Vincenzo Comito

Il modello economico tedesco, a cui l’Italia è legata per le subforniture, ha bisogno di revisione ma intanto ha deciso di andare in direzione opposta a Usa e Ue continuando a annodare legami con la Cina. Una opzione alternativa al decoupling stigmatizzata in Italia.Nell’ultimo periodo la quasi totalità della stampa occidentale si è scagliata con veemenza contro la Germania e in particolare contro il cancelliere Olaf Scholtz ritenuto colpevole di molti delitti; intanto quello di aver concesso l’acquisto di una quota di minoranza in una società del porto di Amburgo ad una impresa cinese, mentre sembrava anche in procinto di permettere ad un’altra società di Pechino la presa di controllo in una società che produce chip (decisione poi rientrata), quello poi sempre verso Scholtz di voler effettuare un viaggio in Cina, che si è svolto come previsto, accompagnato da molti rappresentanti della grande impresa del paese teutonico, infine quello di aver pronunciato anche a Pechino, oltre che in patria, parole contrarie al decoupling e all’isolamento della Cina.Da rilevare che a suo tempo Angela Merkel in sedici anni di governo aveva visitato la Cina 12 volte. Da sottolineare anche, incidentalmente, che il governo Draghi, durante la sua esistenza, ha invece bloccato un tentativo dei cinesi di acquisire una partecipazione in una società del porto di Trieste, nonché in una piccola società che produce chip, oltre che in diverse altre iniziative, di cui qualcuna molto rilevante (l’Iveco), mentre ha stracciato sostanzialmente l’accordo relativo alla Via della seta concluso dal governo precedente. Brillano come al solito per oltranzismo nei commenti e per debolezza di argomentazioni e di competenza i giornali italiani. La notizia dei movimenti e delle dichiarazioni di Scholtz non è stata vista molto bene neanche nell’ambiente politico interno tedesco, dove il partito americano, rappresentato in particolare dai verdi e dai liberali, ha manifestato, invano, la sua contrarietà. Naturalmente ci si è mostrati scandalizzati dell’atteggiamento di Scholtz anche a Bruxelles dove si va da tempo preparando, sotto dettatura di oltre atlantico, un documento politico molto ostile al paese asiatico.Senza certo mettere in dubbio il fatto che il tradizionale modello economico tedesco è in generale in difficoltà ed ha bisogno di una rilevante revisione, pensiamo che comunque non abbia bisogno di molte delle critiche interessate che ad esso fanno riferimento. In ogni caso la risposta tedesca alla confusione del mondo sembra andare in direzione opposta a quella degli Usa e della UE, legandosi anche di più e non meno alla Cina. A questo proposito tra l’altro, nel corso dei colloqui cino-tedeschi svoltisi a Pechino, si è convenuta tra le due parti una cooperazione più avanzata nei settori emergenti, quali le nuove tecnologie energetiche, l’intelligenza artificiale, i processi di digitalizzazione. Più in generale, si è raggiunto un consenso sulla globalizzazione, la liberalizzazione del commercio, un mondo multipolare, mentre il cancelliere ha ribadito la sua opposizione ai processi di decoupling.Guardiamo ai fatti. Da sei anni la Cina è il più importante partner commerciale della Germania, con gli interscambi che nel 2021 hanno raggiunto il livello di 245 miliardi di dollari, mentre nei primi sei mesi dell’anno le importazioni tedesche dalla Cina sono aumentate del 45% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tra l’altro queste ultime sono pari come ammontare quasi al doppio di quelle dagli Stati Uniti (Groll ed altri, 2022). Il deficit commerciale tedesco con il paese asiatico, sempre nei primi sei mesi dell’anno, è salito a 41 miliardi di euro. Ma questo dipende anche dal fatto che le imprese tedesche tendono a produrre in loco, oltre che esportare dalla Germania. In effetti nei primi sei mesi del 2022 gli investimenti diretti tedeschi in Cina sono cresciuti a 10 miliardi di dollari, contro i 5,7 dello stesso periodo dell’anno precedente (de Calignon, 2022).Analizzando le cose con maggiore dettaglio appare facile capire perché i grandi produttori tedeschi vogliono continuare a fare affari in Cina. Ricordiamo intanto che la