Dopo l’allarme lanciato a giugno dalla compagnia di assicurazioni Allianz in merito all’aumento dei disordini civili dovuti al carovita e agli intoppi nelle catene di approvvigionamento, è arrivato ai primi di settembre il rapporto “Civil Unrest Index” dell’agenzia di consulenza britannica Verisk Maplecroft. E anche in questo caso viene scoperta l’acqua calda, ovvero che con la crescita dei prezzi di cibo ed energia aumentano gli scioperi e le rivolte. Per esempio in Indonesia, dove in questi giorni si stanno verificando violenti scontri tra manifestanti e polizia in seguito alla decisione del governo di alzare del 30% i prezzi del carburante; oppure ad Haiti, dove nelle ultime settimane l’alto costo della vita, la mancanza di carburante e l’insicurezza hanno fatto scendere in strada masse di senza-riserve.

Secondo lo studio della Verisk Maplecroft, su 198 paesi analizzati 101 hanno registrato un aumento del rischio di disordini, il più grande incremento trimestrale dall’inizio della pubblicazione dell’indice, sette anni fa. I timori per l’arrivo di una recessione crescono, l’inflazione sarà peggiore nel 2023 rispetto al 2022. Dato che – dice il rapporto – le condizioni per il verificarsi di disordini civili sono presenti in un numero crescente di paesi (in quelli a vecchio capitalismo come in quelli “emergenti”), la gravità e la frequenza delle proteste e anche degli scioperi è destinata ad accelerare ed estendersi ulteriormente nei prossimi mesi.

La società britannica inserisce nella lista dei paesi a rischio anche l’Algeria che, nonostante gli alti introiti dovuti alla vendita del petrolio, deve fare i conti con il problema dell’inflazione e della siccità. A rischio anche Tunisia, Bolivia, Egitto, Filippine, Suriname, Georgia, Zimbabwe, Perù, Kenya, Ecuador e Iran. Intervistato da Reuters, Torbjorn Soltvedt, analista di punta di Verisk Maplecroft, ha affermato che “non sarebbe sorprendente se alcuni paesi sviluppati in Europa iniziassero a vedere forme più gravi di disordini sociali”. Ed infatti il rapporto colloca l’Europa in una condizione di forte crisi economica e sociale a causa delle ricadute dell’invasione russa dell’Ucraina. Bosnia ed Erzegovina, Svizzera, Paesi Bassi, Germania e Ucraina sono tra gli stati dell’area che presentano il maggiore rischio di disordini.

La classe dominante comincia a preoccuparsi, sa che deve fare i conti con il fronte interno, e i paesi più ricchi cercano di intervenire preventivamente con bonus e sostegni al reddito, come durante le fasi più acute della pandemia di Covid-19, per scongiurare la crescita di movimenti antisistema. Ma queste misure sono solo pannicelli caldi. La campagna “Don’t Pay”, nata in Gran Bretagna contro l’aumento delle bollette, potrebbe diffondersi presto in altri paesi e radicalizzarsi.

Ormai è chiaro che esiste un nesso tra guerra e crisi: l’una alimenta l’altra. Essere conseguentemente contro la guerra, dunque, vuol dire essere contro il capitalismo. Esiste un collegamento forte anche tra guerra e crisi da una parte, ed esplosione della lotta di classe dall’altra, la quale si acutizza per cause materiali, non certo perché il proletariato prende improvvisamente coscienza. Prima si mettono in moto la pancia e le gambe, poi il cervello: questa è la concezione materialistica della storia.

Non c’è da aspettarsi nulla di positivo dai sindacati, né dai confederali né da quelli di base. Bramano tutti il riconoscimento da parte dello Stato, il loro fine è sedersi ai tavoli delle trattative e firmare accordi con la controparte. Una prassi considerata normale al giorno d’oggi, anche dai più sinistri, ma che non ha niente a che vedere con le origini del movimento operaio, poco conosciute o volutamente ignorate.

Quando sale la tensione sociale, le organizzazioni sindacali sono costrette ad attivarsi, organizzando scioperi e manifestazioni, ma lo fanno con l’intento di preservare l’ordine sociale, controllare i lavoratori, impedire qualsiasi loro movimento autonomo. Mai fidarsi quindi dei bonzi sindacali, soprattutto quando si presentano come rivoluzionari e strizzano l’occhiolino all’autorganizzazione di classe. La situazione politico-economica è però fuori controllo, e dividere i lavoratori per località, categoria, mestiere o tessera d’appartenenza sarà sempre più difficile. Con i tempi che vengono avanti i bonzi dovranno fare uno sforzo notevole per convincere i loro iscritti a mantenere la calma, ad accettare il peggioramento delle condizioni di vita, e ad avere fiducia nel loro operato. E lo stesso vale per i partiti, come testimonia la crescita un po’ ovunque dell’astensionismo, soprattutto tra i giovani.

Urge la nascita di qualcosa di nuovo, di cui ancora non si scorgono chiaramente le forme, anche se ci sono esempi recenti che possono darci indicazioni sul futuro, a cominciare dal movimento Occupy Wall Street che ha saputo darsi un’organizzazione leaderless (senza leader), andando oltre il piano rivendicativo e riuscendo a collegarsi con ampi strati della working-class. Lo ha dimostrato il grandioso sciopero del 2012 che ha bloccato i porti della West Coast, da Oakland a Vancouver

https://www.chicago86.org/lotte-in-corso/internazionale/1403-mezzo-mondo-in-rivolta

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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