Il parapiglia tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni ci dice di una lotta impari per un riconoscimento di un ruolo psuedo-egemone rivendicato dal primo nell’ambito di un centrodestra ormai divenuto soltanto destra di governo.

La progressiva composizione della imminente esecutivo sovranista, unitamente all’elezione dei presidenti delle Camere, delinea il profilo aggressivo della maggioranza nei confronti un equilibrio tanto tra i poteri dello Stato quanto tra i temi che si dovrebbero compenetrare nella difesa dell’interesse comune e singolo di ogni cittadino.

Da qualunque latitudine della politica italiana si veda la querelle delle destre sulle nomine governative tanto ministeriali quanto di sottosegretariati, il pandemonio scatenatosi prima con l’elezione di La Russa e poi con lo scatto rubato dell’elencazione di tutte le “qualità” riconosciute dal Cavaliere nero di Arcore alla sua ex ministra della gioventù, evidenzia una serie di contraddizioni insperate e che le opposizioni dovrebbero sfruttare per dare qualche possibilità di speranza a questo Paese di non farsi troppo male col governo di Giorgia Meloni.

L’occasione è ghiotta e, forse (si spera) il treno passa una sola volta un po’ per tutti: quindi Meloni non può lasciarsi sfuggire nulla e nulla sacrificare allo smaniare di chi pure l’ha inventata, creata e resa celebre e celeberrima ma che, in questo frangente, si ritrova al ribasso di un 8% che impallidisce davanti alle percentuali di Fratelli d’Italia.

La corsa dei sondaggisti, oltretutto, non si ferma nel post-voto e, quasi per influenzare la normale (si fa per dire…) dialettica del potere che costruisce sé stesso nell’accingersi a governare il Paese, sciorina una serie di numeri che aumentano la distanza tra Fratelli d’Italia e gli alleati.

Silvio Berlusconi è abilissimo nel comunicare direttamente usando una serie di artifici che permettono di rivendicare la sbadataggine, la distrazione o, addirittura, la malizia giornalistica da un lato, quella dei fotografi dall’altro. Che non abbia tenuto conto degli zoom degli obiettivi che sono appollaiati sopra gli scranni del Senato, è davvero poco credibile.

Che abbia voluto iniziare in questo modo un rapporto apertamente conflittuale con Giorgia Meloni («Una arrogante, prepotente con cui non si può andare d’accordo», scripta manent) e tenere la maggioranza sulla graticola delle micro differenze numeriche che si registrano nella Camera Alta è probabile.

Ma se sarà possibile lo stabilirà una verifica dei fatti, di volta in vota, visto quanto accaduto durante l’elezione di Ignazio La Russa.

Di certo, per ora, c’è l’inizio claudicante di una coalizione che ha trovato l’utilitaristica unità nel mostrarsi, e nell’essere oggettivamente, l’unica proposta maggioritaria capace di governare a fronte di una ancora pasticciata riorganizzazione neocentrista da un lato e da una indistinguibile proiezione sull’elettorato da parte di un PD senza più anima, senza più idee e senza una prospettiva politica chiara e netta.

Non fosse altro che per questo, le destre sono maestre nel combattersi fino ad un certo punto, perché sanno coniugare e simbiotizzare tanto l’interesse di parte quanto quello più complessivo di coalizione. Non che il passato non ci riporti alla mente le spaccature tra Bossi e Berlusconi o tra quest’ultimo e Fini. Ma, al momento del voto, come vuole anche un po’ la vulgata popolare che si sente ripetere ad ogni angolo, «loro riescono a trovare una quadra e noi di sinistra no».

Ad entrare nell’alveo del mito e farne quasi un dogma politico ci vuole davvero poco. Anche perché non si trova traccia di una rottura di questo schema nel corso degli ultimi decenni. Quale che sia stata la composizione eterogenea del centrosinistra di prima e di poi, la divisione regna sovrana al di qua del sovranismo e pare sconosciuta al di là del fronte, ormai, di governo.

Tuttavia, anche in presenza di una mitologica graniticità elettorale delle destre più diverse fra loro, non può sfuggire anche all’occhio più distratto il fatto che, questa volta, sono proprio i rapporti di forza interni che hanno determinato la crisi politica tra Berlusconi e Meloni che, nonostante le dichiarazioni ufficiali dei rispettivi uffici stampa, è anche tratteggiata da personalismi, da un disprezzo che il leader di Forza Italia ha per quello che è oggi la futura Presidente del Consiglio e ciò che lui oggi non può più essere.