struttura industriale teutonica si basa su tre pilastri, l’auto, la chimica, la meccanica.Nel settore dell’auto, le case tedesche vendono nel paese asiatico in media un terzo della loro produzione (solo la Volkswagen vi esita più di 4 milioni di vetture all’anno) e vi ottengono una quota anche maggiore dei loro profitti. Esse hanno ormai nel paese sedici centri di ricerca e sviluppo (di cui 11 aperti dal 2018 ad oggi) per partecipare al fatto che siamo in presenza del mercato più grande del mondo, in cui si vendono ogni anno più auto che in Europa e negli Stati Uniti messi insieme, con prospettive di crescita molto forti, se si considera che al momento soltanto il 12% dei cinesi possiede una vettura; si tratta anche del paese più avanti nelle tecnologie dell’elettrico. La sola BMW vi ha da poco aperto la sua quarta fabbrica. Più in generale gli investimenti tedeschi nel settore hanno raggiunto i 34 miliardi di euro, con la consapevolezza anche del fatto che il paese è il cardine della loro competitività globale. Tra l’altro le imprese tedesche dell’auto hanno integrato molte aziende cinesi nelle loro catene di fornitura globali (Hollinger, 2022). Comunque, con l’avvento dell’elettrico le imprese tedesche, che sono state relativamente lente ad investirvi, rischiano di perdere posizioni, mentre la Cina produce tra il 55% e il 60% di tutte le vetture elettriche del mondo. Ricordiamo infine che il settore impiega in Germania direttamente o indirettamente circa 15 milioni di persone.Nel settore della chimica il ruolo della Cina è ancora più netto. In Europa ormai esso pesa soltanto per il 14,40% del totale mondiale, molto meno del passato, mentre si prevede che esso scenderà ancora sino a circa il 10% nel 2030. In Cina si va in prospettiva, nel 2030, verso il 50% del mercato globale (Boutelet, 2022); chi vuol stare nel settore deve andare in Cina, come fa notare il capo della Basf che, mentre ha delle difficoltà in patria e anzi annuncia una riduzione importante delle capacità di produzione in Europa, sta avviando nel paese asiatico una nuova fabbrica da 10 miliardi di dollari in cui le attività si svolgeranno interamente con energie rinnovabili (Chazan, Yuan Yang, 2022). Incidentalmente il nuovo insediamento, per le sue caratteristiche, appare un segno che la Cina, che una volta era contenta di essere la fabbrica del mondo, sta rapidamente diventando l’innovatore del mondo (Hollinger, 2022). Se volete essere un gigante mondiale della chimica, non potete dire che la metà del mercato mondiale non vi interessa, come afferma sempre il capo della Basf, Martin Brudermuller. E in termini più generali, afferma lo stesso Brudemuller, si sottostima in Germania sino a che punto la nostra prosperità è in parte finanziata dalla Cina. A parte Basf, anche la Covestro ha annunciato rilevanti investimenti nel settore nel paese. Anche questo settore impiega in Germania un grande numero di persone. Molto spinta è anche la presenza tedesca nella meccanica (macchine utensili, componenti per auto ed altri prodotti, attrezzature pesanti). Intanto il principale produttore tedesco di semiconduttori, la Infineon, ottiene circa il 38% dei suoi ricavi (dati 2021) sul mercato cinese. La conglomerata Siemens, forse la più grande impresa manufatturiera europea, ha annunciato un grande investimento nel campo digitale in Cina. Aldi, la rete di negozi discount, sta programmando di aprire centinaia di nuovi negozi nel paese. Infine la Deutsche Bank ha annunciato l’intenzione di emettere dei panda bond, obbligazioni emesse in yuan sul mercato cinese da entità non residenti.Nel distretto di Taicang hanno un qualche sito produttivo 443 medie e piccole imprese tedesche, tra le quali sei tra le prime dieci imprese produttrici di macchine utensili. Più in generale, sono presenti nel paese circa 5.000 aziende teutoniche che occupano direttamente 1,1 milioni di persone, mentre nella stessa Germania gli insediamenti cinesi portano ulteriori occupati per circa un altro milione di addetti.D’altro canto, la Cina fornisce alla Germania molte materie prime critiche come le terre rare, poi degli input intermedi e semilavorati, componentistica per la e-mobility e per l’energia