Il governo nel governo. Potrebbe essere il titolo a tutta pagina di un giornale che abbia notato una certa discrepanza tra il ruolo di unità e sintesi della linea politica dell’esecutivo rappresentato dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e quello di Ministro delle Infrastrutture assegnato a Matteo Salvini. Forse se l’attendevano un po’ tutti il ritorno sulla scena del guardiano dei porti, delle coste e dei sacri confini d’Italia dalla mai avvenuta invasione dei migranti nel nostro Paese.

Forse se lo aspettavano anche i suoi alleati di maggioranza, sapendo bene che, in qualunque dicastero fosse stato messo il leader della Lega, avrebbe comunque adattato le sue prerogative ministeriali alla campagna anti-immigrazione che ha contraddistinto lui e il suo partito da sempre e che ne è il caposaldo anticulturale e immorale, tanto da consentirgli di riesumare il Carroccio dal ruolo di forza secessionista padana a ipernazionalista italiana.

La sintomatologia del protagonismo salviniano, all’interno di un governo retto da un Presidente del Consiglio che non fosse lui stesso, Salvini l’aveva già mostrata e dimostrata nel Conte I, dove ha dato il meglio di sé stesso come Ministro dell’Interno e, grazie al suo comportamento politico-istituzionale si è procurato anche qualche guaio con la Legge.

I tempi cambiano, i capi di governo anche, ma le maggioranze tutto sommato rimangono un po’ quelle di sempre: questo almeno in casa di un centrodestra in cui il centro ha sempre meno peso e la destra ne ha, con inversione proporzionale, sempre di più. Questo nonostante la batosta elettorale che ha segnato il risultato leghista e lo ha portato ben al di sotto delle due cifre in cui speravano ancora i sostenitori del povero Alberto da Giussano.

Quello a cui stiamo assistendo è una sorta di riequilibrio dei rapporti di forza attraverso un coordinamento interministeriale dei leghisti nella compagine più ampia di governo: per compensazione, laddove sono un terzo dell’elettorato che ha permesso alle destre di accedere a Palazzo Chigi, quindi sul terreno della contesa politica strada per strada, piazza per piazza, cercano di strutturare un contrappeso governativo che faccia leva anzitutto sul ruolo fondamentale del ministero ricoperto da Giancarlo Giorgetti.

Essere il Ministro dell’Economia e delle Finanze, con una riconoscibilissima impronta di continuità draghiana nell’esecutivo meloniano, fa il paio con una vicepresidenza del Consiglio che non è da meno ma che non può che sottostare comunque alle direttive della Presidente. Poco prima di sottoporsi al giudizio delle Camere per la necessaria fiducia, il governo vive il suo tellurico assestamento, tutta la sua dinamica di spostamenti interni e di bilanciamento dei pesi e dei contrappesi che si sta per aprire con la nomina del grande gioco delle caselle dei sottosegretari ministeriali.

Tutto questo può sembrare un risiko di poco conto, una normalissima resa dei conti che sta al di là del politico ed anche del tecnico della politica stessa. Invece, per quanto appaia residuale, è la prima cartina di tornasole di un riposizionamento delle forze politiche e una attribuzione valoriale ad un programma di governo che, infatti, Salvini ha enumerato proprio parlando del contenimento degli sbarchi dei migranti, di quota 41, della Legge Fornero e della Flat tax.

La presunta unità di intenti del governo Meloni è ancora tutta da dimostrare e toccherà proprio alla Presidente del Consiglio, forte del risultato eletttorale prima di tutto suo e poi anche del suo partito, stabilire un punto di incontro sull’asse dove far stare in equilibrio le spinte singolari di Lega e Forza Italia alla concretizzazione degli interessi particolari di partito con il lavoro dell’intero governo.

Un dualismo come quello accennato da Salvini con il coordinamento dei ministri della Lega e nell’incontro con il comandante delle capitanerie d’Italia, quindi un comportamento che travalica le funzioni di vicepresidente del Consiglio e, soprattutto, di Ministro delle Infrastrutture, ma che richiama invece molto il ruolo di capo politico dell’ex partito secessionista, non può essere la cifra di convinvenza per cinque lunghi anni di legislatura e di consiliatura governativa.

Ne sapremo di più da Giorgia Meloni nel mentre e dopo la fiducia che otterrà dalle Camere. La puntigliosità della leader di Fratelli d’Italia dovrà necessariamente fare il paio con una intelligenza un po’ democristiana, con un addivenire al compromesso senza scendere nella compromissione, per rimarcare il suo ruolo di decisore ultimo ma anche di componitrice delle differenze che si manifesteranno nell’esecutivo mano a mano che i grandi temi di natura sociale ed economica aggrediranno ferocemente l’agenda politica.

