Il colpo di grazia che il parlamento ha inferto al disegno di legge segna un punto di non ritorno. Un ciclo si è chiuso. Il movimento può debordare con le sue rivendicazioni. Non è più tempo di deleghe in bianco o rinunce a decidere

Per immaginare cosa accadrà al movimento che chiede moltopiùdiZan bisogna tornare alle ore immediatamente successive all’affossamento parlamentare del ddl. 

Bologna. Sono le 20 e la sala del circolo della Pace al Pratello è già piena, l’assemblea del Rivolta Pride era convocata da una settimana per il 27 ottobre, ma il clima è da mobilitazione generale perché proprio oggi hanno affossato il ddl Zan.

Anche in un’assemblea che ha sempre puntato su moltopiùdiZan, parola d’ordine della piazza di luglio 2020, e quindi su una difesa quasi d’ufficio della legge come punto di partenza e passaggio obbligato per andare oltre la percezione è di svolta storica.

La platea è molto giovane ma parlano almeno quattro generazioni di attivist*  e la composizione del Rivolta Pride, che include tutte le associazioni e collettivi esistenti da arcigay alla parte transfemminista queer, restituisce la percezione della chiusura di un ciclo, la fine di un’era e l’inizio rabbioso e orgoglioso di un nuovo corso.

Tutto è ancora molto magmatico, ma il rifiuto delle estenuanti mediazioni al ribasso sui nostri corpi,  del “dibattito” parlamentare vergognoso che ha amplificato per oltre un anno tutta la peggior cultura omolesbobitransfobica e che non può che essere etichettato come violenza istituzionale – peraltro elementi già vissuti nel recente ciclo di approvazione delle unioni civili (con tanto di stralcio della stepchild adoption) –, sono palpabili e ci portano a formulare un no gigantesco. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in questo sedicente processo “di avanzamento dei diritti civili” che dobbiamo cambiare, per sempre.

Di cose sbagliate o forse giunte al capolinea ce ne sono parecchie, a partire da una richiesta di delega in bianco, anzi di abdicazione totale che viene chiesta al movimento in nome del gioco istituzionale e parlamentare con cui dovrebbero essere approvati dei provvedimenti che non si sa nemmeno da dove nascano, da quale sintesi e compromesso interno, visto che ce li troviamo già lì come totem da adorare o abbattere.  E veniamo poi chiamati a difenderli nelle piazze quando si arriva a un punto morto o di caduta del percorso di mediazione istituzionale e bisogna farsi sentire.

Se tutto questo poteva andar bene nella fase di riflusso dagli anni ‘80 in poi, quando a conclusione del lungo ‘68 le istanze froce si staccarono dai movimenti e fecero il loro ingresso nelle stanze del Pci, oggi l’egemonia arcigay o di chi ha tentato di sostituirla scricchiola. Del resto i tempi sono un po’ cambiati: l’egemonia del Pci è a sua volta ben lontana, il Pd è una palude impervia che proprio sui temi “etici” non riesce a dare garanzie di compattezza, non che su tutto il resto ci riesca.

Il movimento prova a riorganizzarsi, a riprendersi il proprio potere istituente: forse il processo va ribaltato e un forte movimento sociale e culturale deve avere la capacità di parlare a tutto il paese, di far crescere una nuova cultura e una nuova pratica sociale in grado poi di sostenere anche delle trasformazioni giuridiche. Non è stato così nei cattolicissimi Stati spagnoli, ad esempio?

Mille volte e in mille forme il movimento si è riorganizzato, ma si è trattato sempre di  tutto quello che eccedeva l’egemonia arcigay (e, quando c’era, arcilesbica) via via declinante: per limitarmi a quello che ho vissuto, penso alle reti gay, lesbiche trans contro il neoliberismo durante la stagione dei social forum dopo Genova; alla nascita del movimento queer attorno alla gloriosa Villa Fiorelli; poi a Facciamo Breccia; al sommovimento nazioanale fino alle reti transfemministe più recenti sull’onda di Non Una Di Meno e, negli ultimi due anni, del moltopiùdizan.

Oggi però la sfida per il movimento lgbtqia+ è riarticolarsi nella sua interezza, dopo la fine dell’egemonia arcigay e anche di una certa forma di associazionismo e del suo rapporto storico con la scena dei “locali gay”. Dopo la fine di una politica basata sulla delega in bianco a partiti che a loro volta sono in crisi, come in crisi è la rappresentanza.

L’affossamento del ddl Zan segna un punto di non ritorno del quadro politico italiano o almeno sarebbe necessario per noi fissarlo. Per le destre sancisce l’esplicito posizionamento nel campo sovranista e xenofobo, a fianco della destra polacca e ungherese, della Turchia di Erdoğan e della Russia di Putin, oppure, per i palati più raffinati, accanto al nuovo rinascimento dell’Arabia Saudita.