rinnovabile; una recente inchiesta della Ifo ha trovato che il 46% delle imprese industriali tedesche si basano su degli input produttivi intermedi di origine cinese. Ma ci sono delle difficoltà. Il problema è semmai che nel tempo le imprese cinesi sono cresciute quantitativamente e qualitativamente in molti settori, così da essere dei concorrenti sempre più temibili per le imprese tedesche e rubare loro quote di mercato. D’altro canto bisogna considerare le pressioni politiche statunitensi (paese che può contare su forti sostegni sul fronte politico interno teutonico e però fortemente contrario ai legami con la Cina), con la parallela minaccia, sempre brandita, di Taiwan.Così, alla fine, diverse imprese teutoniche sembrano scegliere non tanto di abbandonare la Cina (i casi relativi sono rari), e piuttosto di aprire punti di attività ulteriori in altri paesi, diversificando i rischi, con la politica del cosiddetto 1+1. “Non bisogna mettere tutte le uova in un solo paniere”, è una battuta che circola a questo proposito a Berlino. Ricordiamo che il cancelliere tedesco non si preoccupa soltanto della Cina; prima che in tale paese Scholtz si è recato in Giappone e di seguito si sta recando in Vietnam e a Singapore, dove incontrerà i paesi dell’Asean.ConclusioniLa grande industria tedesca non è sicuramente d’accordo con la linea del decoupling portata avanti da Biden ed in questo appare spalleggiata dal cancelliere Scholtz, mentre da Bruxelles arrivano segnali di crescente ostilità verso il paese asiatico.E se avessero ragione a Berlino? La realtà dei fatti, soprattutto per la grande impresa europea (e non solo per quella tedesca, che comunque possiede il settore industriale di gran lunga più importante in Europa; sottolineiamo a latere che una parte consistente delle imprese industriali del Nord Italia lavora con subforniture alle aziende tedesche) è quella che apparentemente non ci sono grandi prospettive se non si è presenti in forze nel paese asiatico. Come si legge nel titolo di un articolo apparso di recente sul Financial Times (Hollinger, 2022) “prendersela con la Cina non porterà l’Europa da nessuna parte”. O secondo le dichiarazioni dello stesso Scholtz “bisogna ballare con quelli che ci sono nella stanza, questo si applica alle discoteche come alla politica mondiale” (Chazan, Yuan Yang, 2022). Infine qualcuno ribadisce, rivolto agli stessi compatrioti tedeschi, “non capite da dove è venuta sino ad oggi tutta la nostra ricchezza?” (Chazan, Yuan Yang, 2022). L’Europa si trova di fronte alla chiusura di molti impianti industriali ad alto consumo di energia, al progetto non compiuto di un mercato unico, di fronte alla concorrenza di paesi con costi dell’energia molto più bassi, regolamentazioni meno stringenti e un sostegno più generoso da parte dei governi (Hollinger, 2022). Non si capisce come uscire da tale impasse senza una adeguata spinta in direzione della Cina, il cui mercato tende a dominare in maniera crescente molti settori produttivi ed in particolare quelli in cui è fortemente presente l’industria tedesca e non solo quella. Incidentalmente ricordiamo che i dati più recenti indicano un tasso di inflazione pari al 2,1%. Ciononostante è facile prevedere che a Bruxelles si farà di tutto per ostacolare in tutti i modi possibili una linea alternativa. Alla fine la politica tedesca, o almeno quella di Scholtz, sembra per molti versi incline a ricercare una maggiore autonomia strategica, pur nell’ambito di un ancoraggio al quadro occidentale, linea che sembra corrispondere alle necessità vitali dell’economia tedesca. Con questa politica Berlino indica per lo meno una possibilità, se non una scelta obbligata, agli altri membri dell’UE. Testi citati nell’articolo-Boutelet C., La Chine, ligne de fracture inédite au sein du patronat allemand, Le Monde, 4 novembre 2022-de Calignon G., L’économie outre-Rhin est de plus en plus liée à la Chine, Les Echos, 3 novembre 2022-Hollinger P., China bashing will get Europe nowhere, www.ft.com, 3 novembre 2022-Chazan G., Yuan Yang, Germany struggle with its dependency on China, www.ft.com, 1 novembre 2022-Groll T. ed altri, Was waren wir ohne China, www.zeit.de, 3 novembre 2022La

