di Timothée Parrique

[Nel marzo 2019, Corinne Le Quéré del Tyndall Centre for Climate Change Research nel Regno Unito e altri nove studiosi hanno pubblicato su Nature “Drivers of declining COemissions in 18 developed economies”, uno degli studi più citati a favore della “Crescita Verde”, la dottrina – caldeggiata dalla Banca Mondiale, dall’UE, dall’Ocse e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente – che ritiene possibile conciliare la continuità della crescita economica con una riduzione dell’impatto sul pianeta tale da scongiurare la catastrofe climatica.
Quella che segue è l’analisi dei risultati dello studio della Le Quéré ad opera di 
Timothée Parrique*, ricercatore di economia e autore di “Decoupling debunked – Evidence and arguments against green growth” (2019), un rapporto pubblicato dall’European Environmental Bureau (EEB).
Alla domanda “
la crescita verde sta realmente avvenendo?”, la risposta è no. “Il decoupling non sarà sufficiente a garantire la sostenibilità ecologica in mancanza di un ridimensionamento della produzione e del consumo”.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in inglese il 29 aprile 2021 da “
 Uneven Earth. Where the ecological meets the political“. Traduzione in italiano di Lodovica Muratelli, tratta da Ecor.Network.]


Chi segue le questioni relative al cambiamento climatico, avrà sicuramente sentito parlare di decoupling. Il termine si riferisce alla possibilità di sganciare il prodotto interno lordo (PIL) dalle pressioni sull’ambiente. La crescita verde di cui tutti parlano in questi giorni presuppone che le attività economiche possano essere sganciate dal danno ecologico.

Gli studi sul decoupling di solito non diventano virali, eppure uno lo è diventato. Nel marzo 2019, Corinne Le Quéré del Tyndall Centre for Climate Change Research nel Regno Unito e altri nove studiosi hanno pubblicato un articolo su Nature intitolato “Drivers of declining COemissions in 18 developed economies”. È uno tra i tanti – 835 per essere precisi – secondo una Quello che rende speciale questo studio è la frequenza con cui è stato citato online per acclamare la crescita verde. Ma una lettura accurata dell’articolo fornisce un’impressione più articolata.

Le percentuali di decoupling sono minime

Lo studio prende in considerazione 18 economie sviluppate (Svezia, Romania, Francia, Irlanda, Spagna, Regno Unito, Bulgaria, Paesi Bassi, Italia, Stati Uniti, Germania, Danimarca, Portogallo, Austria, Ungheria, Belgio, Finlandia e Croazia) tra il 2005 e il 2015, e scopre che, in quel decennio, le emissioni sono diminuite in media del 2,4% l’anno.

È una cifra irrisoria – tre volte più piccola del taglio annuale del 7.6% delle emissioni globali che sarebbe necessario per raggiungere l’obiettivo di 1,5°C di Parigi (e questo numero è del 2019; i tagli dovrebbero essere ancora più grandi oggi). Un esempio eclatante è la Francia. Lo studio mostra che la Francia ha diminuito le emissioni basate sul consumo del -1,9% all’anno nel periodo in cui non c’è stata quasi nessuna crescita del PIL (+0,9%). Ora confrontiamo questo dato con l’obiettivo francese per il clima, che è di raggiungere 80 MtCOuna riduzione dell’80% rispetto ai livelli di emissioni del 2019.

La Gran Bretagna è un altro caso emblematico. Il paese è spesso lodato per aver raggiunto la più rapida operazione di decoupling sulla Terra. Nello studio di Le Quéré, le sue emissioni basate sul consumo sono diminuite del -2,1% all’anno tra il 2005 e il 2015 con tassi di PIL positivo dell’ 1,1% circa. Non è molto in termini di decoupling; il paese si è impegnato a ridurre le emissioni del doppio (5,1% all’anno). Per rispettare realmente l’accordo di Parigi, la Gran Bretagna deve raggiungere un abbattimento annuale del 13% delle emissioni, a partire da adesso, e per i decenni a venire. Si tratta di molto – molto – di più di quello che la crescita verde può fornire.

Gli stessi autori si mantengono dalla pare della cautela: “ “per quanto significative siano state, le riduzioni delle emissioni osservate […] sono molto lontane dalla profonda e rapida decarbonizzazione globale del sistema energetico implicita negli obiettivi di temperatura dell’Accordo di Parigi, soprattutto se si considerano gli aumenti delle emissioni globali di CO2 nel 2017 e 2018, e il rallentamento della decarbonizzazione in Europa dal 2014..” I dati di quest’anno supportano la cautela degli autori: In molte economie ad alto reddito la de-carbonizzazione è rallentata dopo il 2015.  

Il fatto che questi tassi siano così bassi è preoccupante perché presumibilmente abbiamo a che fare con i migliori casi di decoupling del paese. Ipotizzare che questi tassi possano improvvisamente accelerare sarebbe come aspettarsi che Usain Bolt triplichi la sua velocità di corsa. E, ancora più inverosimilmente, avremmo bisogno che tutti i paesi del mondo triplicassero i livelli di record.  

Un’economia “sostenibile” in qualsiasi interpretazione ragionevole del termine deve prendere in considerazione tutte le complesse interazioni che ha con gli ecosistemi, e non solo il carbonio

Irrisorio è molto lontano da sufficiente   

Nel marzo 2021, gli autori hanno pubblicato un nuovo studio che mostra che, tra il 2016 e il 2019, 64 paesi sono riusciti a tagliare le loro emissioni annuali di CO2 dello 0,16 GtCO2.
È un buon risultato, ma ancora non è abbastanza. E il non abbastanza ha conseguenze disastrose.
Per essere precisi, si tratta di un decimo di quello che sarebbe necessario a livello globale per raggiungere gli obiettivi climatici di Parigi; e se 64 paesi sono riusciti a ridurre le emissioni, altri 150 non lo hanno fatto. Questi ultimi hanno aumentato le loro emissioni di 0,37 GtCO2 ogni anno. Basta mettere insieme i due numeri per capire che le emissioni globali sono in realtà cresciute di 0,21 miliardi di tonnellate all’anno.  

E questo mette sotto pressione le economie ad alto reddito. Per consentire ai paesi in via di sviluppo di accrescere la loro impronta ecologica, le nazioni ricche devono ridurre il più possibile la loro. La neutralità climatica a livello nazionale entro il 2050 non è sufficiente se vogliamo che i più poveri di oggi abbiano la possibilità di accrescere il loro consumo materiale. E i tassi del 1-3% di riduzione nelle nazioni ricche sono lungi dall’essere sufficienti a compensare l’aumento dell’uso delle risorse che sta avvenendo nel Sud del mondo.

Questo è corretto solo considerando le emissioni prodotte in passato. La parte settentrionale del mondo è responsabile del 92% delle emissioni globali di CO2 in eccesso (quelle che superano la soglia dei 350 ppm).
Per esempio, la Francia ha già superato la sua quota del bilancio climatico di 29,4 GtCO2.
Lo studio di Le Quéré indica che ha diminuito le sue emissioni di 10 MtCO2  ogni anno tra il 2005 e il 2015. Di questo passo, e ipotizzando la neutralità del carbonio, la Francia impiegherebbe quasi tre millenni per riassorbire il suo debito climatico.   

Crescita verde senza crescita  

Le emissioni nei 18 paesi studiati sono diminuite del -2,4% ogni anno, ma quanto è cresciuto PIL in quel periodo?
La risposta é: poco.
Queste economie sono cresciute in media del +1,1%. Danimarca, Italia e Spagna guidano il gruppo del decoupling con riduzioni annuali di carbonio rispettivamente di -3,7%, -3,3% e -3,2%.
Tuttavia, difficilmente si può parlare di crescita verde, perché queste economie sono cresciute a malapena, o sono addirittura regredite (+0,6% del PIL nel caso della Danimarca, -3,3% per l’Italia, e -3,2% per la Spagna).   

