Non la radice di ogni problema, bensì il fondamento e l’origine di ogni soluzione può essere – scrive Marx – l’uomo. L’essere umano che si nutre di conoscenza, che la amplia e, a volte, la comprime, la soffoca in un ristretto e claustrofobico angusto angolo della mente e della pratica quotidiana quando decide di affidarsi agli istinti piuttosto che al ragionamento, all’analisi e alla necessaria sintesi che ne viene fuori.

Gramsci riprenderà questo neo-umanesimo marxista, spirito del mondo, fustigatore di ogni dogmatismo e di ogni religiosità creata per far dipendere la volontà umana da un disegno divino che sarebbe impercettibile se l’insensatezza della vita non attanagliasse la coscienza e l’ancestralità di noi tutti per spingerci a cercare un significato dell’esistenza lungo tutto il tempo che attraversiamo.

Nel rifarsi alla centralità umana come leva di cambiamento della società, Gramsci attribuirà una enorme importanza all’elemento culturale, alla coscienza di massa che nasce su tante singole coscienze che, a loro volta, devono essere ispirate da una tensione di classe proveniente anche dal partito (quello con la P maiuscola) ma, in particolar modo, dal sindacato e da tutte le organizzazioni a sostegno del proletariato sul piano sociale.

In un articolo dell’8 maggio 1920 su “L’Ordine nuovo“, il dirigente e intellettuale comunista scrive: «Le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi dirigenti del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell’attuale periodo».

L’amarezza di Gramsci aumenta nel constatare come ampi settori del PSI, che avrebbero dovuto rimanere impermeabili alle seduzioni del capitalismo, si siano posti in una condizione di passività, assistendo all’evolversi degli eventi, facendo venire meno quell’energia politica che deriva da una voglia di cambiamento che è passione politica e sociale, alla fine riconducibile sempre ad una visione del mondo, ad un sogno che può essere l’origine della verve rivoluzionaria oppure, come si rileva in questa critica, la sua tomba.

Senza studio, senza approfondimento, senza voglia di conoscenza, non può esistere una vera coscienza rivoluzionaria e nemmeno, quindi, una volontà che miri a fare di ogni gesto ed azione personale un pezzo di una organizzazione politica che muova in tal senso. Nessun cambiamento è possibile se cultura e politica non vanno a braccetto insieme, non si permeano vicendevolmente e non danno così vita ad una interpretazione dell’esistente per costruire le basi della mutazione a centottanta gradi della società.

Citto Maselli ce lo ha ricordato molto bene in questi giorni, facendo proprio riferimento all’arte, in questo caso al cinema: il ruolo di chi interpreta, mostra e dimostra come stanno le cose, come si vive nelle pieghe di una società atomizzata e fortemente individualista, è importantissimo per dare sempre nuova forza alla critica di un sistema globale che si fonda su una economia devastante e devastatrice: per tutto il pianeta.

Per questo il dirsi “comunista” di Citto Maselli è tutto fuorché anacronistico, banale e dal sapore un po’ retrò (oggi forse si preferisce dire “vintage“): al contrario rafforza l’autorevolezza morale e politica, sociale e civile di una proposta alternativa al liberismo sostenuto dai tanti liberalismi che vi si riconoscono senza troppe distinzioni e dai moderni patogeni antidemocratici ed antisociali costituiti dalla maschera sovranista messa alle pulsioni neoautoritarie.

Cinque anni fa, in una intervista pubblicata in “Corso cinema”, il fattore cultura come motore della lotta sociale era presente fin dalle prime battute del dialogo: «…ogni film che fa un regista comunista costituisce un sia pur minimo contributo alla costruzione di una coscienza critica e di un ideale per cui vivere e combattere…». E’ una restituzione dell’arte anche a sé stessa, ma in particolar modo ad un ruolo ordinatore delle idee, alla cura nei confronti del dubbio quale elemento primordialmente necessario per la crescita esponenziale della critica anticapitalista, ad ogni istinto totalitarista che riemerge nei cicli storici e nell’attualità del presente quando il potere economico è in pericolo e, di conseguenza, lo sono i privilegi su cui si fonda.

In questo contesto di approccio alla cultura, sia in senso lato sia in quello specifico di determinate discipline, il ruolo della comunicazione è fondamentale per dirigere masse di coscienze oltre la ricerca e l’inchiesta su come si vive oggi, sul perché si continua a sopravvivere nonostante l’immane massa di ricchezze che viene prodotta ogni giorno e che circola per il pianeta senza che questo sollevi dalla miseria e dall’indigenza centinaia di milioni di esseri umani che, a loro volta, schiavizzano tutti gli altri esseri viventi (non umani) nel nome del “progresso“.

La televisione, la radio e soprattutto Internet hanno – per dirla con Citto Maselli – una responsabilità in più nell’impedire una presa di consapevolezza critica: lo fanno obbedendo ai loro imprenditori-padroni, ai loro editori. Lo fanno rispondendo ad una legge “naturale” del capitalismo: la sovrastruttura che dipende direttamente dalla struttura economica, al pari di governi, parlamenti e Stati. Per questo, forse il cinema può a volte sfuggire al condizionamento meccanicistico della dipendenza tra ragion economica e ragione critica, perché può costringere lo star system e la bulimia commerciale a stare alla larga da opere che hanno, nonostante tutto, una platea di riconoscimento del valore che esprimono nell’essere proprio atipiche e anomale.

Laddove atipicità e anomalia sono caratteri inseparabili di un neorealismo alla ricerca di sé stesso: tra il film di strada, pasolinianamente inteso, a metà tra il documentario per la televisione e l’essai delle piccole sale che rimanda alle allucinazioni benefiche e necessarie di un Silvano Agosti.

La volontà, in fin dei conti, rimane un ingrediente primario per agire, per strutturare quella alternativa di società che è necessaria se si vuole salvare tutto il pianeta: ambiente, animali, umani. Colin Ward sosteneva: «Se si vuole  costruire una società libera, gli elementi necessari si trovano già tutti a portata di mano». E’ quel tratto che separa la mano dalla presa degli elementi che è quello più difficile da fare…

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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