L’estrosa veste rinnovata della dicitura Ministero dell’Istruzione e del Merito del nuovo governo Meloni non stupisce. Del resto, è da vent’anni che si gioca a modificare la nomenclatura dei dicasteri con acronimi ministeriali tra i più fantasiosi.

La scelta di un tale incompatibile accostamento semantico tra le parole merito istruzione invece, dovrebbe farci porre qualche quesito, al tempo costruttivo e distruttivo nei confronti di un ideale di giustizia sedimentato ormai in una visione del mondo che risponde a una logica esclusivamente funzionalista.

Anzitutto, bisogna precisare che la critica alla meritocrazia non corrisponde alla negazione del merito tout court, che è di per sé una parola neutra se estranea a un certo contesto, ma se invece è inserita in un meccanismo sociale che parte da un vizio della sua stessa struttura, diventa estremamente pericoloso, in quanto legittimatore di ingiustizia.

Invocare l’articolo 34 della Costituzione italiana non servirà ad affrancarsi dalle critiche legittime che nelle ultime settimane si sono alzate nei confronti di questa nuova arma, apparentemente logica, in pugno alla società: il merito. Nell’articolo in questione infatti, si rimanda ad una visione di merito che non esula dall’osservanza dei diritti: “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

Il merito quindi, può ergersi a fautore di giustizia sociale solo in una società ideale in cui non esistono differenze di classe o asimmetrie di ogni sorta, che se non impediscono, di certo rendono molto complicata la mobilità sociale.

Il sostegno all’innocenza dell’argomentazione semplicistica del merito non fa altro che mettere in luce, agli occhi di molti, che di innocente non c’è nulla, né nelle intenzioni, neppure negli scopi; bisognerebbe infatti, da una parte svelare l’arcano del retaggio neoliberista che rende fattori quali la dedizione, lo sforzo, il talento, tutti elementi di una grande funzione che è unicamente quella economicistica legata alla produttività; dall’altro è importante considerare l’illusione nel ritenere il merito una variante completamente svincolata da fattori esterni che finisce così per diventare specchietto per le allodole per coloro che finalmente incontrano il successo.

Il determinismo della meritocrazia mette in atto una spaventosa selezione che poco ha a che fare con le capacità ma molto con le possibilità di partenza di ognuno, aspetto cruciale che ai sostenitori del merito sembra sfuggire. Le critiche recenti non hanno a che fare con la demonizzazione totale del concetto di merito, che pure conserva una certa nobiltà nelle intenzioni (più nei sostenitori che nei fautori), piuttosto rappresentano contestazioni rispetto all’illusione che questo possa sconfiggere le disparità create da un sistema economico e sociale di competitività spietata.

Chi tra i molti intellettuali e politici oggi si erge in difesa di questo concetto, ripone vane speranze sul fatto che il merito sia l’antidoto alle disuguaglianze sociali, quando invece è il veleno che aiuta a perpetrarle, un prodotto impacchettato che sostiene le argomentazioni dei neoliberisti, concepite dalla scuola di Chicago, non di certo dai socialisti di inizio secolo scorso, come sappiamo.

Per ovviare alle accuse di vuota posizione ideologica sul merito, forniamo degli esempi pratici:

è una variabile indipendente dal fattore ricchezza il merito, per uno studente fuorisede che è costretto a sborsare per un alloggio ai limiti dell’accettabile, nella periferia di Milano, 700€ al mese? O una studentessa che decide di studiare nella capitale e che per questo si vede obbligata a far fronte a un carico di spese altrettanto esoso e a dir poco inaccettabile?

Come fa notare brillantemente Andrea Colamedici: “La meritocrazia è Squid Game, chi vince va avanti”.

Applicare un criterio democratico all’educazione significa auspicare una scuola che diventi sempre meno sede di tornei ininterrotti e sempre più luogo di confronto. Invece, il confronto, anche nella sua dimensione dialettica di conflitto, viene meno nel totale interesse di un sistema in cui ci si da tante risposte di circostanza ma ci si esime spaventosamente dal porsi domande.

Sembra un ossimoro ascoltare intellettuali reputarsi progressisti e al contempo difendere il merito come soluzione ai mali di questa società, non foss’altro per il fatto che quella del merito a ben vedere è un’idea conservatrice, di mantenimento del privilegio che continua ad essere perpetrato ma nient’affatto prevenuto.

Quell’approccio esistenziale legato alla costante ansia da prestazione e al confronto sociale è tutto ciò che invece, non meritano i giovani (perdonerete il gioco di parole).

Quindi la provocazione è aperta a tutti: cosa ce ne facciamo del merito senza le pari opportunità? E cosa salvare di questo concetto in una società che premia il privilegio a scapito dei diritti?

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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