E’ stato un discorso senza dubbio importante, a tratti melensamente retorico, ma sufficientemente asciutto nel rivolgersi ad un presente che diventa quasi un futuro ante litteram, tanto veloce è lo svolgersi della pandemia. Sergio Mattarella dice addio al Quirinale con un omaggio alla Carta del 1948, citandola non a sproposito, ma ricordando che il mandato del Presidente della Repubblica dura sette anni: «Così come prevede la nostra Costituzione». Esclude quindi altre interpretazioni, quelle per cui il non scritto è possibile, alterando una consuetudine consolidata ed interrotta solamente con Napolitano.

E’ un segno di rispetto non tanto di una formalità, ma di un carattere sostanziale delle istituzioni: quello del cambio ai vertici, evitando il ristagno del potere nelle mani di chi, forzando le fondamenta del diritto della Nazione, vorrebbe attribuirsi prerogative o poteri speciali che forzerebbero l’equilibrio precario della nostra democrazia.

Mattarella ha avuto a che fare con anni difficili, soprattutto gli ultimi due: pandemia, emergenze sanitarie, sociali, introduzione di decretazioni di urgenza, DPCM ripetuti e anche un po’ abusati. Ha firmato e dato il suo assenso a norme che potevano essere rinviate alle Camere per un ulteriore esame, essendo talvolta troppo consapevolmente “prudente” nel rispetto reciproco tra i poteri dello Stato. L’atto più deprecabile è stata la sua firma sui famigerati Decreti sicurezza del Conte I, quelli voluti da Salvini e condivisi dai Cinquestelle:  immorali se non apertamente incostituzionali.

Tuttavia non si può rimproverare al Presidente di aver svolto il suo ruolo superficialmente, ma anzi con grande cautela, stando anche un po’ troppo dietro alle proprie righe, a quel riserbo che impone una carica che non è mero formalismo, semplice rappresentazione dell’unità del Paese.

Qualcuno attribuisce al Presidente della Repubblica una sorta di “invenzione” di Mario Draghi come capo del governo italiano, quasi fosse una scoperta, un fulmine a ciel sereno calato nel teatro della politica confusa e confondente dello Stivale. In realtà, Mattarella non ha scoperto nessun talento, non ha inventato nulla: ha, da buon liberale di centro, chiamato a guidare l’esecutivo l’uomo che tutti i mercati – europei e italiani – volevano per stabilire un rapporto dualmente solido tra Bruxelles e Roma (e viceversa). Un salto di qualità per il padronato italiano e per i suoi rapporti con l’alta finanza europea.

La partita economica in gioco – quella dei 209 miliardi di euro del PNRR – è tale da dover essere gestita da un profondo conoscitore dei meccanismi liberisti del mercato, delle sue fluttuazioni e di tutto quello che comportano in termini di ricaduta sul padronato italiano, sulla totale “libertà” di impresa, a discapito di un mondo del lavoro che è in sofferenza estrema da oltre un anno e mezzo, sommando al restringimento del perimetro dei diritti precedente la pandemia, tutto il portato di pauperismo che si è riversato sulle categorie più deboli del tessuto socio-economico del Paese.

Mattarella ha certamente svolto un ruolo politico nella crisi pandemica: tanto più, appunto, se ci si riferisce alla nomina di Draghi a Palazzo Chigi, ratificata da un Parlamento ridimensionato nelle sue mansioni e prerogative, frustrato da una riduzione dell’attività di discussione dovuta anche alle misure anti-Covid, ma in particolare all’assuefazione pericolosa del teorema secondo cui, in questa fase di emergenza totalizzante, sarebbe molto più utile il ruolo del governo rispetto a quello delle Camere percepito come lento e inadeguato a rispondere alle esigenze della popolazione.

Se al Presidente della Repubblica si può (e si deve) muovere una critica, forse quella più giusta e obiettivamente oggettiva è di aver assistito a questa marginalizzazione parlamentare, di non aver spronato il governo – ad esempio sulla legge di bilancio – ad avere un confronto reale con le Camere, invece di forzare i tempi e i modi, portando all’approvazione con un voto di fiducia una normativa così complessa come quella che regola tanti piccoli e grandi aspetti della vita quotidiana di ognuno di noi.

