione un piano per rimuovere 500 residenti palestinesi e far largo alla costruzione di un quartiere ebraico con 200 unità abitative.

Dall’inizio del 2020, 36 famiglie palestinesi, 165 persone, sono state sfrattate dalle proprie case per effetto delle sentenze delle corti israeliane in favore dei coloni. A oggi, nessuno giudice ha ancora deliberato contro lo sfratto di famiglie palestinesi. Queste famiglie abitavano nei quartieri di Batan al-Hawa, Silwan, e Sheikh Jarrah: tutti quartieri che si trovano intorno alla città vecchia di Gerusalemme e formano una sorta di cintura, da sud a nord.

La via legale è uno dei vari metodi attraverso i quali Israele, dal 1967, sta tentando di consolidare il suo controllo di Gerusalemme. Inizialmente, gli sforzi di Israele si sono concentrati soprattutto sulla costruzione di insediamenti ebraici a ridosso dei nuovi confini della municipalità. Questo permetteva di stabilire una superiorità demografica e ingrandire l’area di scambio in caso di future negoziazioni. Con la fine degli anni ‘80, invece, si è gradualmente strutturato un piano di insediamenti all’interno dei quartieri palestinesi. Nel 1987 Ariel Sharon, allora Ministro dell’industria e del commercio, comprò una casa nel quartiere musulmano della città vecchia. Una provocazione che lo stesso sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, definì «controproducente».

LA SITUAZIONE OGGI

Negli anni ‘90 la situazione peggiorò ulteriormente. Con il primo governo Netanyahu nel 1996 gli insediamenti di coloni di organizzazioni come El-Ad e Ateret Cohanim sono sensibilmente aumentati, grazie al supporto diretto e indiretto del governo.

Oltre agli insediamenti e alle espulsioni, un metodo per svuotare Gerusalemme dai palestinesi è ostacolare lo sviluppo urbano dei loro quartieri negando loro i permessi necessari per costruire nuove abitazioni o ampliare le abitazioni già esistenti e non investendo i soldi della municipalità in queste aree della città. Sono zone dove, come racconta Jawad Siyam – community organiser del quartiere di Silwan – mancano marciapiedi, parchi gioco, aree pubbliche.

Al fianco delle sentenze in tribunale, le autorità israeliane sin dagli anni ‘70 hanno incoraggiato e realizzato progetti di ricerca e conservazione del patrimonio culturale e archeologico della città: un altro metodo per de-arabizzare la storia di Gerusalemme.

Il controllo del patrimonio culturale è un veicolo prezioso per costruire la storia nazionale di una Paese che, attraverso manufatti antichi, racconta le proprie radici e afferma la legittimità a esistere come comunità in un certo luogo. Per Israele, l’archeologia è divenuto uno strumento per ignorare specifici strati storici in favore di altri che confermano la presenza ebraica a Gerusalemme da epoche antiche.

La Città Vecchia. Foto di Benedetta Seraponi

La creazione di “parchi nazionali” naturali e archeologici è un’altra modalità con la quale Israele tenta di ‘isolare” la città vecchia dal tessuto urbano che la circonda; l’espropriazione di terreni destinati all’interesse pubblico è un modo di impedire lo sviluppo urbano di aree ad alta densità palestinese. Il “Walls of Jerusalem National Park” è il primo parco nazionale istituito a Gerusalemme nel 1976. Questo include un’area che circonda le mura estendendosi fino a Silwan, quartiere palestinese a sud della città vecchia. Dal 1990, altre aree di Gerusalemme Est sono state trasformate in parchi nazionali, spesso senza fornire una giustificazione sull’importanza archeologica, storica, o paesaggistica della zona. Il Tzurim Valley National Park è uno di questi. Creato senza alcuna spiegazione specifica nel 2000 su circa 17 ettari di terreno a est di Gerusalemme, alle pendici del Monte Scopus, si estende fino al quartiere palestinese di Wadi al-Joz e crea un blocco di spazio aperto dove è impossibile per i palestinesi costruire e quindi sviluppare il loro quartiere.

Nel 2021 due organizzazioni, B’tselem e Human Rights Watch, hanno pubblicato, per la prima volta, due report nei quali definiscono Israele un regime di apartheid. Human Rights Watch, riferendosi allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, definisce apartheid come «gli atti inumani commessi in un contesto di regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominazione di un gruppo etnico su un altro».

B’tselem, dalla sua nascita nel 1989, si occupa di monitorare il rispetto dei diritti umani nei Territori Occupati. Nel report pubblicato a gennaio 2021, l’organizzazione spiega che oggi il termine “occupazione” non è più adeguato per descrivere la situazione di Israele e della West Bank. La realtà non è più quella di uno stato sovrano e democratico, Israele, e di un territorio dove vige un’occupazione militare temporanea, la West Bank. La distinzione tra queste due realtà è andata progressivamente sfumando: Gerusalemme Est è stata annessa ufficialmente a Israele, la West Bank è un territorio frammentato, dove vivono quasi 800.000 coloni israeliani, in città vere e proprie, dove vige il diritto israeliano.

Nel 2020, in Israele, si è iniziato a parlare apertamente di annessione della West Bank. In altre parole, la realtà è sempre più quella di un solo stato, iniquo, basato sulla supremazia ebraico-israeliana. È difficile immaginare il successo di qualsiasi futura negoziazione senza prendere atto di questo stato di realtà.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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