Che cos’è veramente la pace? E’ una idea innata soltanto platonicamente definibile come “assenza di guerra“, oppure è per davvero un nuovo modo di pensare e poi dare seguito ad una nuova umanità che non la contempli più a trecentosessanta gradi?

Se si trattasse solo di pensare la pace per poterne fare un principio ancestrale da realizzare, si finirebbe con l’idealizzarla, con il mitizzarne il potenziale di innovazione che avrebbe se esistesse. Un po’ come tutte le grandi idee di liberazione dell’essere animale-umano e degli animali non umani, nonché del pianeta intero, dallo sfruttamento che noi stessi ci infliggiamo ed a cui costringiamo i nostri dissimili.

No, la pace non è un concetto astratto, per quanto possa sembrare tale visto che è irrealizzabile come stile di vita, convivenza e mantenimento di un equilibrio più che soddisfacente tra i popoli e dentro le comunità popolari stesse. La pace, verrebbe da dire, è una dimensione altra rispetto a quella che noi stessi chiamiamo oggi “pace“.

Perché noi, pur apprezzando lo “spirito” della pace, il suo alto concetto di sedazione di tutti i conflitti armati, ci riferiamo continuamente a periodi di interposizione tra due guerre; ed anche quando affermiamo che le guerre non si devono più combattere non siamo però in grado di immaginare nemmeno lontanamente, oggi e domani, un mondo in cui questo possa verificarsi concretamente.

La spiegazione non è semplice ma, quanto meno, è sufficientemente comprensibile perché è, se non altro, evidente: la conflittualità sociale, la lotta fra le classi, la preservazione del potere da parte di una determinata classe, quindi la dominazione di una parte della popolazione (sempre più piccola e sempre più ricca e iperprivilegiata) sul resto dell’umanità sono tutti elementi che definiscono i motivi per cui quella che Kant definiva “la pace perpetua” è oggettivamente impossibile da raggiungere.

Lottare per la tendenza all’azzeramento dei conflitti armati, sia chiaro, è necessario e imprescindibile. Perché ormai siamo tanto assuefatti all’idea della guerra come costante della Storia e dell’attualità, da non considerare più grave e degno di attenzione il pullulare di scontri pluridecennali tra nazioni, interetnici: guerra civili che si combattono ben oltre i confini temporali delle singole generazioni, che travalicano i secoli, che affondano le radici addirittura nei millenni precedenti.

Oltre 140 guerre sono sparse per un pianeta devastato dalla crisi ambientale, dove la distribuzione della ricchezza che si potrebbe produrre rispettandolo è sempre più inversamente proporzionale allo stato sociale delle persone: chi è più ricco lo continua ad essere e diventare in maniera esponenziale e così chi viene trascinato, di conseguenza, nella voragine della nuova povertà globale e locale.

La giustizia sociale, la rivendicazione del diritto ad una esistenza dignitosa, in cui non si debbano elemosinare le cure sanitarie, l’accesso ai beni comuni primari (come l’acqua, il cibo, la casa, tra i primi e più dirimenti) fa parte del piedistallo su cui deve poggiare una moderna domanda di pace a tutto tondo. Dobbiamo cambiare punto di vista e smetterla di pensare alla pace come mera assenza di guerra. Dobbiamo pensare alla pace come progetto di rinascita di una umanità che la smetta di fare la guerra anche alle altre specie viventi.

Non basta lottare per abbattere lo sfruttamento dell’essere umano su sé stesso se non superiamo anche lo sfruttamento che esercitiamo su tutti gli animali non umani (poiché noi siamo “animali” e lo siamo da “umani“) e sulla natura nella sua straordinaria complessità. Riscrivo qui ciò che ho già lungamente trattato in tanti altri contributi alla discussione: la liberazione umana viaggia di pari passo con quella animale e con quella della casa in cui tutte e tutti abitiamo.

Contribuire alla causa della “pace perpetua” vuol dire oggi far fare un salto di qualità alla causa (che chiamarla “lotta” rimanda troppo ad un concetto che contraddice quello che stiamo trattando nello specifico) del lavoro e di tutti gli sfruttati: anticapitalismo, antispecismo e antimilitarismo sono parenti stretti fra loro, così come lo sono con l’antirazzismo e tutto ciò che contraddice e decostruisce quel pregiudizio patriarcale che è una fisiognomica sembianza della bruttura disumana in cui ci siamo (in)coscientemente abituati a vivere.

