C’è un retrogusto di acido neocesarismo bonapartista nel modo in cui il governo di Mario Draghi tratta le prerogative del Parlamento in questa fine d’anno. Se è vero che la Legge di bilancio è un po’ sempre (almeno negli ultimi lustri) stata trattata come una norma cui le Camere devono apporre solo la loro corale firma e niente più, è però altrettanto vero che si è ridotto anche quel tempo di discussione, divenuta purtroppo una mera formalità, cui seguivano i maxiemendamenti dell’esecutivo prima e le richieste di fiducia oggi.

La sperimentazione del monocameralismo repubblicano trova nell’esame non fatto della legge che regolamenta le spese dello Stato la sua più genuina e pericolosa applicazione. Il Senato della Repubblica scandaglia i meandri dei provvedimenti inseriti, li disamina, li discute e poi regala il pacchetto alla Camera dei Deputati cui spetta solamente l’onere della ratifica. Il tutto in spregio appunto all’equipollenza dei poteri tra i due rami del Parlamento e del rapporto tra questo e il governo.

Eppure le critiche dei costituzionalisti non si sentono troppo; per lo più sono voci isolate, mentre altri si preoccupano delle misure straordinarie antipandemiche, andando in televisione a spiegare che certe limitazioni di movimento sono previste dalla Costituzione e che quindi il Green pass è una misura anche civico-sociale oltre che di salute pubblica.

Il Parlamento, come per magia, ritorna protagonista per l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Qui il governo può ben poco, anzi rischia di finire triturato tra le fughe in avanti di alcuni leader delle due assemblee e quelle ancora più ardimentose degli autocantidati alla Presidenza della Repubblica. Per ora ne abbiamo due: Mario Draghi e Silvio Berlusconi. Una tragedia il secondo, un consolidamento del liberismo istituzionalizzato il primo. Verrebbe voglia di buttarsi giù dalla torre per non vedere come andrà a finire, non fosse che è di un certo interesse proprio il ruolo che le Camere avranno in questo passaggio cruciale della vita politica del Paese.

La Legge di bilancio e l’elezione del nuovo inquilino del Quirinale non sono ovviamente la stessa cosa e, quindi, è impossibile fare un parallelismo per comprendere quanto il Parlamento possa ancora essere considerato il fulcro attorno a cui ruotano tutte le altre istituzioni della Repubblica. Ancora di più se si va un attimo indietro, di appena un anno, con la memoria e ci si ricorda che, proprio quelli che oggi si lamentano della blindatura del dispositivo economico annuale da parte del governo e dell’inefficacia del ruolo delle Camere, sono tra coloro che hanno contribuito a dimezzare il numero dei parlamentari.

Una controriforma, approvata col referendum, che entrerà in vigore alle prossime elezioni politiche: dunque non vi sarà da attendere molto per capire se il taglio dei seggi di Camera e Senato sarà di incentivo alla disarmonica sproporzione dei poteri che si sta facendo largo con il draghismo, dopo i tanti colpi assestati dai suoi predecessori in vena di protagonismo, voglia di pieni poteri e di sempre meno discussioni: dal sale della democrazia al rabbonimento della insoddisfazione popolare con la figura totalizzante ed indiscussa dell’ex banchiere europeo quale panacea di tutti i mali d’Italia.

La delicatezza dei passaggi parlamentari di questa fine d’anno e dell’inizio del 2022 è tale da mostrare sempre più nitidamente la tragica assuefazione cui siamo stati indotti (non tutti per la verità…) nel considerare normale, in tempi extra-ordinari, che un demiurgo gradito ai mercati fosse politicamente il meglio cui si poteva aspirare per governare l’emergenza pandemica, gestire i conti del Paese e rimettere l’Italia nel contesto di una competitività liberista europea e internazionale.

La presentazione di questo scenario come del migliore possibile per l’interezza della popolazione, è il capolavoro della classe dirigente imprenditoriale, finanziaria e affaristica.