Germania, rapporti aperti con la Cina

Vincenzo Comito14 Novembre 2022 | Sezione: AperturaEconomia e finanza

Il modello economico tedesco, a cui l’Italia è legata per le subforniture, ha bisogno di revisione ma intanto ha deciso di andare in direzione opposta a Usa e Ue continuando a annodare legami con la Cina. Una opzione alternativa al decoupling stigmatizzata in Italia.

Nell’ultimo periodo la quasi totalità della stampa occidentale si è scagliata con veemenza contro la Germania e in particolare contro il cancelliere Olaf Scholtz ritenuto colpevole di molti delitti; intanto quello di aver concesso l’acquisto di una quota di minoranza in una società del porto di Amburgo ad una impresa cinese, mentre sembrava anche in procinto di permettere ad un’altra società di Pechino la presa di controllo in una società che produce chip (decisione poi rientrata), quello poi sempre verso Scholtz di voler effettuare un viaggio in Cina, che si è svolto come previsto, accompagnato da molti rappresentanti della grande impresa del paese teutonico, infine quello di aver pronunciato anche a Pechino, oltre che in patria, parole contrarie al decoupling e all’isolamento della Cina.

Da rilevare che a suo tempo Angela Merkel in sedici anni di governo aveva visitato la Cina 12 volte. Da sottolineare anche, incidentalmente, che il governo Draghi, durante la sua esistenza, ha invece bloccato un tentativo dei cinesi di acquisire una partecipazione in una società del porto di Trieste, nonché in una piccola società che produce chip, oltre che in diverse altre iniziative, di cui qualcuna molto rilevante (l’Iveco), mentre ha stracciato sostanzialmente l’accordo relativo alla Via della seta concluso dal governo precedente.  

Brillano come al solito per oltranzismo nei commenti e per debolezza di argomentazioni e di competenza i giornali italiani. La notizia dei movimenti e delle dichiarazioni di Scholtz non è stata vista molto bene neanche nell’ambiente politico interno tedesco, dove il partito americano, rappresentato in particolare dai verdi e dai liberali, ha manifestato, invano, la sua contrarietà. 

Naturalmente ci si è mostrati scandalizzati dell’atteggiamento di Scholtz anche a Bruxelles dove si va da tempo preparando, sotto dettatura di oltre atlantico, un documento politico molto ostile al paese asiatico.

Senza certo mettere in dubbio il fatto che il tradizionale modello economico tedesco è in generale in difficoltà ed ha bisogno di una rilevante revisione, pensiamo che comunque non abbia bisogno di molte delle critiche interessate che ad esso fanno riferimento. In ogni caso la risposta tedesca alla confusione del mondo sembra andare in direzione opposta a quella degli Usa e della UE, legandosi anche di più e non meno alla Cina. 

A questo proposito tra l’altro, nel corso dei colloqui cino-tedeschi svoltisi a Pechino, si è convenuta tra le due parti una cooperazione più avanzata nei settori emergenti, quali le nuove tecnologie energetiche, l’intelligenza artificiale, i processi di digitalizzazione. Più in generale, si è raggiunto un consenso sulla globalizzazione, la liberalizzazione del commercio, un mondo multipolare, mentre il cancelliere ha ribadito la sua opposizione ai processi di decoupling.

Guardiamo ai fatti. Da sei anni la Cina è il più importante partner commerciale della Germania, con gli interscambi che nel 2021 hanno raggiunto il livello di 245 miliardi di dollari, mentre nei primi sei mesi dell’anno le importazioni tedesche dalla Cina sono aumentate del 45% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tra l’altro queste ultime sono pari come ammontare quasi al doppio di quelle dagli Stati Uniti (Groll ed altri, 2022). Il deficit commerciale tedesco con il paese asiatico, sempre nei primi sei mesi dell’anno, è salito a 41 miliardi di euro. Ma questo dipende anche dal fatto che le imprese tedesche tendono a produrre in loco, oltre che esportare dalla Germania. In effetti nei primi sei mesi del 2022 gli investimenti diretti tedeschi in Cina sono cresciuti a 10 miliardi di dollari, contro i 5,7 dello stesso periodo dell’anno precedente (de Calignon, 2022).

Analizzando le cose con maggiore dettaglio appare facile capire perché i grandi produttori tedeschi vogliono continuare a fare affari in Cina. 

Ricordiamo intanto che la struttura industriale teutonica si basa su tre pilastri, l’auto, la chimica, la meccanica.