Gli autori riconoscono che questo periodo non è affatto straordinario: “Queste riduzioni dell’intensità energetica del PIL nel 2005-2015 non si distinguono rispetto alle riduzioni simili osservate a partire dagli anni ’70, ad indicare che le diminuzioni dell’uso di energia nel gruppo di picco e declino potrebbero essere spiegate almeno in parte dalla minore crescita del PIL.” 

Quindi, il documento più citato per affermare che la crescita economica senza carbonio è possibile dimostra anche che parte della decarbonizzazione è dovuta al fatto che c’è stata poca o nessuna crescita. Non sorprende quindi che, usando delle simulazioni, gli autori stimino che “se il PIL ritorna a crescere fortemente nel gruppo “picco e declino”, le riduzioni nell’uso dell’energia possono indebolirsi o essere invertitea meno che non vengano attuate forti politiche climatiche ed energetiche.” 

Sostenibilità è più che solo carbonio  

Lo studio degli autori è sul carbonio, ma il carbonio è solo uno dei tanti problemi ambientali. Sfortunatamente, è l’unico ad essere adeguatamente studiato, con l’ 80% degli studi sul decoupling focalizzati sull’energia primaria e sui gas serra. Rimangono solo pochi studi condotti su altri aspetti della disgregazione ecologica, tra cui l’uso dei materiali, dell’ acqua, il cambiamento della terra, l’inquinamento dell’acqua, i rifiuti e la perdita di biodiversità.  

Anche se ci sono delle storie incoraggianti di decoupling che riguardano le emissioni di carbonio, gli studi che tracciano altri indicatori ci raccontano una storia diversa, una storia dove l’economia è ancora fortemente agganciata alla produzione biofisica.
I materiali sono un buon esempio. Se nel ventesimo secolo l’economia mondiale si stava  gradualmente de-materializzando, negli ultimi due decenni la tendenza si è invertita. . Già solo questo dovrebbe mitigare l’ottimismo sull’ ipotesi di forniture infinite di energia rinnovabile, che dopo tutto, dipendono dall’estrazione di quantità finite di minerali.

Voglio dire che Un’economia “sostenibile” in qualsiasi interpretazione ragionevole del termine deve prendere in considerazione tutte le complesse interazioni che ha con gli ecosistemi, e non solo il carbonio.
Un’economia genuinamente sostenibile non solo dovrebbe essere neutrale rispetto al carbonio, ma anche rimanere entro le capacità rigenerative di tutte le risorse rinnovabili, entro gli stock accettabili di risorse non rinnovabili, e all’ interno delle capacità assimilative degli ecosistemi. Anche se la sostenibilità dovrebbe essere intesa come molto più che la sola condizione dell’ambiente biofisico, sembra evidente che vivere entro i confini del pianeta è una condizione minima e non negoziabile per qualsiasi tipo di prosperità duratura.   

Dal momento che il PIL rimane significativamente agganciato alle emissioni di carbonio e ad altre pressioni sull’ambiente, un buon modo per limitare i danni ecologici è quello di porre dei limiti alle dimensioni dell’economia.

Decoupling temporaneo

Mitigare le pressioni ambientali in un’economia in crescita non implica solo il raggiungimento di uno sganciamento assoluto dal PIL, ma richiede anche di mantenere tale sganciamento nel tempo per tutto il tempo in cui l’economia cresce (ricordando che le emissioni devono essere ridotte di almeno il 7,6% ogni anno da oggi in poi).
In altre parole, una crescita economica continua richiede un decoupling assoluto permanente tra la crescita del PIL e le pressioni ambientali. Eppure, così come la crescita economica e le pressioni ambientali possono sganciarsi in un determinato momento, possono altrettanto facilmente  riagganciarsi in seguito.  

