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Un’intervista con Ramata Diaouré, membro del comitato di transizione del governo maliano istituito dopo il colpo di stato del 18 agosto 2020 e le dimissioni dell’ex presidente Ibrahim Boubacar Keïta

Abbiamo appuntamento con Ramata Diaouré all’Hotel Djoliba, che si trova nel centro della città di Ségou, ultimo baluardo dopo la capitale Bamako dell’unità nazionale del Mali. Nel resto del paese l’insicurezza vige sovrana e gruppi armati che si dicono promulgatori della jihad si scontrano con l’esercito nazionale e le milizie di autodifesa organizzate dalle comunità locali.

Ramata Diaouré è presidente della sezione maliana dell’Union internationale de la presse francophone e fa parte del Comité national de transition (Cnt), organo legislativo del governo di transizione istituito dopo il colpo di stato del 18 agosto 2020 e le dimissioni dell’ex presidente Ibrahim Boubacar Keïta (Ibk). Ramata è tra i 121 membri del Cnt ed è stata scelta come rappresentante delle organizzazioni della società civile a fianco di militari, uomini di partito, sindacalisti e personaggi pubblici.

Cosa è successo in Mali negli ultimi dieci anni?

Sono successe molte cose, e la maggior parte non buone. Sono stati gli anni del clientelismo e della compravendita dei voti. C’è stato uno scandalo di corruzione a livello del tesoro all’epoca di Att (Amadou Toumani Touré, presidente dal 2007 al 2012) che riguardava milioni di Cfa. Siamo arrivati poi con IBK (Ibrahim Boubacar Keïta, presidente dal 2013 al 2020) a sovrafatturazioni a colpi di miliardi! Non c’è da meravigliarsi che il regime di Ibk, nei fatti la prosecuzione dei precedenti governi, sia caduto piuttosto facilmente. Il sistema economico del paese girava intorno ad un’economia mafiosa di corruzione e nepotismo.

La comunità internazionale tuttavia appoggiava Ibk…

La Comunità Internazionale ha appoggiato tutti i regimi, in primis quello di Moussa Traore che aveva destituito nel 1968 il primo presidente indipendente socialista Modibo Keita, molto vicino all’Europa dell’est e all’allora Urss. Ci sono i discorsi della comunità internazionale e poi la realtà, e per quanto riguardo Ibk hanno semplicemente lasciato fare purché i loro interessi economici non fossero toccati.

Quindi è l’esportazione del modello neoliberista che interessa?

Quello è il modello dominante in tutto il mondo.

In Mali uno degli effetti più nefasti del neoliberismo è stato quello di tenere ai margini le aree rurali del Paese…

Questo è uno dei grandi problemi del Mali! Dal 1992, con il pretesto di portare la democrazia, è stato messo in piedi un sistema per cui l’élite politica corrisponde a quella economica e gli interessi di un piccolo gruppo di persone prevalgono su quelli della maggior parte della popolazione. Il controllo delle terre più fertili è emblematico di questa situazione; basti pensare al cotone: si spingono i contadini verso la coltura del cotone, attraverso l’erogazione di credito da parte della Bnda (Banque Nationale de Développement Agricole), ma il cotone non si mangia, mentre qui l’economia si fonda sull’agricoltura estensiva e di sussistenza.

Questa non è la prima transizione che vive il Paese. A ognuno dei quattro colpi di stato che si sono succeduti dopo l’indipendenza del 1960, è seguito un periodo di transizione. In che modo questo è diverso dagli altri?

Io non penso sia diverso dagli altri. È vero che stiamo lavorando a delle proposte di legge che possono essere interessanti per il futuro, ma per il momento si stanno gestendo questioni di prestiti, fondi Covid.., tuttavia la sostanza non cambia rispetto a quello che abbiamo visto finora. Il vero problema, cioè sapere chi parla in rappresentanza di chi, non è stato ancora affrontato. C’è stata un’assemblea nazionale recentemente, ma non ho visto un solo rappresentante di organizzazioni contadine. Ad esempio, come sono rappresentati i coltivatori di miglio (il cereale più coltivato nell’agricoltura estensiva di sussistenza) della regione di Mopti? Di fatto a livello decisionale non esistono.

