La concorrenza è il motore del commercio, la pubblicità ne è l’anima. Si dice.

Non è per essere laicamente sacrileghi nell’accostare questa doppia proposizione ai fatti della politica di casa nostra, ma la domanda veramente sorge un po’ spontanea: visto il comportamento ambivalente e contraddittorio tra PD e Cinquestelle in Lombardia e nel Lazio, che tipo di pubblicità elettorale, quindi di campagna, intendono fare queste due forze presuntamente progressiste alla prossima tornata delle amministrative regionali?

Ossia: come pensano di convincere i cittadini della bontà delle loro proposte? Con un appello alla massima unità possibile, al “fronte antifascista”, nonostante la separazione col Terzo Polo in quel della regione più ricca d’Italia, oppure facendo riferimento alla purezza ancestrale del pentastellatismo delle origini?

La verità più evidente, quella che almeno si desume da una spicciola analisi dei due contesti regionali, sta tutta nel marasma più completo in cui sia i democratici sia i Cinquestelle sono piombati nel confronto con sé stessi e, quindi, anche con le altre forze di opposizione.

Fatta salva la diversità che intercorre tra i rapporti politici lombardi e laziali (per cui al nord si è fuori del governo locale, mentre nel Lazio tutti insieme appassionatamente), il dato che più salta agli occhi è la totale mancanza di una benché minima progettualità.

E si trattasse ancora di un progetto che volesse richiamarsi ad un progressismo di nuovissima e moderna interpretazione della realtà contorta dal voto politico per le destre, che crescono e crescono sempre più nei sondaggi, si potrebbe ancora trovare al tutto una sorta di giustificazione nell’impreparazione da attribuire ad una alibistica di non poco conto: da un lato il congresso del PD, dall’altro il tatticismo contiano che prova a contendere il campo progressista a quello che, sempre sondaggi alla mano, era il primo partito di questa area vasta e ormai ampiamente interclassista.

Resta la crudezza dei fatti di una politica regionale italiana incapace di seguire un filo logico, che si perde e si appanna proprio mentre cerca uno straccio di lembo di raziocinio nella ricomposizione di un senso ad una opposizione unita e non univoca alle destre.

Mentre Bonaccini si produce in una parziale accettazione del progetto di Calderoli sull’autonomia differenziata, rigettando qualunque presunto rifiuto – a suo dire – ideologicamente aprioristico e aprioristicamente ideologico, Cuperlo e Schlein, i principali suoi contendenti, non offrono una chiara alternativa a tutto questo.

Il PD sembra destinato a dibattersi sofferentemente tra una ricerca del voto borghese che il Terzo Polo intende strappargli sempre più e il voto più marcatamente popolare e di sinistra che viaggia verso il nuovo corso del M5S di Giuseppe Conte.

Non viene fuori nessun istinto progettuale che possa dirsi, in un certo qual modo, agganciato ad una prospettiva sociale, ad una riaffermazione dei valori di uguaglianza che erano, un tempo, la struttura portante della sinistra propriamente detta, intesa e praticata. Sia nelle parole di Bonaccini, sia in quelle dei suoi contendenti alla segreteria nazionale del PD, sia nelle parole di Conte, c’è sempre e comunque un termine di paragone che si riferisce al mercato, alla compatibilità con le esigenze delle imprese, viste come il motore principale dell’economia del Paese.

Il lavoro è una subordinata e rimane tale, anche se, va riconosciuto ai Cinquestelle un tentativo – forse più elettoralmente opportunistico rispetto ad un convincimento reale e sinceramente condiviso con i propri sostenitori – di portare la questione delle evidenti contraddizioni di classe davanti ad una opinione pubblica anestetizzata con promesse populiste e nazionaliste da un lato, con sogni di gloria di un neoprogressismo impossibile dall’altro.

In tutto questo avvicendarsi di velocissimi accadimenti, più che altro spinti dalla furia elettorale di conquista da parte delle destre di governo della regione in cui si trova la Capitale della Repubblica, per mettere un altra bandierina nera sulla cartina dell’Italia conquistata dal conservatorismo illiberale, decisamente liberista, le divisioni del mai veramente stato “campo progressista” (e tanto meno dell’abortitissimo “campo largo“) sono quanto di più fiaccante si possa trovare sulla scena dell’italica politica.

Non ci si divide su temi fondamentali, su grandi questioni che interessano marcatamente le regioni che vanno al voto.

PD e Cinquestelle fanno soltanto a gara per decidere chi dei due avrà, per lo meno nel medio tempo della legislatura in corso, nello specifico in questo primo anno dell’era Meloni, la primazia del consenso di un popolo di sinistra che ora sceglie di più l’usato insicuro del M5S a fronte della crisi economica che emerge sempre più prepontemente e che fa rimpiangere qualunque sussidio e aiuto caduto in disgrazia dopo il voto del 25 settembre.

La povertà estrema della politica nazionale (e, a cascata, naturalmente locale) sta tutta in questa disfida in cui a perdere è un tentativo di ricomposizione di un fronte moderatissimo rispetto ad un altro fronte, quello estremista di destra, che intende proporre adeguamenti regionali alle politiche di Palazzo Chigi.