Non è tanto la componente dell’invidia a dominare la scena dello scontro tra liberali di destra da un lato e conservatori-reazionari dall’altro; semmai lo è ad adiuvandum, come contorno pesante di un fiero pasto per Meloni e di una parca cena per Berlusconi che, anche dentro al suo partito, non può non constatare le divisioni tra chi ritiene (come Antonio Tajani) di dover privilegiare il bene dell’alleanza piuttosto di quello di partito e chi invece (come Licia Ronzulli) è pronta a capeggiare il gruppo del Senato di Forza Italia per dare filo da torcere alla linea della prepotenza fratellitaliana.

Se non vi fossero di mezzo gli interessi sociali più dirimenti per la vita di ognuno di noi, per la stabilità economica di una Italia in balia delle decisioni europee in materia di finanziamenti (più che altro alle imprese…), si potrebbe anche accennare ad un sorriso ironico, ad un sardonismo d’occasione.

Invece ciò che, alla fine veramente della fiera cui si assiste, viene fuori è un panorama politico davvero devastato: la destra, liti o non liti, governerà cercando di durare il più possibile e, anzi, di oltrepassare la sottile piattaforma della sufficienza, del bastarsi e del tirare a campare, perché gli italiani sono facili al cambiamento repentino di voto.

L’umoralità dei nostri connazionali, sfruttata attraverso le paure ancestrali attualizzate nell’oggi di una crisi multistrato, locale e globale, può rivoltarsi proprio contro chi l’ha tendenziosamente sedotta a più non posso. Il boomerang della reazione popolare, quello marcato “insoddisfazione per l’azione di governo” è sempre dietro le proprie spalle e descrive, purtroppo, una incapacità diffusa di interpretare la politica come azione di lungo corso che, nel corso dei primi cento giorni di una legislatura, non è in grado di apportare cambiamenti radicali ai danni precedenti.

Salvo farne di nuovi e lasciarli a chi si avvicenderà a Palazzo Chigi. L’occasione, dunque, rimane ghiottissima per Meloni e per gli alleati, tanto da affidare ai social un commento per rendere omaggio alle vittime della deportazione nazifascista in quel lontano e mai dimenticato 16 ottobre 1943, là al Portico di Ottavia, là al Ghetto ebraico di Roma.

Mentre il cantiere del governo rallenta per via dei contrasti interni alla maggioranza, mentre Berlusconi rintuzza gli alleati, lei si mostra già leader dell’esecutivo che ancora non c’è. L’accreditamento internazionale passa anche per il riconoscimento dei valori costituzionali.

Dovrebbe essere cosa scontata. Ma non Giorgia Meloni. Non con le destre sovraniste e conservatrici. Ai vertici della Repubblica ce n’è abbastanza per accontentare tutti: revisionisti storici, moderati che vogliono superare gli ultimi (?) retaggi del revanchismo autoritarista, ultracattolici vandeani e neo o postfascisti che nell’esecutivo che verrà, giustamente, vedono quello più vicino alle loro posizioni politiche da che sono venuti al mondo.

Nessuno si faccia delle illusioni: le crepe nella destra di governo ci sono e ci saranno, ma per farle diventare faglie telluriche vere e proprie servirà una riorganizzazione sociale del conflitto, una apertura di contraddizioni economiche che non potranno essere governate se non disponendo le voci di bilancio a favore di una economia di mercato inevitabilmente contraria all’interesse del mondo del lavoro.

Nessuno faccia affidamento ai contrasti tra Berlusconi e Meloni per aprire una crisi strutturale nella società italiana. E’ proprio tutto il contrario. Dal basso, dalla grande massa della crescente indigenza deve venire una nuova proposta di alternativa sindacale, politica, civile, culturale e morale. Le destre non ci regaleranno niente a questo proposito e non possiamo essere degli attendisti, non possiamo aspettare, per rispetto delle regole democratiche, che il governo nero si suicidi politicamente.

Se si vuole veramente dare seguito ad una alternativa di società, bisogna anzitutto riconsiderare le debolezze da cui dobbiamo partire per la costituzione di un fronte progressista ampio che escluda le operazioni neocentriste e che riporti il lavoro, le ingiustizie e le diseguaglianze nell’ambito di una soluzione che privilegi l’inclusione e il dialogo, la solidarietà e la vicendevolezza delle problematiche.

Certo, sfruttando anche le contratture della maggioranza meloniana, ma con la consapevolezza critica che il nuovo corso della sinistra lo si edifica in positivo, sapendo scegliere in tempo, senza arrivarci – come avrebbe detto il maestro di Pavana – “per contrarietà“.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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