Succede più spesso di quanto pensiamo. Riflettiamo sul momento in cui l’Agenzia internazionale dell’energia ha dichiarato che il decoupling era  “confermato”  dopo aver osservato un livellamento delle emissioni globali nel 2015 e 2016. Eppure, tale decoupling è stato di breve durata. Infatti, è stato causato soprattutto dal passaggio della Cina dal carbone al petrolio e al gas nello stesso momento in cui gli Stati Uniti stavano passando al gas di scisto. Lo spostamento è stato temporaneo. In seguito, la crescita economica si è riagganciata alle emissioni di carbonio.

Anche con le energie rinnovabili possono verificarsi situazioni di riaggancio.
Nel decennio tra il 2005 e il 2015, Austria, Finlandia e Svezia hanno rinverdito il loro mix energetico e, di conseguenza, hanno abbassato le loro emissioni. Ma una volta completato questo spostamento, una crescita ulteriore richiederà un’espansione dell’infrastruttura energetica, che implicherà ulteriori pressioni ambientali.
Infatti, questo è ciò che è successo dopo il periodo esaminato. L’Austria ha diminuito le sue emissioni del -0.6% nel 2006-2010 e del -1.6% nel 2011-2015, ma le emissioni sono tornate  positive del +0.3% nel 2016-2019. Una storia simile si è verificata in Finlandia e Svezia; i tassi di riduzione hanno accelerato tra il 2006 e il 2015, ma poi hanno rallentato.

Alcuni commentatori hanno ipotizzato che il ritorno della crescita economica dopo la pandemia sarebbe stato verde, o almeno, più verde. Eppure, le emissioni globali di anidride carbonica legate all’energia sono in procinto di aumentare di 1,5 miliardi di tonnellate nel 2021 – il secondo maggior aumento nella storia, invertendo la maggior parte del declino causato dalla pandemia. La lezione della crisi del Corona è questa: Non bastano lievi oscillazioni da leggere a pesanti battute ecologiche, bisogna trasformare radicalmente e immediatamente l’economia.   

Abbiamo bisogno di politiche ambientali?  

Sì, ne abbiamo bisogno e il documento di Le Quéré è chiaro al riguardo. Abbiamo bisogno di politiche energetiche e climatiche, “soprattutto se la crescita del PIL aumenta,” scrivono gli autori. Ma cosa succederebbe se limitare il PIL fosse considerato una politica climatica accettabile?
È l’idea della  decrescita. Dal momento che il PIL rimane agganciato in modo significativo alle emissioni di carbonio e ad altre pressioni ambientali, un buon modo per limitare i danni ecologici è quello di porre dei limiti alle dimensioni dell’economia.
Se le emissioni di carbonio sono diminuite del -2,4% con un aumento del PIL del +1,1%, immaginate quanto più velocemente potrebbero essere ridotte se la crescita economica non fosse prioritaria rispetto ai rischi inimmaginabili di un collasso ecologico incontrollato.  

Sappiamo che fermare la macchina della crescita porta a tagli drastici delle emissioni perché è accaduto durante la pandemia. Il rallentamento dell’attività economica ha portato a una riduzione storica delle emissioni globali: -7% rispetto al 2019.
Quello che è successo durante la crisi potrebbe anche avvenire in modo più gestito sotto forma di una  prosperità senza crescita nei paesi che consumano più della loro quota del bilancio globale del carbonio.
Certamente, il PIL è un indicatore, non un pulsante politico. Pertanto c’è bisogno di una varietà di politiche orientate alla sufficienza che limitino la produzione e il consumo, e la finanza speculativa, specialmente nei settori ad alta densità di risorse naturali.  

Dovremmo concentrarci sulle emissioni dove sono ora, assicurandoci allo stesso tempo che i guadagni di efficienza non siano cancellati da una maggiore domanda attraverso effetti di rimbalzo. Per esempio, si potrebbe  decrescere l’aviazione  fissando quote aeroportuali sul numero di voli al giorno, limitando la costruzione di nuovi aeroporti e piste, e introducendo una tassa per i frequent flyer (cioè si ottiene un primo volo senza tassa ogni tre o quattro anni, ma il secondo volo ha una tassa che raddoppia ad ogni ulteriore volo). Invece di sperare che l’espansione del settore dell’aviazione si sganci dal danneggiamento del pianeta, si potrebbe limitare la portata di quel settore per abbassare direttamente le sue emissioni.   

