Seconda puntata: “La rottura“. Se fosse uno sceneggiato, forse si intitolerebbe così il seguito dell’episodio pilota di una serie intitolabile come la famosa serie televisiva americana degli anni ’60: “Polvere di stelle“. Ma a dirigerla non sono gli ottimi Sydeny Pollack o Sam Peckinpah, bensì un confuso duetto composto da un (ex) comico prestato alla politica e un avvocato divenuto popolare grazie al primo e, soprattutto, grazie alla sua capacità di interpretare molto bene il ruolo di Presidente del Consiglio dei ministri.

Nella seconda puntata, il comico reagisce molto male alle parole dell’avvocato del popolo: non gli è piaciuto l’appellativo di “padre padrone” del movimento e non gli è piaciuto soprattutto che qualcuno lo volesse convincere. Da sempre, il comico è abituato lui per primo a convincere gli altri, unidirezionalmente: non c’è nessun sistema binario, nessun accento o cenno democratico nella sua visione dei rapporti politici che dovrebbero essere fondati su una onesta, seppur dura, dialettica interna e anche esterna.

Il comico la prende male, rigetta tutte le proposte dell’avvocato del popolo: bolla come “seicentesca” la proposta di statuto elaborata, adatta per quei partiti che, idealmente (ma poi nemmeno tanto), sono fumo negli occhi per chi ha preteso di rappresentare la democrazia di base, internettianamente parlando, con un seguito di massa nato e cresciuto sull’onda del ribellismo autoconsolatorio contro le istituzioni logore, consunte e smunte sotto il peso del privato, nella illogiità antisociale del liberismo.

Si infuria il comico, come è solito fare: «Non ha una visione, non ha capacità manageriali», sbraita contro l’avvocato diventato ormai il suo contraltare. La prima affermazione è tanto vaga quanto soggettiva; la seconda, fossi in Conte, la prenderei come un complimento. Se un partito (divenuto oggettivamente tale per un progressivo adattamento alle necessità imposte dalla politique politicienne istituzionale) per funzionare bene ha bisogno di un manager, di un imprenditore, di uno o più padroni, potrà anche avere la visione più innovativa e lungimirante possibile, ma rimarrà sempre tutto proprietà di quei due e non ne verrà fuori mai nulla di veramente rivoluzionario, capace di cambiare questa società, questa politica, questo mondo.

La “managerialità” invocata dal comico è, del resto, un dato oggettivo concernente la storia e anche l’attualità del M5S. Fin dalla sua nasciata, una delle critiche e detrazioni principali che si potevano fare senza essere smentiti, stava proprio nel possesso del Movimento, nella contraddizione plateale tra la proclamazione del sacro detto “Ognuno vale uno” e la proiezione verticistica proiettata verticalmente con una spinta inusitata al principio, ma poi sempre più oggettiva nella consapevolezza (critica) di tanti pentastellati.

Il Movimento doveva avere questo carattere messiano, visionario, incarnato in parte dall’imprenditore che voleva sostituire al Parlamento la democrazia digitale, in parte dall’uomo di spettacolo che portava in giro questa certa idea del rinnovamento sociale, ambientale e politico con battute efficaci, con la verve di chi ottiene la allucinata attenzione di decine di migliaia di persone in piazze dove nessun politico era in grado di convocare comizi così partecipati.

Si sa, i popoli aspettano i messia da millenni, perché li liberino dal giogo della sofferenza in una vita incomprensibile, per cui costantemente si cerca un senso: ma più pragmaticamente, terra a terra, senza voli metafisico-teologici, gli italiani si sono illusi (benevolmente in molti casi) di aver trovato finalmente quella alterità che aspettavano, quella diversità che era scomparsa nella sinistra, così omologata al sistema, così poco incisiva nel suo rivendicare la risoluzione di problematiche che abbracciavano davvero l’essenza della sopravvivenza per milioni di modernissimi proletari.