Per il resto, Sergio Mattarella è e sarà, agli occhi della Storia, un presidente che ha rispettato la Repubblica, che l’ha servita senza eccedere, senza trascendere, senza invasioni di campo negli altri poteri dello Stato: da buon democristiano, facendoci ricordare i tempi passati del Pentapartito, quando contava coprire con una buona aderenza formale, tante storture sostanziali, tante subordinazioni dell’interesse pubblico a quello privato, per scadere definitivamente nella corruttela tangentopolizia dell’interesse esclusivamente personale.

In questi ultimi sette anni i cambi di governo sono stati numericamente all’altezza della storia repubblicana nel suo insieme. Non è venuto meno quel cattivo intreccio tra politica e affari che ha rivoltato le maggioranze, che ha scritto leggi elettorali a misura di partito e anche ad personam: seguendo tal volta i sogni di gloria di qualche tecnocrate prestato alla politica o, piuttosto, di qualche giovane rampante finito nelle maglie del potere e rimasto prigioniero di giochi divenuti ben presto più grandi di lui.

La banalità del vuoto sociale in una politica che non ha mai surrettiziamente nascosto i suoi difetti più retrivi, figli e nipoti di un recentissimo passato in cui si sono mescolati i peggiori prodotti della sottocultura antipopolare fatta di populismo, qualunquismo e delle più meschine ambiguità dell’antichissima eco di un trasformismo che si adatta, come l’acqua, a qualunque forma prendano gli avvenimenti nel corso degli anni.

Fascismo, craxismo, berlusconismo, renzismo, salvinismo, sovranismo. Tutti gli ismi legati da un filo nero riconducente ad un conservatorismo di nuova specie, dove si saldano tecnocrazia e abilità politica e dove, progressivamente, a volte con colpi di coda referendari che vengono trattenuti, per poi ripartire repentini da, fallimento dell’abolizione del Senato alla riduzione drastica del numero degli eletti, prende sempre più corpo la trasformazione della Repubblica del Parlamento a quella del Governo.

Sergio Mattarella potrebbe essere stato l’ultimo Presidente veramente democristiano nel senso più storico del termine: se volessimo usare una sorta di geopolitica quirinalizia, potremmo dire che si trova a metà strada tra la rigorosa interpretazione morale e sociale di Sandro Pertini e quella liberal-liberista di Carlo Azeglio Ciampi che, del resto, di Mario Draghi fu uno dei mentori. Il rispetto della formalità, dei riti, del protocollo istituzionale si è unito, senza soluzione di continuità, ad una impronta popolare, ad una meticolosa osservanza della Costituzione; soprattutto sul piano dell’equipollenza dei poteri, meno su quello del decisionismo nei confronti di provvedimenti governativi che potevano talvolta essere rinviati alle Camere con qualche nota stigmatizzante.

Il delicato compito del Presidente della Repubblica, per come lo ha svolto Mattarella, sarebbe innovato negativamente tanto da un Mario Draghi quanto ad un Silvio Berlusconi: il primo non fa mistero alcuni di voler esercitare una doppia funzione tra Colle e Palazzo Chigi, aprendo la strada ad una pericolosa deriva (semi)presidenzialista; il secondo contaminerebbe con la sua farsa anti-politica anche l’unica istituzione italiana rimasta intatta (o quasi) agli eccessi del berlusconismo rampante, fintamente dissacrante, smargiasso e ultragoliardico (per essere generosi con gli eufemismi…).

Se con Draghi al Quirinale si pone un problema di stabilità costituzionale della democrazia repubblicana, con Berlusconi si pone tra l’altro un problema di vera e propria etica civica, di rapporto tra il politico e la funzione che intenderebbe ricoprire. Le anomalie sono già ampiamente manifeste: mai si era visto un Presidente del Consiglio dei Ministri candidarsi al Quirinale; così come mai si era visto un capo di una forza politica di maggioranza autoproporsi nella corsa al Colle più alto.

Rimpiangeremo lo stile di Mattarella, sicuramente. Meno altri aspetti della sua presidenza che, tuttavia, rientra nei cardini di un ossequio per la Repubblica non facile da mantenere nelle tante tirate di giacchetta che un Capo dello Stato deve mettere in conto quando si trova a dirimere questioni che non soltanto animano il dibattito sociale e politico nel Paese ma, a volte, proprio come con l’emergenza pandemica, lo lacerano e lo consumano a tutto vantaggio di un “divide et impera” che diventa l’ultima speranza dei liberisti di governare la crisi dal loro esclusivo, privilegiato e ingiusto punto di vista e di profitto.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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