Per queste ragioni, i presupposti ideali dei movimenti sociali e civili, ambientali, scolastici, giovanili e senili, politici e sindacali, culturali e morali devono poter trovare una convergenza in un lavoro di avvicinamento progressivo.

Un processo di accostamento reciproco dettato da una esclusione dei troppi giustificazionismi e dei tantissimi alibi che ci siamo concessi quando abbiamo limitato la prospettiva dell’evoluzione alla sola sfera umana, al solo contesto del vertice di una piramide specista alla cui cima sta l’essere (dis)umano e per cui, anche dai marxisti e dai comunisti, veniva dato per scontato che, una volta liberata dallo sfruttamento del sistema di produzione capitalistico, l’umanità sarebbe stata libera di vivere, per l’appunto, in pace.

Siamo imprigionati nelle ristrette maglie di una impellente attualità, del contesto intrinseco con cui dobbiamo fare i conti quotidianamente e, così, discorsi come quelli sopra sembrano fantasticherie, utopie e semplicisimi fanta-ideologici.

Ma, se è vero che non possiamo elevarci ad altezze così iperuraniche se guardiamo oggi il disastro antisociale, incivile, immorale e decisamente anticulturale in cui siamo immersi fino ed oltre il collo, è altrettanto vero che possiamo iniziare a cambiare il nostro punto di vista. Possiamo iniziare a pensare alla pace come a qualcosa di veramente universale, come ad un universale della natura stessa, del mondo intero che, lo si voglia o no, ci riguarda tutte e tutti in primissima persona.

Le manifestazioni che si terranno in questi giorni debbono poter un giorno essere sorrette da piattaforme rivendicative che mettano avanti a tutto un programma sincretico tra diritti e ragioni sociali, civili e morali.

Perché dentro la socialità sono compresi tutti i presupposti di un confronto serrato fa le classi che sono inevitabilmente opposte fra loro, nonostante le destre e i teorici del neoconservatorismo sovranista e nazionalista neghino tutto questo, provando a orizzontalizzare una lotta che è invece verticalissima (dall’alto della enorme ricchezza in mano di pochi al basso dell’enorme povertà nelle tasche vuote di tanti).

Perché dentro la civiltà si trovano tanto la socialità nel suo complesso quanto la moralità nel suo alto valore (certamente universale ma anche particolare se ci si riferisce a quell’equilibrio necessario tra collettivo e singolo che è il presupposto di una edificazione futura di una “umanità nova“, un po’ libertariamente parlando).

E perché, infine, parlare e praticare la pace non può voler dire fare delle opere di bene e accettare il sistema in cui sopravviviamo in miliardi di esseri umani e in centinaia di miliardi di animali non umani. Ogni azione che sostiene una alterità tanto cognitiva quanto fattiva è e deve essere inclusa nel progetto di una costruzione progressiva di un mondo capovolto rispetto a quello di oggi e del passato.

Questa contraddizione esplicita va messa sul tappeto e va affrontata: così come nella drammatica quotidianità della guerra in Ucraina non ha senso inviare le armi e poi scendere in piazza con le bandiere della pace da parte delle forze politiche che riescono a creare questo dualismo, altrettanta mancanza di senso avrebbe pensare la pace, ben oltre la semplice definizione diffusa di “assenza di guerra” o di intercapedine temporale tra due conflitti, e dare per scontato il capitalismo. Che è di per sé guerra.

Guerra di una classe contro un’altra classe, violenza permanente contro i più deboli e meno tutelati, discriminazione e ghettizzazione di chi non riesce ad adeguarsi agli standard di vita che esige e impone per raggiungere una affermazione delle proprie specifiche qualità, del proprio lavoro, del proprio estro.

Scendiamo in piazza con le nostre bandiere arcobaleno ma iniziamo a pensare a come unire le forze che mettono in discussione il sistema delle merci e del profitto. Uniamoci a quelle che fanno dell’antispecismo un valore davvero costituente di una nuova vita condivisa sulla Terra. Ed uniamo tutte le differenze, tutte le stranezze, tutto quello che ci sembra incomprensibile, per rendere tutto questo capibile e ragionabile. Fino a poco tempo fa la schiavitù era “normale“.

Per poter dare una speranza alla pace dobbiamo iniziare a riformulare proprio tutto quanto ci sembra normale, naturale e immutabile. Nulla è mai “sempre stato così“. La natura è la prima a dimostrarcelo con i suoi continui cambiamenti. Ma senza saltare nessun passaggio. Per creare le condizioni di una irreversibilità del mutamento e non crearne soltanto la piccola, meschina illusione.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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