Nel settore dell’auto, le case tedesche vendono nel paese asiatico in media un terzo della loro produzione (solo la Volkswagen vi esita più di 4 milioni di vetture all’anno) e vi ottengono una quota anche maggiore dei loro profitti. Esse hanno ormai nel paese sedici centri di ricerca e sviluppo (di cui 11 aperti dal 2018 ad oggi) per partecipare al fatto che siamo in presenza del mercato più grande del mondo, in cui si vendono ogni anno più auto che in Europa e negli Stati Uniti messi insieme, con prospettive di crescita molto forti, se si considera che al momento soltanto il 12% dei cinesi possiede una vettura; si tratta anche del paese più avanti nelle tecnologie dell’elettrico. La sola BMW vi ha da poco aperto la sua quarta fabbrica. Più in generale gli investimenti tedeschi nel settore hanno raggiunto i 34 miliardi di euro, con la consapevolezza anche del fatto che il paese è il cardine della loro competitività globale. Tra l’altro le imprese tedesche dell’auto hanno integrato molte aziende cinesi nelle loro catene di fornitura globali (Hollinger, 2022). 

Comunque, con l’avvento dell’elettrico le imprese tedesche, che sono state relativamente lente ad investirvi, rischiano di perdere posizioni, mentre la Cina produce tra il 55% e il 60% di tutte le vetture elettriche del mondo. Ricordiamo infine che il settore impiega in Germania direttamente o indirettamente circa 15 milioni di persone.

Nel settore della chimica il ruolo della Cina è ancora più netto. In Europa ormai esso pesa soltanto per il 14,40% del totale mondiale, molto meno del passato, mentre si prevede che esso scenderà ancora sino a circa il 10% nel 2030. In Cina si va in prospettiva, nel 2030, verso il 50% del mercato globale (Boutelet, 2022); chi vuol stare nel settore deve andare in Cina, come fa notare il capo della Basf che, mentre ha delle difficoltà in patria e anzi annuncia una riduzione importante delle capacità di produzione in Europa, sta avviando nel paese asiatico una nuova fabbrica da 10 miliardi di dollari in cui le attività si svolgeranno interamente con energie rinnovabili (Chazan, Yuan Yang, 2022). Incidentalmente il nuovo insediamento, per le sue caratteristiche, appare un segno che la Cina, che una volta era contenta di essere la fabbrica del mondo, sta rapidamente diventando l’innovatore del mondo (Hollinger, 2022). Se volete essere un gigante mondiale della chimica, non potete dire che la metà del mercato mondiale non vi interessa, come afferma sempre il capo della Basf, Martin Brudermuller. E in termini più generali, afferma lo stesso Brudemuller, si sottostima in Germania sino a che punto la nostra prosperità è in parte finanziata dalla Cina. A parte Basf, anche la Covestro ha annunciato rilevanti investimenti nel settore nel paese. Anche questo settore impiega in Germania un grande numero di persone. 

Molto spinta è anche la presenza tedesca nella meccanica (macchine utensili, componenti per auto ed altri prodotti, attrezzature pesanti). 

Intanto il principale produttore tedesco di semiconduttori, la Infineon, ottiene circa il 38% dei suoi ricavi (dati 2021) sul mercato cinese. La conglomerata Siemens, forse la più grande impresa manufatturiera europea, ha annunciato un grande investimento nel campo digitale in Cina. Aldi, la rete di negozi discount, sta programmando di aprire centinaia di nuovi negozi nel paese. Infine la Deutsche Bank ha annunciato l’intenzione di emettere dei panda bond, obbligazioni emesse in yuan sul mercato cinese da entità non residenti.

Nel distretto di Taicang hanno un qualche sito produttivo 443 medie e piccole imprese tedesche, tra le quali sei tra le prime dieci imprese produttrici di macchine utensili. Più in generale, sono presenti nel paese circa 5.000 aziende teutoniche che occupano direttamente 1,1 milioni di persone, mentre nella stessa Germania gli insediamenti cinesi portano ulteriori occupati per circa un altro milione di addetti.

D’altro canto, la Cina fornisce alla Germania molte materie prime critiche come le terre rare, poi degli input intermedi e semilavorati, componentistica per la e-mobility e per l’energia rinnovabile; una recente inchiesta della Ifo ha trovato che il 46% delle imprese industriali tedesche si basano su degli input produttivi intermedi di origine cinese.  