“Le magnifiche sorti, e progressive” dei diritti civili (e sociali?) riprenderanno sicuramente la loro strada, ma anche per il campo progressista in via di ridefinizione sarà sempre più difficile fare timide aperture riformiste spacciate per grandi avanzamenti storici, ma soprattutto utilizzare la bandiera rainbow come sfumatura riformista per coprire politiche sul lavoro brutalmente antisociali (e non in senso queer, ne è un esempio per tutti proprio il governo Renzi del Jobs act e delle Unioni civili).

O almeno, il mio auspicio è che questo movimento nascente renderà le forme più infami di pinkwashing sempre più difficili. E questo non tanto per “tenere insieme diritti civili e diritti sociali”, ma perché i cosiddetti diritti civili sono diritti sociali, oppure diventano semplicemente posizionamenti etici, opinioni. E si sa, le opinioni si cambiano, non saremo mica ideologici, come hanno mostrato molti parlamentari nel corso dell’attuale legislatura.

Il movimento moltopiùdizan, al di là della rabbia per l’affossamento di questa legge limitata che pure era diventata un simbolo politico e una trincea antifascista, ora che i fascisti hanno temporaneamente vinto, può debordare con tutte le sue rivendicazioni. Perché porta con sé molte consapevolezze e acquisizioni storiche.

Innanzitutto che con il ddl Zan stavamo ancora discutendo della possibilità di nominare l’omolesbobitransfobia a scuola per un giorno all’anno, quando tuttu sappiamo l’emergenza che si sta vivendo nel paese, il bisogno di un intervento stutturale e interdisciplinare nelle scuole di ogni ordine e grado che riguardi l’intercultura, le differenze, l’educazione affettiva e sessuale.  

Quello che emerge dalle assemblee, a Bologna come altrove, con un misto di rabbia, sofferenza ma anche stupore è che questa violenza omolesbobitransfobica che nel ddl Zan e nel dibattito viene appiattita sullo scivoloso piano del reato di opinione, non è solo discorso d’odio, non è solo discriminazione, è proprio violenza: strutturale, psicologica, sociale e istituzionale, economica, fisica e sessuale. Sono risatine, botte, aggressioni, umiliazioni che diventano esclusione e povertà materiale.

Nell’intersezione tra Non Una Di Meno e moltopiùdizan emerge una lettura allargata della violenza eterocispatriarcale: come sulle donne, questa violenza strutturale ha ricadute molto materiali sulle vite queer. Scappare di casa o esserne cacciat*, ricostruirsi la vita fuori dalle reti familiari – che peraltro in questo paese regolano tutto, dall’accesso al lavoro, alle professioni, al welfare -, il minority stress e il peso dei traumi da rielaborare hanno un impatto materiale enorme.

Un lungo dibattito già presente nel movimento queer arriva oggi a una acquisizione di massa: le rivendicazioni delle soggettività lgbtqia+ non sono “meramente culturali”, non sono solo richieste di riconoscimento, ma sono lotte per la redistribuzione della ricchezza. Questo perché le forme della riproduzione sociale non sono solo “legate” alla produzione, ma anche già immediatamente produttive. È il capitalismo, bellezza, nella sua variante neoliberale e nel suo intreccio con la matrice eterosessuale.

All’apice della sua beffarda e sghignazzante vittoria, la trita e sinistra manfrina familista, binaria e no gender dei sovranisti e dei filosauditi segna il suo empasse politico. Come a Verona, città transfemminista, può trionfare solo asserragliata nel suo fortino, perché tutto il mondo fuori è già altrove, lontano anche dalla politica dei piccoli passi riformisti.

Il movimento che si sta autorganizzando in  forme nuove, seguendo in parte il modello di Non Una Di Meno, non delegherà più in bianco la propria autodeterminazione politica a dei rappresentanti e avanza le sue richieste materiali che parlano di giustizia sociale, di reddito di base e incondizionato di autodeterminazione, di spazi di comunità e mutualismo, di case rifugio, di consultorie per la salute popolare queer, di spazi di organizzazione politica e di produzione culturale e artistica capillarmente diffusi nei territori.

Si tratta di un movimento radicale, ma non “antagonista”, o almeno non come lo intendevamo negli anni ‘90, con tutto lo spazio e il vuoto che questo lascerebbe e ha lasciato dall’altro lato di questa polarità riformisti/antagonisti.  Anzi, di un movimento che sarà tanto più potente quanto più imparerà a gestire dei piani di mediazione anche istituzionale in modo non subalterno e non consociativo, senza perdere la propria autonomia e orizzontalità.

L’assemblea di Bologna è finita e si esce per una walk in strada, spontanea e improvvisata: uno striscione, una cassa e un microfono e via. Tantu si aggiungono per la strada, altre applaudono ai lati. Poi per il 30 ottobre si organizza una piazza, che si unisce alle altre viste in questi giorni a Milano a Roma e in altre città. Poi l’assemblea online per decidere i prossimi passi sul “nazionale”. Il movimento prende forma e va. Ed è sempre emozionante vedere quella luce negli occhi tra grida, lacrime e slogan che rendono tutto nuovamente possibile, “Ci vogliamo vivə liberə e autodeterminatə”.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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