E’ nella storia dell’Italia novecentesca, e pure in quella post-berlusconiana, il trovarsi a fare i conti con un tentativo di uniformità forzata, di un consociativismo delle posizioni e dei programmi che discendono dal centro alla periferia senza una logica precisa e, soprattutto, senza il benché minimo rispetto delle esclusività, delle differenze da territorio a territorio.

Non che la soluzione possa essere quell’autonomia differenziata calderoliana che, al contrario, intende marcare ancora di più le specificità facendone non tanto una peculiare qualificazione dei territori e delle eccellenze economiche, produttive e sociali, bensì un principio di garanzia di chi è in grado di assecondarsi meglio alle esigenze profittuali del privato (guarda caso un po’ tutte le regioni del nord del Paese) piuttosto che sostenere chi viene tratteggiato come una parte approfittatrice del lavoro altrui, vecchia tesi del leghismo d’antan, del padanesimo separatista, del privilegio settentrionale contro un ipotizzato parassitismo meridionale.

Le divisioni tra PD e Cinquestelle non sono propriamente una espressione di dialettica politica costruttiva. Tutti i limiti della storia dei due partiti sono oggi evidenti e, proprio per questo, si manifestano soprattutto dopo il passaggio elettorale settembrino, dopo l’affermazione di un partito neoconservatore, presidenzialista, interlocutore delle peggiori destre europee e trancontinentali.

Prima ancora che nei numeri, la sconfitta delle non-sinistre è nella plurale offerta politica che non garantisce ad un popolo impoverito, precarizzato al massimo e invisibile a sé stesso nell’immediatezza del futuro che inizia a vivere di giorno in giorno, un punto di appoggio, una spalla su cui anche piangere, ma da cui partire per risollevarsi e guardare ad una alternativa vera alla crisi versatile e multistrato.

Una crisi che mette insieme pandemia, guerra, carovita con uguale e contrario impoverimento dei diritti fondamentali: dalle cure all’istruzione, dal lavoro alle pensioni, dai servizi infrastrutturali alla tutela dell’ambiente e della vivibilità di piccole e grandi città.

Micro e macromondi dentro nazioni proiettate in contenitori tanto più grandi di loro, quanto ricchissime di altrettante contraddizioni che si sommano a quelle già precedentemente descritte e che interessano più strettamente il rapporto tra le istituzioni e le gente.

In tutto questo, come spesso capita osservare, la sinistra di alternativa non gioca nessuna partita veramente importante. Se per importante si intende un qualcosa che tenda ad incidere nei processi politici e sociali, rimarcando posizioni diametralmente opposte ad una narrazione pressoché unica, ad un pensiero niente affatto sotteso che, come si diceva all’inizio, pur richiamandosi e volendo sembrare di sinistra, tuttavia non sfugge alle sirene delle compatibilità del sistema delle merci, dei profitti, della produttività esclusivo appannaggio dell’imprenditoria.

E tuttavia è necessario che Unione Popolare si presenti a queste competizioni: per provare a sé stessa e ai cittadini che è possibile farsi largo in mezzo ad ipocrisie pseudo-progressiste e destre psuedo-classiche; che è possibile insinuarsi per aprire un varco in cui immettere la voce di una alternativa netta, senza se e senza ma, proponendo e riproponendo la necessità di uno scompaginamento della politica italiana, pure di quella regionale, in cui i poli saltino, le alleanze si pervertano e mutino radicalmente.

Non all’improvviso. Semmai seguendo la drammaticità delle condizioni di sopravvivenza di milioni di italiani che assistono all’aumento del costo dei generi di prima necessità, così come della benzina, del gas e della luce. Il tutto mentre Meloni e alleati non indirizzano i proventi delle accise su capitoli di spesa sociale, mentre non tassano gli extra-profitti, mentre si rivolgono ad un ceto medio che è, e rimane, il ventre molle di una borghesia moderna che rischia una retrocessione nella scala del classismo nazionale.

Una sinistra veramente di alternativa deve essere un progetto di lungo corso e di corta azione: deve agire continuamente per farsi conoscere, riconoscere e soprattutto comprendere da chi ha sposato la rassegnazione come stile di comportamento anticivile (non incivile, si badi bene…), come forma di ultima protesta contro una politica sorda ai bisogni primari, ai diritti fondamentali garantiti prima di tutto dalla Costituzione.

Il teatranteggiare del PD, del Terzo Polo e dei Cinquestelle (in parte) a pochi giorni dalla presentazione delle liste in Lombardia e Lazio è l’ennesimo miserrimo spettacolino di una politica di piccolo cabotaggio, di basso profilo e, proprio per questo, di alta, spregiudicata e presuntuosa altezzosità.

Rigettarla senza alcun dubbio è il primo passo per disarticolare questo impiastro generalizzato. Il sostegno ad Unione Popolare è la sostanziazione di questo rigetto: è voto di protesta e di proposta. E’ il primo passo verso una ribellione politicamente ragionata, programmaticamente consapevole: il recupero di un civismo e di una coscienza critica di cui la nuova sinistra antiliberista ha necessità, se vuole essere di massa e non solo di testimonianza.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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