Nel tenere ferma l’analisi delle distanze correnti sul piano economico, sociale, culturale rimane un punto in comune tra l’assalto a Capitol Hill e quello di Brasilia: entrambi i fatti sono espressione di una crisi profonda della democrazia liberale e delle sue forme rappresentative nel senso della personalizzazione e del bipolarismo.

La forma che ha assunto l’assalto alle sedi delle istituzioni è apparsa somigliante ad una “jacquerie” piuttosto che a un colpo di stato: nulla che facesse pensare al Cile 1973.

Una sommossa nata da un punto comune, sia negli USA, sia in Brasile: il mancato riconoscimento di un risultato elettorale da parte del candidato sconfitto che aveva portato avanti, in entrambi i casi, i temi populisti di una destra capace di esaltare -a proprio vantaggio – gli elementi forniti da una grave difficoltà delle espressioni di uguaglianza tradotte sul terreno della pedagogia politica.

La crisi della democrazia liberale ha assunto i tratti della difficoltà della personalizzazione e della divisione “tranchant” in due pezzi delle espressioni politiche della complessità sociale.

In Europa questo fenomeno sta assumendo l’aspetto delle democrazie cosiddette “illiberali” perché nel vecchio continente ragioni storiche rendono molto più complicato il discorso ideologico.

Le “democrazie illiberali” risultano però anch’esse fondate sul mito della personalizzazione e sul “taglio” dell’articolazione politica ridotta a fatto minoritario e marginale dentro ad un quadro di egemonia dell’idea del “governo forte”.

Gli appuntamenti elettorali sono così ridotti a referendum personalistici: accettare questo elemento come inevitabile è stato tra l’altro causa della decadenza di una forma di democrazia complessa come quella italiana.

Una decadenza della democrazia italiana che potrebbe assumere anche una forma tardo-imitatoria di quella difficoltà già segnalata di sul piano della personalizzazione e del bipolarismo: due elementi incapaci, sul piano teorico, a interpretare la modernità delle fratture.

Il punto vero di crisi della democrazia, al di qua e al di là dell’Atlantico, è rappresentato da un deficit di capacità nell’espressione di una pedagogia politica.

L’assenza di un capacità d’espressione della pedagogia politica risulta sicuramente un fattore tipico di identità per la destra più pericolosa (la “semplicità” della destra, tanto per intenderci).

L’idea dovrebbe essere allora quella di lavorare, con tutti gli strumenti disponibili, intorno a quel rapporto tra cultura e politica ormai ridotto all’assemblaggio di un insieme di tecnicismi, in diversi campi da quello accademico per arrivare a quello istituzionale.

Si tratta di partire per una ricognizione di fondo con l’ambizione di ottenere il risultato di provocare una riflessione complessiva tale da superare le settorializzazioni, gli schematismi oggi imperanti che, alla fine, hanno danneggiato non soltanto la qualità degli studi e delle ricerche, ma soprattutto la qualità dell’“agire politico”.

Il riferimento è rivolto a un pensiero politico in grado di esprimere interessi, finalità, aspirazioni ben individuabili che, a partire da precisi punti di vista di soggettività determinate, risulti capace di interpretare le sfide reali della storia, e vi risponda in base a parametri e a esigenze di volta in volta mutevoli.

Serve legarsi a un filo conduttore, coscienti del fatto che ciò non significa che il pensiero politico si sia rivolto sempre ai medesimi problemi attraverso le medesime categorie.

Al contrario è necessario prestare grande attenzione e insistenza nel mettere in luce che, se è vero che i concetti politici sono la struttura-ponte di lungo periodo è anche vero che solo le trasformazioni epocali, il mutare degli orizzonti di senso, il modificarsi catastrofico degli scenari sociali e politici, oltre che intellettuali, hanno consentito ai concetti politici di assumere di volta, in volta, il loro significato concreto.

Non possiamo permetterci di interpretarne il senso soltanto seguendo l’interesse immediato di questo o quell’altro gruppo di potere recuperando la logica dell’uomo/donna che lo interpreta direttamente senza mediazioni facendo credere che lo si faccia nell’interesse di un “popolo” indistinto, o peggio nell’interesse della sua parte più privilegiata e più facilmente manipolabile dai mezzi correnti nella costruzione di una realtà presunta e illusoria.

Di Franco Astengo

Lunga militanza politico-giornalistica ha collaborato con il Manifesto, l'Unità, il Secolo XIX,. Ha lavorato per molti anni al Comune di Savona occupandosi di statistiche elettorali e successivamente ha collaborato con la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Genova tenendo lezioni nei corsi di "Partiti politici e gruppi di Pressione", "Sistema politico italiano", "Potere locale", "Politiche pubbliche dell'Unione Europea".

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