Possiamo dire che l’ultimo colpo di stato, o meglio il penultimo (dopo il colpo di stato dell’agosto 2020 ne è avvenuto un altro, in maggio 2021, che ha fatto cambiare alcune poltrone, tra cui il presidente dal comitato di transizione), è nato in seguito a dei movimenti di protesta nella capitale Bamako guidate dal Mouvement du 5 juin-Rassemblement des forces patriotiques (M5-Rfp)?

Possiamo piuttosto dire che è nato dai movimenti di Bamako! Bamako è il centro, l’ombelico distante da tutto il resto del paese.

Questo non è un problema strutturale legato a un’organizzazione amministrativo-istituzionale che non risponde alla realtà del paese?

Sì, ma la situazione è molto complessa per la pluralità costitutiva del paese. Per fare un esempio, in Mali ci sono tredici lingue nazionali e una ufficiale, il francese. Solo nel 2018 ho visto dei manifesti di partiti politici in lingua nazionale, oppure solo ora il comunicato del Consiglio dei ministri, che passa ogni mercoledì alla televisione nazionale, verrà dato nelle lingue nazionali e non in francese. In una democrazia come si può comunicare con la popolazione in una lingua che solo in pochi capiscono? Ma questo non è un cambiamento che si fa in cinque minuti.

Quindi è legittima la richiesta del governo di transizione di prolungare questo periodo di rifondazione ancora di cinque anni?

Quando i militari, che sono alla base di questa transizione, chiedono ancora cinque anni, stanno dichiarando la loro volontà di non lasciare il potere. La prima proposta era di tre anni, il tempo che restava alla fine del mandato di Ibk, ora cinque: è una provocazione! La prima cosa che avrebbero dovuto fare i militari sarebbe stata mettersi al lavoro per la sicurezza del nord del paese. Ma dove sono tutti i colonnelli? Nelle loro ville a Bamako, mentre le giovani leve impreparate si fanno ammazzare.

Quale altra scelta c’è se non quella di proporre una visione diversa per il paese, specialmente considerando i massacri delle popolazioni rurali al centro e al nord?

Abbiamo voluto adottare il modello francese con un potere centrale forte. La discussione sulla decentralizzazione è iniziata dagli anni Novanta, ma non abbiamo mai voluto mettere le proposte in esecutivo e ai consigli di regione non è stato dato, in realtà, alcun potere. Non possiamo oggi rivedere tutto il sistema fino a rimettere in discussione il disegno dei confini ereditato dalla conferenza di Berlino, ma andare verso il regionalismo permetterebbe un’autonomia di gestione ai diversi territori e far ascoltare la voce di ogni entità che compone la società civile. In un paese come il Mali, dove diverse comunità coesistono negli stessi territori, questo sarebbe il modo per tenere conto della pluralità di lingue, culture e modi di sussistenza. Ma lo Stato non ha dato niente alle regioni, sia a livello di risorse umane, che finanziarie. Il problema nasce dal fatto che i nostri dirigenti non hanno saputo portare avanti una visione di sviluppo con prospettive che facessero riferimento alle esigenze locali di autonomia e di pluralismo.

È troppo tardi per riprendere in mano questi discorsi? E piuttosto che parlare di sviluppo e modernizzazione, iniziare dall’autosufficienza e dalla sovranità alimentare?

Ma dove sentiamo parlare di questo? I politici, che fanno parte anche di questo Cnt, non vogliono parlarne per non mettersi in discussione e il sentimento anti-francese non è che uno slogan, non ha niente del discorso anti-liberista. Pertanto i veri problemi sono conosciuti da tutti. Ci vogliono delle persone che vedano le cose da una prospettiva differente per portare a un cambiamento.

Forse il cambiamento non passa per Bamako…

Lo spero! È difficile pensare in modo diverso quando è tutto concentrato a Bamako. Finora tutti gli uomini politici arrivati a Bamako si vantavano di essere originari di tale o talaltro villaggio, ma poi nei discorsi e nella pratica, se ne dimenticano chiaramente. Faccio l’esempio dell’energia: ci sono stati grandi progetti per sviluppare l’energia solare, che renderebbe il paese autonomo e potrebbe essere realizzata a livello locale, ma finché i dirigenti, con la complicità degli interessi dei grandi importatori, continuano a vedere la popolazione semplicemente come consumatori e non come produttori, le cose non possono cambiare.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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