Ma ci sono delle difficoltà. Il problema è semmai che nel tempo le imprese cinesi sono cresciute quantitativamente e qualitativamente in molti settori, così da essere dei concorrenti sempre più temibili per le imprese tedesche e rubare loro quote di mercato. D’altro canto bisogna considerare le pressioni politiche statunitensi (paese che può contare su forti sostegni sul fronte politico interno teutonico e però fortemente contrario ai legami con la Cina), con la parallela minaccia, sempre brandita, di Taiwan.

Così, alla fine, diverse imprese teutoniche sembrano scegliere non tanto di abbandonare la Cina (i casi relativi sono rari), e piuttosto di aprire punti di attività ulteriori in altri paesi, diversificando i rischi, con la politica del cosiddetto 1+1. “Non bisogna mettere tutte le uova in un solo paniere”, è una battuta che circola a questo proposito a Berlino. 

Ricordiamo che il cancelliere tedesco non si preoccupa soltanto della Cina; prima che in tale paese Scholtz si è recato in Giappone e di seguito si sta recando in Vietnam e a Singapore, dove incontrerà i paesi dell’Asean.

Conclusioni

La grande industria tedesca non è sicuramente d’accordo con la linea del decoupling portata avanti da Biden ed in questo appare spalleggiata dal cancelliere Scholtz, mentre da Bruxelles arrivano segnali di crescente ostilità verso il paese asiatico.

E se avessero ragione a Berlino? La realtà dei fatti, soprattutto per la grande impresa europea (e non solo per quella tedesca, che comunque possiede il settore industriale di gran lunga più importante in Europa; sottolineiamo a latere che una parte consistente delle imprese industriali del Nord Italia lavora con subforniture alle aziende tedesche) è quella che apparentemente non ci sono grandi prospettive se non si è presenti in forze nel paese asiatico. Come si legge nel titolo di un articolo apparso di recente sul Financial Times (Hollinger, 2022) “prendersela con la Cina non porterà l’Europa da nessuna parte”. O secondo le dichiarazioni dello stesso Scholtz “bisogna ballare con quelli che ci sono nella stanza, questo si applica alle discoteche come alla politica mondiale” (Chazan, Yuan Yang, 2022). Infine qualcuno ribadisce, rivolto agli stessi compatrioti tedeschi, “non capite da dove è venuta sino ad oggi tutta la nostra ricchezza?” (Chazan, Yuan Yang, 2022). 

L’Europa si trova di fronte alla chiusura di molti impianti industriali ad alto consumo di energia, al progetto non compiuto di un mercato unico, di fronte alla concorrenza di paesi con costi dell’energia molto più bassi, regolamentazioni meno stringenti e un sostegno più generoso da parte dei governi (Hollinger, 2022). Non si capisce come uscire da tale impasse senza una adeguata spinta in direzione della Cina, il cui mercato tende a dominare in maniera crescente molti settori produttivi ed in particolare quelli in cui è fortemente presente l’industria tedesca e non solo quella. Incidentalmente ricordiamo che i dati più recenti indicano un tasso di inflazione pari al 2,1%. Ciononostante è facile prevedere che a Bruxelles si farà di tutto per ostacolare in tutti i modi possibili una linea alternativa. Alla fine la politica tedesca, o almeno quella di Scholtz, sembra per molti versi incline a ricercare una maggiore autonomia strategica, pur nell’ambito di un ancoraggio al quadro occidentale, linea che sembra corrispondere alle necessità vitali dell’economia tedesca. Con questa politica Berlino indica per lo meno una possibilità, se non una scelta obbligata, agli altri membri dell’UE.  

Testi citati nell’articolo

-Boutelet C., La Chine, ligne de fracture inédite au sein du patronat allemand, Le Monde, 4 novembre 2022

-de Calignon G., L’économie outre-Rhin est de plus en plus liée à la Chine, Les Echos, 3 novembre 2022

-Hollinger P., China bashing will get Europe nowhere, www.ft.com, 3 novembre 2022

-Chazan G., Yuan Yang, Germany struggle with its dependency on China, www.ft.com, 1 novembre 2022

-Groll T. ed altri, Was waren wir ohne China, www.zeit.de, 3 novembre 2022

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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