Riceviamo e pubblichiamo

di Franco Astengo

Nell’editoriale firmato da Massimo Franco apparso il 4 settembre sul “Corriere della Sera” si affronta l’analisi del processo in corso di ridefinizione della forma di governo.

Una rara occasione di riflessione, almeno dall’avvento dell’attuale esecutivo,

Nell’articolo si descrive come si possa pensare a un “rimodellamento delle gerarchie istituzionali, con Palazzo Chigi in un ruolo quasi “tolemaico” e il sistema politico parlamentare impegnato in un dibattito animato ma anche separato dalle sorti dell’esecutivo”.

In questo modo, secondo l’autore (che ritiene comunque il progetto di non facile realizzazione), si eviterebbero “invasioni di campo” tra diversi poteri e si arriverebbe a una sorta di “fusione” ( o perlomeno di interdipendenza diretta) tra Presidenza della Repubblica e Presidenza del Consiglio.

Per realizzare questo surrettizia modificazione costituzionale, almeno a nostro giudizio, servirebbe(considerata la struttura del sistema politico italiano) l’adozione di un sistema elettorale fortemente maggioritario con ritorno al bipolarismo.

Sistema elettorale dal cui sgorgherebbe come naturale una sorta di designazione diretta del Capo dell’Esecutivo (soluzione simil- tedesca : situazione nella quale il sistema elettorale è misto, con doppio voto proporzionale e maggioritario e sbarramento al 5% per la parte proporzionale).

I due rami del Parlamento risulterebbero così finalmente ridotti ad una funzione di mera approvazione dell’indirizzo governativo:un discorso che arriva da lontano se pensiamo all’invadenza, fin dagli anni ’80, della decretazione d’urgenza, poi ai dpcm e via raccontando.

Appare evidente la volontà di conseguire il superamento dell’equilibrio costituzionale tra i poteri e la “deviazione” dalla centralità parlamentare: una tentazione “salazarista” che abbiamo già attraversato nel passato più o meno recente.

Una struttura del potere che rimarrebbe, nell’ipotesi delineata nell’articolo del Corriere centrata su due figure monocratiche in modo da rispondere direttamente ai nuovi livelli di dominio sovranazionali e sovrastatuali: probabilmente i veri centri dove governo e potere si sono intrecciati.

Una struttura semplicemente “sostenuta” all’esterno da un parlamento bipolare ma equamente filogovernativo. Lo schieramento parlamentare che uscirebbe suffragato dalle urne risulterebbe semplicemente complementare, tanto più che ci troveremmo in una Camera di ridotte dimensioni privata della capacità di rappresentazione politica e territoriale e di un Senato costretto in un quadro di evidente inferiorità istituzionale con il bicameralismo profondamente falsato pur essendo stato rinnovato recentemente (dicembre 2016) come istanza di natura costituzionale.

Verrebbe fuori, insomma, un Parlamento di notabili rappresentativi più o meno di sé stessi tutti più o meno governativi, che tanto varrebbe tornare ad eleggere da parte di una élite economica raccolta attorno al “caminetto”.

La democrazia “classica”, quella che abbiamo sempre intesa appunto per via parlamentare, sembra ormai ridotta a simulacro e gli interpreti ristretti nella sua estrema forma “recitativa” .

All’interno di questo quadro nel sistema politico italiano emerge ,in aggiunta, come il PD risulti totalmente privo di una linea politica che non sia quella dell’accomodamento comunque nell’ambito governativo: eppure si dovrebbe trattare del principale partito in una ipotesi di ritorno ad un futuribile centrosinistra che comprenderebbe quel M5S del quale si constaterà il grado di declino dall’esito delle urne del prossimo turno di elezioni amministrative.

Se si intende sviluppare un’alternativa a questo stato di cose è necessaria allora e prima di tutto una rielaborazione del concetto di rappresentanza (facendo di questo punto di riflessione politica l’elemento fondativo di una ripresa di soggettività).

Una rielaborazione che dovrebbe partire dalla formulazione di un interrogativo: il concetto di rappresentanza rimane quello fondamentale di espressione della democrazia?

Servirà ancora una rappresentanza politica da destinarsi a costruire una dimensione “visibilmente distinta” tra i diversi livelli dell’agire politico?

Se riteniamo che la rappresentanza politica rimanga fattore fondamentale della democrazia (il togliattiano “Parlamento specchio del Paese”) la nostra idea di una nuova soggettività dovrebbe allora partire dal riconoscimento di una soggettività che ritiene necessaria una “distinzione della visibilità” sul piano istituzionale e dall’idea di un recupero di ruolo per soggetti che si misurano con una articolazione in senso orizzontale della dimensione del potere.

La rappresentanza politica, infatti, deve trovare (com’è stato del resto, pur tra contraddizioni evidenti, in Italia nel periodo dei grandi partiti di massa) nel riferimento costituzionale e nell’idea giuridica della personalità dello Stato (in cui si rappresenta la “totalità” del corpo politico”) il cardine dell’unità politica del popolo.

Fuori da questo non c’è popolo ma soltanto una disgregata moltitudine che finirebbe semplicemente di subire passivamente l’isolamento del potere.

Del resto abbiamo avuto occasione di osservare il fenomeno nel corso del recente esperimento sulla democrazia diretta e dell’uno vale uno: esperimento che alla fine si è concluso con il trionfo del più vieto trasformismo.

In questa fase le forze prevalenti nel sistema politico italiano stanno tentando l’emarginazione della rappresentanza dal contesto istituzionale: di questo fatto dobbiamo cercare di essere pienamente consapevoli comprendendo anche che ci troviamo in una fase che si è cercato di descrivere e che si potrebbe appellare come di vero e proprio “arretramento storico”.

Di AFV

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