Forza Italia, invece, ha un ruolo di comprimaria: un po’ con la Meloni e un po’ con Salvini. Somiglia molto ad un pendolo che oscilla in una incertezza costante, ritmicamente uguale a sé stessa perché, al momento, è l’unica consapevolezza che può avere un partito disfatto dal tempo, logorato dalle lotte intestine, consumato dal monarchismo berlusconiano e dalla mutevolezza di così tanti eventi che ne hanno fatto, alla fine, uno spettro del passato più che un attore del presente.

La diatriba tra governisti e partitisti, che ha riguardato molte delle formazioni politiche che via via si sono avvicendate nel ruolo di prima forza del panorama parlamentare e governativo italiano, tra i molti rischi endogeni che si trascina dietro, ne ha anche alcuni esogeni: primo fra tutti il distrarci dai problemi concreti che il Paese deve affrontare e che una opposizione degna di questo nome deve raccogliere, per non lasciare al governo l’iniziativa di una modificazione in peggio delle criticità evidenti e tanto diffuse.

La prima preoccupazione di Matteo Salvini è stata, dunque, la presa in carico della gestione dei porti per tornare ad influenzare la politica dell’immigrazione dal punto di vista esclusivista, respingente e pienamente inserito nella visione deformante dello scontro di civiltà e magari pure della cosiddetta “sostituzione etnica“, paventata da tanti complottisti e sovranisti al qua e al di là dell’oceano.

Qui si rischia di dare prevalenza ad una commistione perversa tra situazione contingente e reale dell’ampio fenomeno globale delle migrazioni che, da che mondo è mondo, hanno sempre riguardato i popoli che vivevano in condizioni di disagio, e una sua dissimulazione attraverso una politica di governo tesa a sottintendere volutamente le cause primarie per coltivare un consenso popolare alimentadolo sulla rabbia per la mancanza di posti di lavoro, per la presunta ricchezza che ci verrebbe tolta dagli “stranieri“.

Nel mentre, nel suo discorso alla Camera dei Deputati, Giorgia Meloni cita l’”Amerigo Vespucci“, come cardine della metafora della nave su cui tutti stiamo, quella «più bella del mondo», ossia l’Italia, Matteo Salvini ha in mente altre navi da fermare, da rimandare indietro in Libia. Là dove vige un memorandum, voluto dal centrosinistra, firmato da Gentiloni e sostenuto da Minniti, che ha imposto ai migranti un rientro coatto in una terra da cui scappavano anche per non finire nuovamente nei lager in cui erano trattenuti contro la loro volontà.

Si sarà anche impedito a circa 100.000 migranti, tra il 2017 ed oggi, di arrivare sulle coste italiane, ma si sono create delle grandi prigioni e campi di vera e propria tortura in un paese dilaniato da una guerra civile, con due governi, due parlamenti e un grande cimitero di civili dalla sabbia del deserto alle profondità del Mediterraneo.

Le premesse per una politica governativa intransigente sui problemi sociali che possono garantire pletore di voti ci sono tutte; ancora di più garantite da quelle apparenti contraddizioni interne che sono, al momento, una normalissima, prevedibilissima dialettica tra alleati che cercano una compensazione nelle rispettive debolezze e forze.

Sarà proprio questa ricerca costante della stabilità interna al governo a fornire il pretesto maggiorato di una compatezza esterna, di un riscontro di un favore popolare che, certamente, nei primi mesi potrebbe calare in seguito alle misure economiche che Meloni e Giorgetti dovranno prendere.

Ogni aspetto della crisi strutturale odierna può avere due facce uguali e contrarie: una ambivalenza che non è un deterrente di carattere storico, richiamabile un po’ in tutte le epoche e per tutte le forme di governo, soprattutto se la natura della politica che si intende portare avanti è ostinatamente fondata su una discriminante nazionalista che privilegerà l’italianità e la tradizionalità delle «radici giudaico-cristiane dell’Occidente» citando, ad esempio, San Benedetto come Santo Patrono dell’intera Europa.

Per le culture alternative a quella “ufficiale” vi sarà tolleranza, ma mai condivisione e compenetrazione. Sarebbe chiedere troppo ad una destra povera di argomenti storici, filosofici, etici e politici, che da sempre raccatta qua e là la peggiore retorica populista e le più nauseabonde banalità se si deve parlare al popolo di problemi sociali.

Possiamo essere certi di un’altra cosa: pur essendovi un governo nel governo, la contraddizione che noi vi leggiamo non è poi una grande preoccupazione per la classe dirigente economica del Paese. I padroni, gli imprenditori e finanzieri possono stare sufficientemente tranquilli. Pesi e contrappesi, pur in un esecutivo già vecchio in partenza, sono stati messi: Giorgietti all’economia e Salvini alle infrastruture.

La cartografia dei disastri che ne potrebbero venire fuori è già, così, grigiamente delineata e tracciata. Tocca ora all’opposizione sociale, sindacale, della sinistra di alternativa e di tutto quel fronte progressista che deve essere costruito, fare una energica parte di dirottamento dei proponimenti meloniani e salviniani verso il maggior numero possibile di sconfitte.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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