Il decoupling non basta

In sintesi, Le Quéré et al. (2020) registrano un decoupling in 18 paesi sviluppati tra il 2005 e il 2015. Ma ci sono alcuni ammonimenti.
In primo luogo, i tassi di decoupling sono molto lontani dal raggiungere anche il più modesto degli obiettivi climatici nazionali.
Secondo, sono ancora più insufficienti se si considerano gli sforzi redistributivi necessari per raggiungere la giustizia climatica.
Terzo, parte di questo decoupling si spiega con i bassi tassi di crescita economica.
Quarto, il periodo di studio è limitato e non si può garantire che il decoupling che si è verificato non si riagganci in seguito.
Infine, l’analisi riguarda solo il carbonio e non tiene conto di altre pressioni sull’ ambiente.

Quindi, la crescita verde sta avvenendo? La risposta è no, proprio no.
Ad oggi, la crescita economica è ancora un veicolo di sfruttamento delle risorse e di degrado ambientale. Nei paesi ad alto reddito, il perseguimento di un’ulteriore crescita potrebbe perfino non essere  socialmente vantaggioso, soprattutto se accompagnato da una crescente disuguaglianza. Considerando la crescente domanda di risorse nelle regioni più svantaggiate del mondo, la continua ossessione per la crescita nelle nazioni già ricche sta diventando insostenibile.
Il decoupling semplicemente non è abbastanza. Invece di lottare per “rendere verdi” le economie in espansione, dovremmo riorientare il lavoro mobilitando strategie orientate alla sostenibilità come la decrescita e la post crescita. In definitiva, sono necessari sia il rendimento sia la sufficienza. Una cosa è indiscutibilmente chiara, quello che dobbiamo eliminare è la mentalità della crescita a tutti i costi che sacrifica la salute socio-ecologica per dare la priorità al PIL sopra ogni cosa.

* Timothée Parrique ha conseguito un dottorato di ricerca in economia presso il Centre d’Études et de Recherches sur le Développement (Università di Clermont Auvergne, Francia) e lo Stockholm Resilience Centre (Stockholm University, Svezia). Intitolata “The political economy of degrowth” (2020), la sua tesi esamina le implicazioni economiche delle idee di decrescita e post-crescita.
Timothée Parrique è anche l’autore principale di “Decoupling debunked – Evidence and arguments against green growth” (2019), un rapporto pubblicato dall’European Environmental Bureau (EEB), liberamente scaricabile.


Decoupling debunked – Evidence and arguments against green growth
Parrique T., Barth J., Briens F., C. Kerschner, Kraus-Polk A., Kuokkanen A., Spangenberg J.H.
The European Environmental Bureau, luglio 2019 – 79 pp.

Download:

È possibile godere sia della crescita economica che della sostenibilità ambientale?
Questa domanda è oggetto di un acceso dibattito politico tra i sostenitori della crescita verde e quelli della post-crescita. Considerando la posta in gioco, è necessaria un’attenta valutazione per determinare se i fondamenti scientifici alla base di questa ipotesi di disaccoppiamento siano robusti o meno.
Questo rapporto esamina la letteratura empirica e teorica per valutare la validità di questa ipotesi. La conclusione è allo stesso tempo estremamente chiara e fa riflettere: non solo non ci sono prove empiriche a sostegno dell’esistenza di un disaccoppiamento della crescita economica dalle pressioni ambientali in una misura prossima alla scala necessaria ad affrontare il degrado ambientale, ma anche, e forse cosa più importante, tale disaccoppiamento sembra improbabile che si verifichi in futuro.
“Decoupling debunked” evidenzia la necessità di ripensare le politiche di crescita verde e di integrare l’efficienza con la sufficienza.

https://www.labottegadelbarbieri.org/la-crescita-verde-sta-avvenendo-veramente/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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