Il miraggio di una politica senza corrotti e corruttori, fondata sul comandamento dell’”onestà” come programma politico, quasi dovesse essere precisato e affermato, piuttosto che dato per scontato quando ci si dedica agli interessi pubblici, alla res publica stessa, divenne ben presto la sostituzione migliore al malaffare dilagante, agli interessi privati che dilagavano con soldi pubblici. La fortuna del M5S, del populismo di inizio secolo, è il prodotto di una democrazia piegata alle perversioni della variabile liberista, del mercato che regna su tutto e che ha trovato nel berlusconismo, ed anche nell’accondiscenza del centrosinistra, ottimi alleati per strutturarsi e corrodere la Repubblica, farla lentamente cadere in una debilitante consunzione.

Adesso, nell’O.K. Corrall tra il comico e l’avvocato del popolo, attorno alle case diroccate del mondo in Movimento spuntano ipotesi diverse, ritornano vecchi nomi di giovani promesse del primo grillismo.

Uno fra tutti: Alessandro Di Battista. I contorni di un Cincinnato, più che di Che Guevara. Il ribelle totale, senza se e senza ma, alla fiducia al governo Draghi: colui che non si è piegato alla ragion del mercato unitamente a quella europea e di Stato. Sia chiaro: ribellione fino ad un certo punto. Quello delle compatibilità capitalistiche, dell’accettazione del mondo delle imprese e di quello del lavoro in un interclassismo solido e fluido al tempo stesso, dove si proclama la necessità del salvataggio ambientale, della transizione ecologica senza mettere in discussione niente e nessuno del sistema delle merci e dei profitti.

La rottura pare ormai consolidarsi, ora dopo ora. Nessuno crede più ai tentativi di ricucitura tra Grillo e Conte: nemmeno Fico e Di Maio che stanno ancora tentando il tutto per tutto. Se sarà scissione, si spalancheranno le porte di un rimpasto di governo: quanto meno si ridiscuteranno gli equilibri della poco salvifica e tanto antisociale “maggioranza di unità nazionale“.

Ciò che resta del Movimento 5 Stelle dovrà rimettersi in gioco partendo questa volta dalla messa in discussione del proprietarismo politico di e su un partito, dell’alterigia primordiale di un populismo che ha fallito sotto tutti i punti di vista. Se la sinistra comunista vive una crisi pluridecennale, è altresì vero che chi ha tentato di sostituirla con esperimenti che mettevano insieme un po’ di sociale, un pizzico di ecologia, managerialità e democrazia digitale di base, si è rotto le corna sbattendo contro il muro della compromissione. Ben oltre la legittimità politica del compromesso, che può anche essere onorevole se votato al benessere pubblico e comune.

Mentre le destre estreme, sovraniste e neonazionaliste, vedono confermata la loro carta vincente nel puntare su una identità precisa, senza immacolatezza o richiami all’onestà platealmente lanciati come tratto somatico della propria riconoscibilità, i Cinquestelle si ritrovano a dover rispondere, con la crisi Grillo – Conte, della impossibile risoluzione dell’enigma costruito sull’ambiguità di fondo della loro trasversalità (anti)sociale e (im)politica.

Non si può dire che la democrazia ne esca rafforzata. La crisi del M5S non mette in forse nessuna certezza dell’asse liberista che punta su Palazzo Chigi in questo momento, ma anzi destabilizza un quadro politico già contorto, avviluppato su sé stesso, impermeabile alle tante ragioni sociali di un mondo del lavoro che – complice anche la pandemia – sta deflagrando, nonostante le manifestazioni sindacali di questi giorni.

Buon gioco ne avranno solamente le destre, già a partire dalla tornata elettorale del prossimo autunno, senza che sia pronta una sinistra di alterantiva a farsi largo tra le macerie di quello che per molti è stato un sogno ora schiantatosi rovinosamente al suolo.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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