Confindustria plaude a Draghi, alla transizione (anti)ecologica nuclearista di Cingolani, ad una sanità prigioniera del privato e della autonomia differenziata, ad una scuola sempre e solo finalizzata al dualismo con l’alternanza di un lavoro profittevole soltanto per la produttività delle imprese, ad un regime pensionistico piegato alle privatizzazioni ed ad un allungamento degli anni di occupazione… E il tutto è programma di governo, introdotto proprio in una Legge di bilancio che per metà è discussa dalle Camere e per metà opacizzata dall’indebita fiducia posta dal governo per sbrigare i tempi.

L’esercizio provvisorio non piace a nessuno, ma molto meno ancora dovrebbe piacere un Parlamento reso provvisorio per garantire i profitti e le grandi speculazioni a tutto scapito del lavoro dipendente, della sopravvivenza di decine di milioni di italiani esasperati dalla nuova povertà che procede di pari passo con il protrarsi della pandemia.

Che qualità democratica si può registrare in un Paese dove l’asse principale di sviluppo della sua politica è detenuto fondamentalmente dall’esecutivo, dove le leggi sono fatte per adempiere alle linee di indirizzo del governo e non ai bisogni della popolazione? Non può venire nessuna risposta in chiave sociale da una impostazione del genere, ma l’esatto suo contrario, perché Draghi, sia oggi come Presidente del Consiglio dei Ministri, sia domani (forse) come Presidente della Repubblica sarà il nume tutelare di una economia liberista che innervi le istituzioni e lasci loro solo una formale apparenza pubblica.

Il pericolo di una dequalificazione antidemocratica, di una considerazione della Costituzione come un convitato di pietra e niente più, è reale tanto più con un Draghi al Quirinale piuttosto che con un Berlusconi. Quest’ultimo non farebbe almeno finta di tenere all’intero impianto parlamentare, alla laica sacralità delle istituzioni, al primazia democratica rispetto a quella del mercato. C’è ipocrisia e ipocrisia: quella berlusconiana è stata ormai smascherata da tempo. Quella draghiana è subdolamente tinta dei colori grande maggioranza di unità nazionale che deve essere la base su cui fondare il settennato ancora ipotetico, ma sempre più probabile, dell’ex banchiere europeo al Colle più alto.

Per tanta parte della popolazione Draghi rappresenta l’unica figura politico-economica possibile per guidare l’Italia oltre il biennio pandemico, in un terzo anno in cui ci augura ancora quel lento “ritorno alla normalità” cui lo stesso Presidente del Consiglio ha fatto riferimento più volte. Ma la Legge di bilancio mostra il programma antisociale del governo nei prossimi mesi: la riforma degli scaglioni dell’IRPEF è poi eclatante da questo punto di vista. Si avvantaggia il ceto medio-alto e si fanno pagare più tasse ancora ai redditi minori.

La disuguaglianza sociale e quella istituzionale si tengono pericolosamente per mano. Il Parlamento dovrebbe essere la massima garanzia legislativa per quella parte di popolazione indigente che non ha altra difesa se non forze politiche capaci di interpretarne i bisogni. Forse di sinistra, progressiste. Che in Parlamento non ci sono proprio. Salvo qualche deputato o senatore sfuggito ad altri gruppi o rappresentante sé stesso in un anonimato che è indistinguibilità all’ennesima potenza nelle Aule dipendenti dalle fiducie chieste dal grande “governo dei migliori“.

Non si preannuncia nulla di buono nel 2022. Non è un cattivo augurio, ma la cruda, diretta e impietosa osservazione di una realtà che occorre vedere, di cui bisogna avere contezza se si vuole tentare la costruzione di una seria proposta alternativa a questo impianto economico e politico dai tratti chiaramente amici dell’impresa e nemici del mondo del lavoro.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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