Dover fare i conti con la guerra nella nostra presunta modernità, può sembrare strano. Soprattutto se non si è più – per fortuna – abituati ad avere soldati, carri armati e aerei da combattimento nei pressi delle proprie città, vicino ai confini del proprio paese. La guerra in questi decenni è sempre stata lontana da noi: è scoppiata in altri continenti, è arrivata nelle strade di città quasi sconosciute e di cui sentivamo parlare per la prima volta proprio a causa sua.

Solamente quella dei Balcani è stata ad un passo da noi. E noi, a dirla tutta, le siamo andati incontro: bombardando Belgrado e le città serbe, per sostenere quei progetti della potenza americana che cercavano anche nella allora quasi-ex Jugoslavia un punto di appoggio per muovere verso Est con la NATO, per controllare nuove rotte economiche, nuovi passaggi di interessi tra i più diversi confini.

E poi abbiamo sentito la brezza delle primavere arabe, dei tumulti in Tunisia, in Egitto, in Libia, in Algeria e Marocco. Una eco non troppo lontana ma sufficientemente distante da disinteressarci di tutta una serie di problemi delle popolazioni colonizzate per secoli e abbandonate al loro destino nel deserto invivibile di una globalizzazione cannibale, divoratrice delle esistenze più fragili a tutto vantaggio dell’opulenza capitalistica occidentale.

Le guerre ci sono state così distanti eppure anche così vicine: abbiamo formato comitati, forum sociali e grandi campagne antimilitariste e antibelliche in tutta Italia e nel resto d’Europa.

Dalle guerre del Golfo a quelle civili in Libano, Siria e Iraq, la protesta era contro i conflitti e gli imperialismi che li alimentavano ma era anche contro il servilismo del nostro Paese, fedele alleato di Washington, terra di occupazione da parte dell’Alleanza Atlantica, investitore di una bella fetta del suo PIL negli armamenti, nella costruzione degli F35 piuttosto che dedicarsi alla ricomposizione di un vero stato-sociale.

Ogni volta ci siamo detti che il nostro nome era “Mai più”: abbiamo cantato le canzoni pacifiste degli anni ’60 e ’70 e le abbiamo rinverdite con parole nuove, riscoprendo una voglia di tranquillità universale che questo mondo non conosce mai e che farà davvero fatica anche in futuro a trovare e a far vivere di sé stesso.

Le forze politiche della sinistra moderata e del centrosinistra non hanno mai perso occasione per mostrarsi docilmente sostenitrici di quanto veniva dettato oltreoceano e recepito senza alcun battere di ciglio da parte dei governi italiani che si erano succeduti nel tempo.

Dal 1991 ai giorni nostri, il movimento contro la guerra è stato attraversato, come del resto altri movimenti civili e sociali, da una contraddizione evidente che, per certi versi, ha vissuto anche con distacco critico, ma che non ha potuto evitare: la dualità ipocrita delle forze cosiddette “progressiste” nel sostenere da un lato le guerre neocapitaliste dal governo e promuovere dal basso istanze uguali e contrarie.

E’ il destino di chi pretende di essere di lotta e di governo e riesce a far male la lotta e ancor peggio il governo, perché deve mantenere un legame tra i valori del passato e quella specie di pragmatismo del presente che è tutto proteso alla dimostrazione di essere interpreti moderatamente risoluti delle esigenze economiche e finanziarie dei potenti alleati della Repubblica stellata.

Così si giunge alle porte della guerra in questo 2022, un anno mezzo dopo l’elezione del democratico Joe Biden alla Casa Bianca, un anno e mezzo dopo la speranza che con lui non si sarebbe di certo rischiato – almeno sul piano internazionale e anche su quello del rispetto dei diritti umani e civili – peggio rispetto alla presidenza di Donald Trump.

Il confronto impietoso tra sovranisti trumpiani da un lato e oligarchi putiniani dall’altro, guardandola con gli occhi del presente, ha paradossalmente retto meglio. Fingendo patriotticamente di doversi odiare, hanno maramaldeggiato con nazioni e popoli già fiaccati da dieci, venti anni di conflitti; hanno minacciato nazioni chiuse a riccio su sé stesse, baldanzosamente spocchiose; hanno giganteggiato bluffando a volte, facendo sul serio altre.

Il risultato è stata una esacerbazione dei toni nelle rispettive propagande neonazionaliste, sponsorizzando, a tratti, una minaccia di autarchismo che contraddiceva i princìpi ispiratori e fondanti del moderno liberismo.

La contesa tra Russia e Stati Uniti d’America somigliava già allora molto poco a quella della Guerra fredda: la differenza stava, e sta tutt’ora, nella grande dicotomia che passa tra il tatticismo annusatore delle altrui intenzioni e la strategia di lungo corso che ha invece ispirato la Cortina di ferro, il Muro di Berlino, la divisione veramente in blocchi di un mondo bipolarizzato.

Lo spazio per le “terze vie” era ristretto già ai tempi di Stalin e di Truman, adesso è praticamente inesistente perché esistono tre, quattro, cinque vie diverse e tutte impraticabili come alternativa al tripolarismo che si è consolidato nel corso di questi venti, trent’anni appena trascorsi e che ci soffiano sul collo con tutte le loro contraddizioni pesanti.

La Cina non disdegna il dialogo con gli Stati Uniti e, al contempo, rimane amica della vicinissima Russia. Nello scenario di guerra che si prospetta in questi giorni nell’Est di una Europa balbettante in politica estera e divisa al suo interno, chi è tatticamente più ben disposta è proprio Pechino.

La sconfitta, se dovesse aprirsi il fronte sul campo, escludendo qualunque altro tentativo diplomatico (compreso quello di Israele che si offre di ospitare un tavolo comune tra Putin e Zelensky, tenendo per sé stesso il ruolo di mediatore fidato per l’amico americano), toccherà naturalmente alla popolazione civile, ai tanti sfollati e profughi che cercheranno riparo da bombardamenti, invasioni di terra, attacchi dal mare.

L’immagine più emblematica che circola in queste ore è quella dei bambini e dei ragazzi addestrati a resistere alla possibile invasione russa all’Ucraina: nelle città sul confine, a ridosso delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, si mettono in mano ai ragazzi (e alle ragazze) fucili, pistole, armi di ogni tipo. I bambini sono veramente le prime vittime delle guerre e lo sono due volte se sono costretti anche a divenirne involontari protagonisti.

Dal Terzo Reich della “Hitlerjunged” ai ragazzini mandati a morire nelle guerre tribali in Africa, fino a quelli trasformati in piccoli jihadisti, in martiri o cecchini abituati a considerare la morte come una esaltazione della vita stessa, a cambiare sono soltanto i tempi e i modi: la sete di potere economico e politico, il ricostruito istinto di sopraffazione del popolo più forte su quello debole, una sorta di primitivismo ancestrale disumano sono i punti di contatto di una contesa mondiale che si decide di volta in volta, di luogo in luogo.

Ieri in Somalia, Yemen, Afghanistan e Medio Oriente con i nemici finanziati e politicamente sostenuti da paesi più che amici, oggi sulla linea del confine tra l’Ucraina populista e autoritaria, atlantista e filo-europea e una la Russia di Putin che è speculare in quanto a populismo, autoritarismo e voglia di espansionismo imperialista.

Non c’è scelta alcuna, se non quella che abbiamo sempre fatto e che dobbiamo fare ancora, con convinzione e con fermezza: la pace è l’unica vera sconfitta per un liberismo divoratore di popoli, per le potenze politiche che lo sostengono sotto diverse, ma così simili, maschere.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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