Uno pensava di aver già visto tutto con la compravendita di senatori di berlusconiana memoria, ma poi ti saltano fuori i “Gigini” alla Di Maio, che nell’arco di una legislatura passa da cavaliere dell’ideale a custode dell’Agenda Draghi.

Di Andrea Zhok*

Crisi di una classe politica di “Gigini”

Il balletto estivo pre-elettorale del partito unico draghista è solo l’ultimo indice, in ordine di tempo, di un’infinita sconsolante decadenza del ceto politico e dei ceti dirigenti in generale (apparato mediatico in testa).

È dal collasso della Prima Repubblica, sulla scia del crollo del mondo bipolare e dell’imporsi del monopolio imperiale americano, che questo processo di degrado continua; e ogni qual volta si ritiene di aver toccato il fondo, ecco un nuovo guizzo di inventiva che ci sorprende.

Così, uno pensava di aver già visto tutto con la compravendita di senatori di berlusconiana memoria, ma poi ti salta fuori un Gigino, il buon Ministro degli esteri Luigi Di Maio, che nell’arco di una legislatura passa da cavaliere dell’ideale ed eroe dell’antipolitica, ad essere il più patetico ministro degli esteri della storia (in un governo autoritario e tecnocratico).

Per poi a scindersi dai suoi per diventare stampella esterna del medesimo governo (portandosi dietro 50 peones), e poi a tradire anche i propri seguaci con una giravolta virtuosistica, chiedendo ospitalità al proverbiale “nemico”, e infine a protestare con il “partito di Bibbiano” perché non gli avrebbe dato un collegio abbastanza sicuro (il problema peraltro è irresolubile, perché ovunque egli si presenti il collegio diventa automaticamente contendibile anche da Paolino Paperino).

Insomma tutto materiale di una sceneggiatura che renderebbe i film di Totò e Peppino esempi di neorealismo.

“Gigini”: la situazione è grave ma non seria

Ora, questa roba farebbe ridere se potessimo guardarla da Marte, con l’occhio distaccato dell’antropologo e dello studioso.

Purtroppo essendo noi stessi rappresentati nel mondo da una generazione di Gigini, il riso non è un lusso che ci possiamo permettere.

Il dramma di quest’epoca, come tutti i periodi di declino e decadenza, è che la situazione è talmente degradata che è difficile persino immaginare come possa rimettersi in piedi.

In verità io credo che qualunque sia l’esito di queste elezioni, nel corso del prossimo anno gran parte dei nodi verranno al pettine: il lascito devastante di vent’anni di eurozona, di trent’anni di imperialismo globalista a stelle e strisce, e di una classe dirigente nazionale macchiettistica, busserà alla porta. Sono sempre le crisi profonde, quelle tragiche, a fare da levatrice della storia, e così accadrà anche questa volta.

Ciò che possiamo fare, l’unica cosa che è nelle nostre disponibilità, è farci trovare il più preparati (o il meno impreparati) possibile per indirizzare i cambiamenti rapidi cui verremo chiamati.

L’atteggiamento con cui dovremmo provare ad affrontare ciò che ci attende non è certo quello dell’ingegneria sociale, come se fossimo nelle condizioni di anticipare nei dettagli una forma di vita ideale e di raggiungerla.

No, quello che dovremmo fare (o almeno tentare) è di indirizzare una nave ormai priva di ormeggi in una direzione di buon senso pratico e di palingenesi – mi si perdoni il termine – spirituale.

Sul piano pratico dovremo affrontare quanto ci accadrà con l’occhio più scevro possibile da ideologismi, e più attento possibile alle condizioni reali di vita delle persone.

E sul piano “ideale” dobbiamo sapere che quello di cui abbiamo bisogno è una vera e propria rinascita, una ricostruzione culturale e spirituale (che non significa “astratta”), in cui l’intero paradigma di cui sono vissute le ultime generazioni (globalismo, liquefazione dei rapporti, frantumazione delle identità, mercatismo, pilota automatico finanziario in economia e muto ossequio al nostro padrone coloniale), questo intero paradigma dovrà essere superato.

Quale configurazione della storia ci aspetti a valle di questa crisi è ignoto a tutti e l’unico modo di affrontare la situazione sarà con grande umiltà, disponibilità ad aggiustare il tiro, ma anche con la consapevolezza che solo con il rigore e la più ferrea onestà intellettuale, di tutti e di ciascuno, ci potremo salvare.

Non ci salverà il papa né Trump, non l’America né l’Europa, non Putin né Xi Jin Ping, non la frenesia dei mercati né il tentativo di isolarsi dal frenetico clangore del mondo.
Ci salveremo solo da soli, se avremo umiltà, rigore ed onestà (con noi stessi innanzitutto).

Spero di sbagliarmi, ma percepisco in lontananza rombi di tuono all’orizzonte. E nessuno ha la ricetta per uscire con un colpo di bacchetta magica dal vicolo cieco della storia in cui siamo entrati.

Si tratta dunque di cominciare, appellandoci alla capacità di resistenza e a tutte le risorse di buona volontà, un percorso lungo e accidentato, ma anche necessario.

* Andrea Zhok è un filosofo e accademico italiano, professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy