Antonio Rei 

Sono passate più di due settimane dalle elezioni politiche, ma del governo che verrà non si sa ancora niente. Nel frattempo, senza che a nessuno venga nemmeno in mente di alzare un sopracciglio, va in scena l’ennesima sgrammaticatura istituzionale: il governo Draghi rimane in carica, ma non si limita affatto agli affari correnti, come la Costituzione imporrebbe a un esecutivo in uscita. Tutt’altro. L’ex banchiere centrale continua a parlare in ogni sede a nome dell’Italia, partecipa ai vertici internazionali, prende decisioni attive tanto in politica interna quanto sul versante estero. E tutto questo, naturalmente, grazie al pieno sostegno del Presidente della Repubblica, che ha allestito questa transizione anomala per evitare vuoti di potere in una fase così delicata sotto vari profili: ci sono la legge di bilancio da scrivere, il Pnrr da rispettare e la partita sul gas da giocare a Bruxelles per contrastare la concorrenza sleale dei tedeschi.

A guardare lo scenario da Palazzo Chigi e dal Quirinale, quindi, non si fatica a capire le ragioni di questa nuova torsione delle regole costituzionali. L’aspetto più degno di nota è semmai un altro, e cioè che tutto ciò stia benissimo anche a Giorgia Meloni, che in teoria dovrebbe scalpitare per afferrare le redini da nocchiero, ma in pratica non sa ancora quali cavalli attaccare alla carrozza. E così rimane in silenzio, nell’ombra, fingendo di ragionare su chissà cosa.

Se guarda in casa propria, infatti, la Presidente del Consiglio in pectore ha davvero poco su cui lambiccarsi: la dirigenza di Fratelli d’Italia è un’accolita di bulli privi di competenza e credibilità, del tutto inadeguata a ricoprire il ruolo di ministro, e sembrano latitare anche uomini di fiducia tra i commissis di Stato, ovvero tra i dirigenti generali dei ministeri e della PCM. La questione è tutt’altro che semplice, perchè la seconda mancanza è ancora più grave della prima: il ministro in sé può essere un pupazzo senza che la cosa produca particolari danni, mentre alla direzione generale dei dicasteri è demandata la gestione effettiva della macchina amministrativa).

Per le poltrone chiave del nuovo Esecutivo bisognerà quindi pescare fuori dal perimetro del partito, ma rispettando diversi paletti: primo, evitare profili troppo tecnici, per non indispettire l’elettorato e gli alleati di Lega e Fi; secondo, rifuggire come la peste personaggi alla Tremonti, che creerebbero problemi con Bruxelles e Washington; terzo, trovare qualcuno che risponda ai requisiti e sia nelle condizioni di accettare l’incarico (diversamente da Fabio Panetta, che, saggiamente, ha più volte rifiutato il Tesoro per rimanere nel Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea).

Ma più ancora delle difficoltà pratiche nel mettere insieme la squadra, ciò che conta per Meloni in questa fase è il margine d’azione politico, che lei stessa preferisce ridurre a zero. Sa benissimo che il suo governo non sarebbe in grado di scrivere una legge di bilancio complicata e a tempi record. Sa benissimo che il Pnrr non si può affatto “rinegoziare” e che, per non saltare, deve continuare a essere gestito dalla stessa squadra tecnica che ci ha lavorato finora, perché altrimenti si metterebbe a rischio l’afflusso di denari già promessi ad amministratori pubblici e ad appaltatori privati. Infine, sa benissimo che, al momento, per lei non vale la pena di rappresentare l’Italia ai vertici europei: in termini di contenuti non potrebbe dire nulla di diverso da quello che dice Draghi; in compenso, lo farebbe con una dose assai inferiore di autorevolezza. La sua presenza, insomma, sarebbe usata dagli altri Paesi per sminuire e marginalizzare ancora di più le posizioni del nostro Paese, che già con Draghi rischiano seriamente di cadere nel vuoto, vista la contrarietà della Germania al price cap europeo sul gas.

È chiaro quindi che, per il momento, Meloni non ha alcuna fretta di ricevere la campanella da Draghi a Palazzo Chigi. Preferisce fare le cose con calma, lasciando all’ex banchiere centrale il tempo di impostarle il lavoro, di marcare il percorso che lei poi dovrà seguire. Non va mai dimenticato che Meloni, a suo tempo, votò a favore della legge Fornero, del Fiscal Compact e perfino del regolamento di Dublino sui migranti. Perché in fondo, al di là delle pose aggressive nelle piazze fascistoidi, la nostra futura Presidente del Consiglio è sempre stata questo: una persona che ubbidisce

https://www.altrenotizie.org/primo-piano/9776-draghi-la-proroga-silenziosa.html

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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